“(…) operare nel filone di Lovecraft non è in ogni modo una ricetta per il disastro estetico. Nel giovane scrittore, una imitazione diligente può servire come valido trampolino per lo sviluppo di capacità letterarie che potranno essere poste altrove a miglior uso; per lo scrittore esperto che cerchi di sfruttare concezioni lovecraftiane in un lavoro inteso ad avere indipendente valore estetico, l’esercizio può risolversi in trattazioni potenti e ben distinte se tali concetti vengono usati entro il quadro della visione estetica propria dell’autore. Il brusco assioma di Samuel Johnson, «nessuno è mai giunto a grandezza con l’imitazione,» resta vero a più di duecento anni dalla sua pronuncia. Ma quegli scrittori che fanno qualcosa di più della mera imitazione di Lovecraft hanno una chance di produrre opere che vivranno, e che meritano di vivere”. (S.T. Joshi)
Questa, tradotta qui per l’occasione, la quarta di copertina di The Rise and Fall of the Cthulhu Mythos, titolo un po’ provocatorio – e giustamente non troppo serioso – del volume che S.T. Joshi dedica alla nascita e gli sviluppi dei cosiddetti “Miti di Cthulhu”, originati da un ciclo di racconti di H.P. Lovecraft e trasformati, “con il passare di strani eoni” e con l’emulazione spesso superficiale di ancor più strani autori, in fenomeno dapprima squisitamente letterario e poi mediatico.
Il libro è ovviamente in inglese, pubblicato in America nel 2008 dalla piccola e specializzata Mythos Books e reperibile tramite librerie online. Il che rende paradossalmente ancor più necessario parlarne, qui in Italia dove la più diffusa critica su Lovecraft – limitandoci a questo tema nell’horror letterario – è pressoché in letargo da decenni, salvo per quelle poche minuscole realtà, quasi invisibili e faticosamente coltivate, da cui proviene guardacaso la rara saggistica italiana di settore a trovar credito finalmente oltreconfine. Insomma, “qui” dove l’unico modo per avere accesso a certe cose è ancora quello di imparare a leggere in un’altra lingua.
L’attenzione, in questo caso, non è tanto verso l’autore di culto per soliti maniaci fanzinàri. Che si voglia o no, “lovecraftiano” è anche da noi un aggettivo d’uso ormai corrente; Lovecraft è uno scrittore di quelli tanto pubblicamente nominati quanto poco effettivamente letti e conosciuti – come Stoker col suo Dracula, per fare un vago paragone. Cthulhu e un’intera genia mostruosa dai nomi imbottiti di “th” sono definitivamente accolti nell’immaginario collettivo, non solo e necessariamente dai giovani: una marea di persone che da decine d’anni interagiscono con essi, con le loro tematiche dal cinema e lo spettacolo alla musica; dai fumetti ai giochi di società, elettronici, di ruolo, di carte collezionabili o quant’altro. Fino alle derive magico-esoteriche di chi prende terribilmente sul serio queste cose.
Gente che si proclama ovunque fan di Lovecraft, convinta di conoscerlo magari in virtù dei libri scritti a nome suo; più spesso dopo anni di controculture varie, di dischi, comics, film e soprattutto moduli di gioco. Al che qualcuno si mette finalmente a leggerne i racconti, possibilmente con un filo di attenzione, e scopre che le pagine che si ritrova fra le mani non coincidono per filosofia e contenuti con quei “Miti di Cthulhu” dati da sempre per scontati.
Tornando all’opera di Joshi, biografo di Howard Phillips Lovecraft e curatore delle definitive edizioni dei suoi testi, The Rise and Fall of the Cthulhu Mythos è essenzialmente un’indispensabile cronistoria del fenomeno esclusivamente ricondotto alla sua matrice letteraria. In nove capitoli, inizia dalle influenze e suggestioni nel primo periodo di attività del sognatore di Providence, quindi lo sviluppo della sua mitologia artificiale in una prima fase, tra il 1917 e il ’26, in cui le pseudo-divinità già fanno da sfondo per l’orrore cosmico; il sovrannaturale ancora gioca un certo ruolo e pseudobiblia quali il Necronomicon sono intesi come dei grimorî custodi di oscuri segreti stregoneschi, anziché le cosmologie o le adombrate cronache pre-umane, non sempre sistematizzate e coerenti, nelle quali tenderanno a trasformarsi in seguito.
Una seconda fase si ha con la pietra miliare di The Call of Cthulhu (1926) che definisce la de-mitizzazione definitiva di alieni umanamente percepiti come déi; lo spostamento più netto verso la fantascienza e una più vasta complessità di temi. Sempre e comunque, le storie utilizzano i “Miti di Lovecraft” – così li chiama Joshi a distinzione dei travisamenti successivi – come un palco su cui mettere in scena il vero dramma: la rivelazione di un universo impersonale e incomprensibile a sconvolgere ogni umana illusione di certezza.
Segue il capitolo sui contemporanei, fra i colleghi, a condividere e scambiare tali o simili mitologie di sfondo: Clark Ashton Smith e Robert E. Howard per lo più di rado e a modo proprio, altri considerando e riproducendone semplicemente i più superficiali aspetti. Fino alla nascita dei “Miti di Cthulhu” per come concepiti e diffusi da August Derleth, sulla base delle proprie convinzioni personali e religiose, e infine su equivoci e su fraintendimenti.
Derleth, sottolinea Joshi, aveva tutto il diritto di scrivere a suo modo una propria narrativa lovecraftiana, inserendovi elementi nuovi come il parallelismo cristiano della caduta dei “malvagi” Grandi Antichi, esiliati e tenuti a bada da una classe di benigni Dei Primigenî; con un massiccio uso di magie e talismani protettivi che non lasciassero l’umanità inerme in totale balia di tali potenze immani; con una proliferazione delle divinità e un loro adattamento a suddividersi in canonici spiriti elementali d’aria, fuoco, terra e acqua. E, sostanzialmente, rendendo questa mitologia demoniaca non più un simbolo di forze inconoscibili ma sola e vera protagonista al centro delle storie, ogni senso di meraviglia e orrore perduto fra genealogie impronunciabili quanto puntigliose e trite meccaniche d’azione coi “buoni” che affrontano i “cattivi”.
Il fatto è che, oltre a scriverla, questa concezione narrativa il fondatore dell’Arkham House la attribuì postuma allo stesso Lovecraft, stabilendone un valore come canone. E firmando “collaborazioni” che sono invece interamente suoi lavori, basati soltanto sui meri spunti delle note nel Commonplace Book, o costruiti su brevissimi frammenti lovecraftiani.
“(...) tutti i miei racconti, anche se possono sembrare non collegati fra loro, sono basati su di una leggenda fondamentale, secondo la quale questo mondo fu abitato un tempo da un’altra razza che, per aver praticato la magia nera, perse il suo dominio e venne scacciata, ma vive tuttora al di fuori, sempre pronta a prender possesso della Terra”.
Questa famosa frase attribuita a H.P. Lovecraft non appare in realtà in alcuno dei suoi scritti. L’intera citazione, unico supporto alla concezione derlethiana del “Mito”, proviene da una lettera del compositore Harold S. Farnese ad August Derleth (11 aprile 1937), nella quale il musicista ricostruiva a memoria quanto gli avrebbe scritto il gentiluomo del Rhode Island nel periodo della loro corrispondenza.
Ma quella, nel frattempo, era l’ottica in cui l’Arkham House stava presentando al mondo l’opera – nonché la complessa personalità – di Lovecraft, fino alla sua massiccia diffusione nei formati tascabili usciti su licenza. Il modello di riferimento per gli acritici appassionati come per i continuatori e gli imitatori innumerevoli, sin agli anni 70 e ancora oltre.
Il saggio prosegue quindi con il passare in rassegna critica gli esempi significativi nella sterminata letteratura dei Cthulhu Mythos, nei vari periodi sino ai nostri giorni, senza pretese di completezza e dichiaratamente tralasciando “il peggio” della formula ripetuta in copia sterile. Soffermandosi, piuttosto, sulle voci più originali che dalla vena lovecraftiana hanno saputo trarre un nuovo apporto, trovando vie del tutto personali da percorrere.
Un influsso creativo senza precedenti, ancor vitale dopo tre quarti di secolo e legato a un’intera tematica anziché, come prima accaduto, a un personaggio – si pensi per esempio a Sherlock Holmes. Esaminarne motivazioni e meccanismi richiederebbe interi altri volumi. Questo, a riassumerne obiettivamente la storia, le origini e l’evoluzione, è il punto di partenza.
The Rise and Fall of the Cthulhu Mythos
S.T. Joshi
Mythos Books, 2008
copertina rigida, 308 pagine, $40.00
ISBN 0978991184
Questa, tradotta qui per l’occasione, la quarta di copertina di The Rise and Fall of the Cthulhu Mythos, titolo un po’ provocatorio – e giustamente non troppo serioso – del volume che S.T. Joshi dedica alla nascita e gli sviluppi dei cosiddetti “Miti di Cthulhu”, originati da un ciclo di racconti di H.P. Lovecraft e trasformati, “con il passare di strani eoni” e con l’emulazione spesso superficiale di ancor più strani autori, in fenomeno dapprima squisitamente letterario e poi mediatico.
Il libro è ovviamente in inglese, pubblicato in America nel 2008 dalla piccola e specializzata Mythos Books e reperibile tramite librerie online. Il che rende paradossalmente ancor più necessario parlarne, qui in Italia dove la più diffusa critica su Lovecraft – limitandoci a questo tema nell’horror letterario – è pressoché in letargo da decenni, salvo per quelle poche minuscole realtà, quasi invisibili e faticosamente coltivate, da cui proviene guardacaso la rara saggistica italiana di settore a trovar credito finalmente oltreconfine. Insomma, “qui” dove l’unico modo per avere accesso a certe cose è ancora quello di imparare a leggere in un’altra lingua.
L’attenzione, in questo caso, non è tanto verso l’autore di culto per soliti maniaci fanzinàri. Che si voglia o no, “lovecraftiano” è anche da noi un aggettivo d’uso ormai corrente; Lovecraft è uno scrittore di quelli tanto pubblicamente nominati quanto poco effettivamente letti e conosciuti – come Stoker col suo Dracula, per fare un vago paragone. Cthulhu e un’intera genia mostruosa dai nomi imbottiti di “th” sono definitivamente accolti nell’immaginario collettivo, non solo e necessariamente dai giovani: una marea di persone che da decine d’anni interagiscono con essi, con le loro tematiche dal cinema e lo spettacolo alla musica; dai fumetti ai giochi di società, elettronici, di ruolo, di carte collezionabili o quant’altro. Fino alle derive magico-esoteriche di chi prende terribilmente sul serio queste cose.
Gente che si proclama ovunque fan di Lovecraft, convinta di conoscerlo magari in virtù dei libri scritti a nome suo; più spesso dopo anni di controculture varie, di dischi, comics, film e soprattutto moduli di gioco. Al che qualcuno si mette finalmente a leggerne i racconti, possibilmente con un filo di attenzione, e scopre che le pagine che si ritrova fra le mani non coincidono per filosofia e contenuti con quei “Miti di Cthulhu” dati da sempre per scontati.
Tornando all’opera di Joshi, biografo di Howard Phillips Lovecraft e curatore delle definitive edizioni dei suoi testi, The Rise and Fall of the Cthulhu Mythos è essenzialmente un’indispensabile cronistoria del fenomeno esclusivamente ricondotto alla sua matrice letteraria. In nove capitoli, inizia dalle influenze e suggestioni nel primo periodo di attività del sognatore di Providence, quindi lo sviluppo della sua mitologia artificiale in una prima fase, tra il 1917 e il ’26, in cui le pseudo-divinità già fanno da sfondo per l’orrore cosmico; il sovrannaturale ancora gioca un certo ruolo e pseudobiblia quali il Necronomicon sono intesi come dei grimorî custodi di oscuri segreti stregoneschi, anziché le cosmologie o le adombrate cronache pre-umane, non sempre sistematizzate e coerenti, nelle quali tenderanno a trasformarsi in seguito.
Una seconda fase si ha con la pietra miliare di The Call of Cthulhu (1926) che definisce la de-mitizzazione definitiva di alieni umanamente percepiti come déi; lo spostamento più netto verso la fantascienza e una più vasta complessità di temi. Sempre e comunque, le storie utilizzano i “Miti di Lovecraft” – così li chiama Joshi a distinzione dei travisamenti successivi – come un palco su cui mettere in scena il vero dramma: la rivelazione di un universo impersonale e incomprensibile a sconvolgere ogni umana illusione di certezza.
Segue il capitolo sui contemporanei, fra i colleghi, a condividere e scambiare tali o simili mitologie di sfondo: Clark Ashton Smith e Robert E. Howard per lo più di rado e a modo proprio, altri considerando e riproducendone semplicemente i più superficiali aspetti. Fino alla nascita dei “Miti di Cthulhu” per come concepiti e diffusi da August Derleth, sulla base delle proprie convinzioni personali e religiose, e infine su equivoci e su fraintendimenti.
Derleth, sottolinea Joshi, aveva tutto il diritto di scrivere a suo modo una propria narrativa lovecraftiana, inserendovi elementi nuovi come il parallelismo cristiano della caduta dei “malvagi” Grandi Antichi, esiliati e tenuti a bada da una classe di benigni Dei Primigenî; con un massiccio uso di magie e talismani protettivi che non lasciassero l’umanità inerme in totale balia di tali potenze immani; con una proliferazione delle divinità e un loro adattamento a suddividersi in canonici spiriti elementali d’aria, fuoco, terra e acqua. E, sostanzialmente, rendendo questa mitologia demoniaca non più un simbolo di forze inconoscibili ma sola e vera protagonista al centro delle storie, ogni senso di meraviglia e orrore perduto fra genealogie impronunciabili quanto puntigliose e trite meccaniche d’azione coi “buoni” che affrontano i “cattivi”.
Il fatto è che, oltre a scriverla, questa concezione narrativa il fondatore dell’Arkham House la attribuì postuma allo stesso Lovecraft, stabilendone un valore come canone. E firmando “collaborazioni” che sono invece interamente suoi lavori, basati soltanto sui meri spunti delle note nel Commonplace Book, o costruiti su brevissimi frammenti lovecraftiani.
“(...) tutti i miei racconti, anche se possono sembrare non collegati fra loro, sono basati su di una leggenda fondamentale, secondo la quale questo mondo fu abitato un tempo da un’altra razza che, per aver praticato la magia nera, perse il suo dominio e venne scacciata, ma vive tuttora al di fuori, sempre pronta a prender possesso della Terra”.
Questa famosa frase attribuita a H.P. Lovecraft non appare in realtà in alcuno dei suoi scritti. L’intera citazione, unico supporto alla concezione derlethiana del “Mito”, proviene da una lettera del compositore Harold S. Farnese ad August Derleth (11 aprile 1937), nella quale il musicista ricostruiva a memoria quanto gli avrebbe scritto il gentiluomo del Rhode Island nel periodo della loro corrispondenza.
Ma quella, nel frattempo, era l’ottica in cui l’Arkham House stava presentando al mondo l’opera – nonché la complessa personalità – di Lovecraft, fino alla sua massiccia diffusione nei formati tascabili usciti su licenza. Il modello di riferimento per gli acritici appassionati come per i continuatori e gli imitatori innumerevoli, sin agli anni 70 e ancora oltre.
Il saggio prosegue quindi con il passare in rassegna critica gli esempi significativi nella sterminata letteratura dei Cthulhu Mythos, nei vari periodi sino ai nostri giorni, senza pretese di completezza e dichiaratamente tralasciando “il peggio” della formula ripetuta in copia sterile. Soffermandosi, piuttosto, sulle voci più originali che dalla vena lovecraftiana hanno saputo trarre un nuovo apporto, trovando vie del tutto personali da percorrere.
Un influsso creativo senza precedenti, ancor vitale dopo tre quarti di secolo e legato a un’intera tematica anziché, come prima accaduto, a un personaggio – si pensi per esempio a Sherlock Holmes. Esaminarne motivazioni e meccanismi richiederebbe interi altri volumi. Questo, a riassumerne obiettivamente la storia, le origini e l’evoluzione, è il punto di partenza.
The Rise and Fall of the Cthulhu Mythos
S.T. Joshi
Mythos Books, 2008
copertina rigida, 308 pagine, $40.00
ISBN 0978991184
Andrea Bonazzi
(pubblicato su In Tenebris Scriptus il 23/03/09)
(pubblicato su In Tenebris Scriptus il 23/03/09)
Nessun commento :
Posta un commento
Lascia un tuo commento.