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lunedì 18 marzo 2013

L’Anima. Memorie di Alberto Sàrcori: nel tardo Ottocento dell’Italia c’è un fantasma

L’Anima. Memorie di Alberto Sàrcori, 2013, copertina“Seduto su la poltrona, a piè del letto, stava il Fantasma. La sua mano sinistra era appoggiata sul piano a così breve distanza da me, che la potevo investigare minuziosamente: questa mano era bianca, molto scarna, d’un garbo signorile, rivestita presso il polso e su le prime falangi da una spessa lanuggine, e ornata da unghie piuttosto lunghe, adunche e ben tenute. Io pensava, trepidante, nell’osservarla: «Può dunque essere un inganno?». E, supino sul letto, evitavo di muovermi, per tema di richiamar su me l’attenzione e lo sguardo dello spettro, che sembrava distratto o assorto”.

Con il romanzo L’Anima. Memorie di Alberto Sàrcori, di Enrico Annibale Butti (1868-1912), Keres Edizioni prosegue nell’opera di meritoria riscoperta di un nostro fantastico letterario tardo ottocentesco, pressoché dimenticato se non forse rimosso dalla cultura italiana del secolo seguente.

Nato a Milano e drammaturgo alquanto celebre ai suoi giorni, il solo a trattare tematiche morali e religiose nel teatro borghese italiano fra i due secoli tanto da venire accostato alla figura di Henrik Ibsen, Butti affronta un soggetto certamente inusuale per una letteratura tradizionalmente ancorata ai temi del Verismo. Quello del fantasma, o meglio della possibilità d’una “sopravvivenza dell’anima” in una storia sospesa fra il dubbio e la percezione soggettiva, in precario equilibrio tra la ragione e la fede, le certezze di un materialismo concreto e razionale contrapposte all’anelito verso la speranza di un mondo superiore, di un ulteriore stato d’esistenza. Una tensione destinata a rimanere irrisolta, almeno agli occhi del lettore, anche davanti alla finale scelta del protagonista.

Enrico Annibale Butti, foto“Alberto Sàrcori, studente milanese prossimo alla laurea in medicina presso l’Università di Pavia, appena uscito da una passionale relazione con la moglie d’un amico, aspira ad amori virginali ed è colpito dalla bella Giovanna, figlia del Maggiore Laerti, di origini calabresi. Inizialmente tenuto a distanza, Alberto fa credere a un reale interesse matrimoniale e viene ammesso a frequentare con assiduità casa Laerti. Poco a poco anche Giovanna, sulle prime molto fredda, si apre con Alberto, tanto che questi spera di riuscire a conquistarla completamente, prima di laurearsi e lasciare Pavia per sempre. Ma c’è un ostacolo: il rivale non è un altro studente, ma il suo fantasma! Giovanna infatti sostiene di essere perseguitata dallo spirito di un giovane, suicidatosi quattro anni prima perché respinto da lei. Si tratta di realtà o di allucinazione? Alberto, ateo e scientista, è sicuro della seconda ipotesi, ma, riuscito a penetrare nella stanza di Giovanna, anch’egli vede (o crede di vedere?) il fantasma, l’anima del titolo. Turbato, dapprima crede di essere preda di una suggestione, rifiutando di prestare fede al sovrannaturale; ma la soluzione che egli cerca di imporsi non lo riesce a convincere del tutto…”

L'Anima, frontespizio della II ed.izione, 1894Originariamente pubblicato nel 1893 dalla Libreria Editrice Omodei Zerini di Milano, il volume è curato e approfonditamente introdotto da Gianandrea de Antonellis, recente autore del saggio monografico Enrico Annibale Butti. L'Ibsen italiano (Edizioni Scientifiche Italiane, 2012), che dell’opera ripropone e annota il testo tratto dalla definitiva edizione 1903 riveduta e corretta dallo scrittore milanese.

Illustra la copertina il Jeune homme à la fenêtre dipinto da Gustave Caillebotte nel 1875.

Maggiori informazioni presso il sito web ufficiale keresedizioni.com, dal quale si può scaricare una anteprima in formato PDF (53,1 Kb) comprendente il Prologo e il Capitolo I del romanzo, mentre il Capitolo II è disponibile in lettura sulla pagina Facebook di Keres Edizioni. A seguito, il booktrailer.

scarica l'anteprima PDF, iconaL’Anima. Memorie di Alberto Sàrcori
Enrico Annibale Butti
Il labirinto delle lamie, Keres Edizioni, 2013
brossura, 192 pagine, €13.00
ISBN 9788897231035




Andrea Bonazzi

mercoledì 27 febbraio 2013

La doppia vita di Stefan Grabiński. Una lettura “meta-fantastica” de Il Villaggio Nero

Il villaggio nero, 2012, copertina
Ogni tanto – molto raramente, in verità – salta fuori un libro che rappresenta una sorta di rivelazione e una scoperta per il fortunato autore del rinvenimento. Nel campo della letteratura fantastica, soprattutto, è oggi difficile imbattersi in opere che non siano le solite note, in letture di qualità che alla forza immaginifica e visionaria delle parole uniscano idee e concetti di pari potenza ed efficacia. Il Villaggio Nero è uno di questi libri. Mirabile, invero, perché uscito fuori quasi dal nulla, da uno scrittore che fino a ieri risultava del tutto sconosciuto anche ai più ferrati cultori del genere. Pubblicato nella bella collana “Biblioteca dell’Immaginario” delle Edizioni Hypnos, per la meritoria cura di Andrea Bonazzi, porta finalmente alla ribalta anche da noi, in modo imperioso, il nome di Stefan Grabiński (1887-1936), unico e solo scrittore di letteratura fantastica nella Polonia tra le due Guerre. Un autore dell’Est europeo, dunque, ma capace di rivaleggiarre e, forse, persino di superare, per concetti ardimentosi e portata cosmica, autentici giganti come Lovecraft, Blackwood, Chambers, Machen o Hodgson. Come loro, Grabiński è stato in grado di costruire con la sua opera inquietanti simbolismi, e di intessere attraverso di essa incredibili atmosfere di orrore in agguato dietro l’angolo

I racconti racchiusi in questa prima (e si spera non ultima) antologia italiana rappresentano una lettura seducente e sconcertante; da essi trasuda un fascino tenebroso, un’allettante, vertiginosa e agghiacciante profondità. È una lettura che colpisce e lascia il segno, che ammalia, che apre a suggestioni arcane e ad altre consapevolezze. È anche un viaggio impressionante nella mente di un uomo che non accettò mai le sue limitazioni umane. Gli appassionati del fantastico siano avvisati: Il Villaggio Nero è un gioiello, per quanto oscuro e tenebroso, uno dei libri più belli, originali e stimolanti usciti in Italia negli ultimi anni nel campo della letteratura fantastica.

Nei dodici racconti qui raccolti si agitano forze terribili, creature e presenze misteriose, incubi indicibili e orrori filtrati dalla frattura stessa della realtà. Vi troviamo uomini solitari che affrontano i fantasmi del proprio inconscio, folli sfide contro l’incarnazione del Tempo, treni spettrali, vampire e donne demoniache, visioni di altre dimensioni, tetri villaggi che nascondono oscuri segreti, e dimore infestate e maledette. E ancora, sogni che prendono vita, cose maligne ed entità eteree e immateriali, ma anche terrori più tangibili che prendono corpo dall’inconscio e dalle aberrazioni fisiche e mentali.

Ma c’è dietro molto più di tutto questo.

Anche per via della strana filosofia che li permea, i racconti di Grabiński sono considerati un caso unico, brillanti e innovativi esempi di un tipo particolare di fantastico che lo scrittore stesso proponeva di chiamare “psicofantastico” (o “metafantastico”) perché scritti in opposizione ai più convenzionali racconti di genere che uscivano in quel periodo. Anche quando usa gli elementi classici del folklore europeo, Grabiński li aggiorna e li riporta al presente, seguendo le contemporanee correnti della scienza e della filosofia. In questo il suo approccio alla letteratura orrorifica è perfettamente moderno, poiché si svincola dagli elementi della semplice tradizione e si arricchisce di simboli, figure e metafore che vanno al di là della semplice rêverie fantastica. La sua opera letteraria è pertanto atipica nel suo genere: in essa il macabro, il sovrumano, il trascendente, si innesta in un substrato che ha le sue fonti tanto nella materia scientifica quanto nei saperi alternativi, ma anche nella psicologia, nella filosofia e nel metafisico.

Le patologie della mente umana sono un perno dei racconti bizzarri di Stefan Grabiński; lo scrittore infatti fu un vero maestro nel rappresentare costrutti neurotici, teorie insane e strane fobie. Perché è alla follia stessa che il genio spesso si rapporta. Come ha scritto un suo studioso e traduttore, Grabiński “unisce le concezioni di antichi filosofi come Eraclito e Platone con la filosofia contemporanea di Henry Bergson e Maurice Maeterlink, in una battaglia contro un mondo moderno in cui il senso originale e vero della natura umana viene cancellato dalle macchine, dai sistemi repressivi e dalla miopia di alcuni” (cfr. Miroslaw Lipinski, Introduzione a The Dark Domain, Dedalus European Classics, 1993).

Ma chi era, davvero, Stefan Grabiński? Al di là della semplice biografia, che lo vuole uomo mite e riservato, maestro in una piccola scuola di periferia, in pochi forse sanno che Grabiński conduceva una doppia vita: di giorno si divideva tra la sua professione di insegnante e quella di scrittore, mentre di notte leggeva avidamente, studiava ed esercitava tutto ciò che atteneva ai domini dell’occulto. Quest’ultimo aspetto ne fa una figura di scrittore eccentrico e maledetto, che conosceva perfettamente le materie arcane, dalla teosofia allo spiritismo, senza tralasciare i classici della demonologia, magia e alchimia. Studiava, dunque, e indagava ogni teoria bizzarra o anticonvenzionale che poteva permettergli di elevare il suo pensiero sopra la realtà limitante della condizione umana, con lo scopo di abbattere le barriere tra i mondi, di penetrare i confini al di là della vita. Riteneva infatti che la morte non fosse la fine. “Ho sempre creduto,” disse a un amico che andò a fargli visita prima che morisse, “che nell’aldilà fiorisca una nuova vita, nuovi mondi che la visione del povero cervello umano non può scorgere”. A questo amico promise anche di ritornare dalla morte, come un fantasma.

Stefan Grabiński, foto
E contro un fantasma Grabiński lottò per tutta la sua breve e disperata esistenza: il fantasma della morte. Afflitto sin da fanciullo dalla tubercolosi, cercò di ribellarsi alla sua infermità e alla tirannia di un corpo minato dalla malattia gettandosi disperatamente nello studio di ogni teoria o scienza, anche la più bislacca, che poteva offrirgli un appiglio o una via d’uscita alla sua precaria condizione. Alla sua fragilità di uomo, Grabiński opponeva il potere della conoscenza. E l’esercizio e lo sviluppo della mente e delle sue facoltà più straordinarie, in modo particolare, lo spinsero a intraprendere un viaggio solitario nei territori più estremi dell’occulto. Attingendo a una varietà di fonti – soprattutto testi medioevali di alchimia e alla filosofia Buddista e Induista, ma anche alle dottrine della moderna scienza – lo scrittore arrivò alla conclusione che è il pensiero a creare la realtà, ed è il pensiero il vero artefice dell’esistenza materiale dell’universo.

Le idee fantastiche di Grabiński trovano la loro fonte nella sua concezione pluralistica e neo-platonica della realtà, secondo cui tutto si muove con l’atto della creazione della forza motrice del pensiero, secondo il concetto dinamico ispirato alle dottrine di Nietzsche e di Bergson, quest’ultimo una riconosciuta influenza sulla sua narrativa. “L’attivazione della mente, la sua fonte come propulsore della realtà” – scrive sempre Miroslaw Lipinski – “è la chiave per comprendere il pensiero di Grabiński e le sue idee circa il soprannaturale. Al contrario di molti scrittori di letteratura fantastica, egli credeva davvero in ciò che scriveva, nel significato divino del verbo scritto. Nulla di ciò che scriveva era per lui semplice intrattenimento: la sua opera è l’espressione di un’anima sincera”. (Cfr. introduzione a The Motion Demon, Ash-Tree Press, 2005).

Dunque, Stefan Grabiński credeva in ciò che scriveva. E i suoi racconti sono, in definitiva, l’espressione di una mente complessa e tormentata, fortemente ossessionata dall’occulto e dai fantasmi di una realtà che gli fu sempre ostile. Come rivelò nelle sue “Confessioni” (Wyznaniach, 1926): “Ci sono stati momenti molto tristi nella mia vita, soprattutto tra i miei 15 e i 21 anni, i cui sudari funebri gettarono come un’ombra nei miei giorni a venire. Conobbi l’orrore misterioso della vita, e mi convinsi che il Male è altrettanto potente del Bene”.

Ne Il Villaggio Nero è raccolta una scelta significativa degli straordinari racconti di Stefan Grabiński, che vanno da “Il demone del movimento”, dove un treno diventa lo scenario, al tempo stesso inquietante e surreale, di un crimine orrendo, a “La stanza grigia”, racconto-incubo di un uomo che si ritrova a vivere in un locale stregato dalla maligna presenza di un precedente inquilino, da “Il villaggio nero”, che dà titolo alla raccolta e che narra di un bizzarro villaggio dai tetri colori, che appare solo in sogno e abitato da strani personaggi, a “La vendetta degli elementali”, in cui un pompiere dalle straordinarie capacità ignifughe, tali da renderlo un fenomeno agli occhi della gente, viene in contatto con creature maligne capaci di manipolare il fuoco, probabilmente esseri di un’ignota dimensione.

Molti di questi racconti sono costruiti secondo un modello simile: dapprima nella vita “normale” dei protagonisti iniziano a manifestarsi fenomeni misteriosi o insoliti, che li portano a confrontarsi con realtà altre, e infine – in finali spesso sorprendenti – si assiste alla trasformazione o metamorfosi interiore dei protagonisti o, più spesso, alla loro rovina.

Luogo d’azione della maggior parte delle storie sono le città di provincia o sobborghi isolati, edifici e case solitarie, stazioni ferroviarie spettrali e abbandonate. La realtà e la psicologia dei protagonisti è rappresentata con realistica attenzione, e c’è un’abile costruzione di stati d’animo particolari dell’uomo che sfociano nell’inquietudine e in momenti creativi di abile tensione.

I motivi espressivi più ricorrenti in questi racconti si possono individuare nei seguenti: 1) il problema dell’identità; 2) l’esistenza di realtà parallele che si muovono dietro il velo della realtà; 3) la vita dopo la morte; 4) il passato che torna a reclamare i suoi debiti con il presente; 5) il fascino della scienza e degli studi sul paranormale; 6) l’elemento della follia e della donna demonio (o femme fatale). Alle volte i temi predominanti divengono quasi lovecraftiani, in quanto costruiti intorno alle aberrazioni della psicologia e alle forze soprannaturali che giacciono in attesa di vendetta, gettando sull’uomo maligni avvertimenti dall’Altrove.

Un paio di storie vengono dalla pregevole raccolta Demon ruchu (1919), un unicum nella storia della letteratura fantastica e soprannaturale, dove tutti i racconti sono incentrati sul tema dei treni e delle ferrovie (un’ossessione di Grabiński), che diventano simboli perfetti di quell’energia o forza spirituale che, secondo alcune filosofie metafisiche, sottende alla realtà influenzando la materia. Bergson chiamava questa forza élan vital, lo “slancio vitale”, che è quella forza naturale e nascosta della vita che fa muovere l’universo e tutte le cose (cfr. Henry Bergson, Pensiero e movimento, Ed. Bompiani, 2000). Il treno, quindi, come un diretto feticcio della filosofia anti-materialistica di Grabiński.

Un’altra delle forze propulsive della vita, il sesso, diventa un ulteriore elemento perturbante nella strana filosofia Grabińskiana, e prende forma narrativa in racconti che, in accordo con le teorie freudiane contemporanee dell’autore, aprono a curiose interpretazioni e a sottesi simbolismi psicoanalitici. Le oscure forze della libido si muovono dietro alcune delle storie più inquietanti e potenti di questa antologia, quali “L’amante di Szamota” o “A casa di Sara”, dove incauti protagonisti smarriscono sé stessi in storie dell’orrido di sconvolgente e conturbante qualità. La prosa di Grabiński (a cui la traduzione di Bonazzi rende un servizio eccellente) è talmente misurata, a tal punto efficace, da riuscire a rendere estremamente lievi, perfino romantiche (ma un romanticismo nero, nerissimo) anche immagini necrofile che in altre mani risulterebbero estremamente violente e gratuite: ed ecco che un bacio dato al capo mozzato di una giovane ragazza (nel racconto “L’engramma di Szatera”) diventa l’ossessione languida e malinconica di un uomo solitario; che un uomo che fa l’amore con un corpo morto di donna, un tronco privo di arti e testa (in “A casa di Sara”) incarna tutta la passionalità di un amante irretito nelle spire del desiderio amoroso irrisolto.

Stefan Grabiński, illustrazione di Gino Andrea Carosini
Non poteva mancare in questa raccolta il racconto che costituisce forse il supremo monumento artistico di Grabiński: “L’Area”. Protagonista ne è il suo alter-ego, Wrzesmian, nel quale prendono piena forma i tormenti dello scrittore che, come il personaggio di carta, viveva isolato e recluso in una magione appartata ai margini della città. Da una finestra che affaccia sulla casa di fronte, solitaria e deserta, Wrzesmian assisterà alla propria dissoluzione fisica e psichica, allorché gli abitanti della dimora inquietante emergeranno come fantasmi dai suoi sogni, veri e propri incubi che si materializzano dall’inconscio delle sue fantasie alterate.

A confermare quindi la lungimirante scelta del curatore, è presente in questa silloge uno dei racconti più strani di Grabiński, il fantasmagorico “Saturnin Sektor”, che dietro una trama sibillina e apparentemente ermetica palesa meglio di tutti gli altri le influenze del già citato filosofo Henry Bergson (1859-1941), la cui opera superò le tradizioni ottocentesche dello spiritualismo e del positivismo ed ebbe una forte influenza nei campi della psicologia, dell’arte e della letteratura dei suoi tempi. In Grabiński diventa un nume tutelare che occhieggia ammiccante dietro il substrato della fantasticheria; nelle folgoranti pagine di Bergson sul sogno e il déja-vu, l’oblio e il sonnambulismo, i fenomeni psichici e il rapporto tra la materia e lo spirito (si vedano in particolare i suoi saggi L’Evoluzione Creatrice, Raffaello Cortina Editore, 2002, Materia e memoria, Laterza, 2009, ma soprattutto Ipnosi e fantasmi, Civitas, 2012, o la bizzarra Conferenza sui fantasmi, Theoria, 1993) ritroviamo l’asse portante dell’opera Grabińskiana.

Ma per tornare al racconto nominato, “Saturnin Sektor”, che elabora sul tema (persistente nell’opera di Grabiński) della paranoia e della schizofrenia, ancora una volta è presente un protagonista alienato i cui deliri ossessivi sfoceranno in un omicidio; in questo caso però non è una persona umana a morire, ma il Tempo stesso, o meglio lo zeitgeist che determina così anche la fine di un’epoca. Qui i fenomeni di personalità dissociata del protagonista rappresentano le opposte teorie del tempo, e quindi un passaggio dalla vecchia epoca verso la moderna; cosicché l’inevitabile omicidio del climax diventa un chiaro simbolo di quel cambiamento sociale e culturale in atto agli inizi del Novecento e ben recepito dall’autore.

Anche in questo racconto Grabiński usa una figura fantastica ricorrente nella sua narrativa: quella del “doppio”. Molte delle sue storie mettono in scena protagonisti tormentati da frammenti della loro personalità inconsapevolmente dissociata, che poi s’incarnano in doppelgänger che li perseguitano. Questi doppi mostruosi di solito diventano odiati avversari, come appunto in “Saturnin Sektor”, o nel grottesco racconto “Strabismus” (non presente in questa raccolta). Altre volte queste incarnazioni della personalità problematica dei personaggi assume la forma di una elusiva femme fatale (“L’amante di Szamota”), ma più spesso la parte alienata dell’Io si manifesta in forme diverse: in “L’Area”, per esempio, si riferisce a un magico spazio dove la bloccata creatività artistica del protagonista è libera di esprimersi e di emergere dal subconscio. Molti di questi racconti possono definirsi – come ha brillantemente suggerito il critico Brian Stableford“studi di personali e interiori frammentazioni” (cfr. St. James Guide to Horror, Ghost & Gothic Writers, a cura di David Pringle, St. James Press, Detroit, 1998, p. 667).

I temi cardine di questa fantastica antologia del bizzarro, come abbiamo visto, sono molteplici e complessi, e vanno dallo sdoppiamento di personalità alla questione del male intrinseco nell’uomo, dall’esistenza di molteplici piani di esistenza, a sogni che si realizzano nella realtà tangibile, ecc. Ma è soprattutto l’ossessione il motivo principale che domina. Gli antieroi dei racconti di Grabiński sono infatti per lo più persone segnate dallo stigma di esperienze dolorose, uomini tormentati da varie turbe e fobie. Ciò diventa chiaro se si guarda anche alla biografia dell’autore. Grabiński fu sempre interessato alla psicologia, alla psicopatologia, alla psichiatria e in generale a tutte quelle scienze cognitive capaci di aprire a nuove e inesplorate dimensioni dell’inconscio. Il suo lavoro da insegnante lo considerava come una necessità, piuttosto che una passione (anche se era un insegnante molto stimato dai suoi colleghi e dagli studenti, che lo definivano un uomo integro e di sani principi), un modo con cui dissimulava il suo vero interesse per le cose segrete e invisibili, arcane e misteriose, intime e profonde, e celate agli occhi degli uomini.

Era un uomo in bilico tra due mondi, Grabiński, quello della realtà e quello dell’ignoto, anche se al di fuori del campo letterario è difficile trovare segni di questo suo coinvolgimento per il trascendentale e l’occulto, passioni che coltivava solitarie, senza condividerle con altri, in una sorta di ascetico cammino che, riteneva, poteva condurlo verso l’immortalità dello spirito. Introverso e schivo, tranquillo e riservato, Grabiński fu sempre attento a non lasciar trapelare nulla del fuoco interiore che lo divorava. Spesso lo si vedeva camminare, da solo, lungo le stazioni ferroviarie, dove raccoglieva spunti e idee per i suoi racconti. La ferrovia e quel che la rappresenta (treni, strade ferrate, binari, rotaie, stazioni) è del resto un luogo topico da sempre, un simbolo di evasione da una realtà monotona e un viatico per l’altrove, (cfr. Remo Cesarani, Treni di carta. L’immaginario in ferrovia: l’irruzione del treno nella letteratura moderna, Marietti, 1993).

Alla luce di tutto questo, due cose risaltano innanzitutto alla mente dopo aver letto i racconti contenuti ne Il Villaggio Nero: a) quanto quelle storie siano fortemente autobiografiche; b) quanto lo scrittore fosse realmente dentro di esse, intrinsecamente legato alla sua opera e ai suoi personaggi.

Stefan Grabiński, questo filosofo misantropo sedotto dal soprannaturale e dall’introversa esplorazione dei misteri della vita, questo ometto strano e appartato dal resto del mondo, eccentrico nelle sue ideee e perso nelle sue fantasticherie, che credeva in ciò che scriveva, nella relatività del tempo, nei poteri della mente umana e nella sua capacità di mutare le cose, finì i suoi giorni il 12 novembre 1936, morendo in povertà, solo così com’era sempre vissuto (a parte una breve parentesi matrimoniale) e dimenticato da tutti. Ma qualcosa è rimasto, e il suo spirito continua a perdurare come lui si era ripromesso. La sua lucida follia, le sue inquietudini, che lo portarono a investigare indifferentemente la scienza e l’occulto, sono tutte lì, nei suoi racconti. Ed è il fantastico più puro, perché forgiato dalle visioni di una mente che non ebbe limiti.



Informazioni sul volume presso il sito dell’editrice www.edizionihypnos.com.

Il Villaggio Nero. Racconti Fantastici
Stefan Grabiński
Biblioteca dell’Immaginario, Edizioni Hypnos, 2012
brossura, 300 pagine, €21.90
ISBN 9788896952085
Pietro Guarriello

giovedì 20 settembre 2012

A Season in Carcosa, nuove storie dal mondo de “Il re in giallo”

A Season in Carcosa, 2012, copertinaUn’antologia di narrativa breve originale, appositamente scritta per rendere omaggio ai temi, i personaggi, l’ambientazione e le atmosfere del classico ciclo weird composto da Robert W. Chambers nella propria raccolta The King in Yellow, del 1895, con il suo mondo macabro, romantico e decadente attorno al proibito e misterioso testo teatrale de Il re in giallo che spinge alla pazzia…

Questo il progetto di Joseph S. Pulver, Sr., che sotto l’egida della americana Miskatonic River Press ha radunato alcuni fra i più rilevanti nomi dell’odierno panorama letterario di genere fra Laird Barron e John Langan, Simon Strantzas, Richard Gavin e tanti altri, dando vita a una novella “stagione” di orrori e meraviglie sul palcoscenico dell’oscura e perduta Carcosa.

“I lettori troveranno in A Season in Carcosa gli strani e misteriosi luoghi del cuore e della mente che dalla follia scaturiscono, e quelle menti e quei luoghi che ne sono toccati sono i reami qui scavati nel profondo. L’eredità di Chambers, fatta di vermi e del sommesso decadimento che reca la lettura della pièce teatrale de Il Re in Giallo, sprona sia nuovi che affermati talenti nel mondo della narrativa horror e weird a cimentarsi con nuove storie del tutto originali in omaggio a quegl’incubi inquietanti. Giunge il crepuscolo a Carcosa, e menti perdute negli specchi della lussuria e del terrore sono travolte in un lascito d’ombre senza misericordia…”

La copertina è del nostro Daniele Serra, ulteriori informazioni presso il sito web di Miskatonic River Press. Qui a seguito il sommario dei racconti, oltre al booktrailer realizzato da Brendan Petersen a presentazione del volume.

My Voice is Dead – Joel Lane
Beyond the Banks of the River Seine – Simon Strantzas
Movie Night at Phil's – Don Webb
MS Found in a Chicago Hotel Room – Daniel Mills
it sees me when I’m not looking – Gary McMahon
Finale, Act Two – Ann K. Schwader
Yellow Bird Strings – Cate Gardner
The Teatre & Its Double – Edward Morris
The Hymn of the Hyades – Richard Gavin
Slick Black Bones and Soft Black Stars – Gemma Files
Not Enough Hope – Joseph S. Pulver, Sr.
Whose Hearts are Pure Gold – Kristin Prevallet
April Dawn – Richard A. Lupoff
King Wolf – Anna Tambour
The White-Face at Dawn – Michael Kelly
Wishing Well – Cody Goodfellow
Sweetums – John Langan
The King is Yellow – Pearce Hansen
D T – Laird Barron
Salvation in Yellow – Robin Spriggs
The Beat Hotel – Allyson Bird


A Season in Carcosa
a cura di Joseph S. Pulver, Sr.
Miskatonic River Press, 2012
brossura, 292 pagine, $19.99
ISBN 9781937408008



Andrea Bonazzi

domenica 16 settembre 2012

The Evil Clergyman: risorge un perduto inedito del cinema lovecraftiano anni 80

The Evil Clergyman, locandinaDiretto da Charles Band, Pulse Pounders è un “perduto” film horror a episodi realizzato per l’americana Empire Pictures nel 1987, mai però giunto nelle sale a causa del collasso finanziario della casa produttrice, nei quali archivi fu disperso senza apparentemente lasciare traccia.

I tre distinti segmenti della pellicola comprendevano due primi e brevi sequel a precedenti titoli prodotti dalla Empire, Trancers e The Dungeonmaster, ma soprattutto un gustoso The Evil Clergyman molto liberamente tratto dall’omonimo racconto breve di H.P. Lovecraft tradotto in Italia come “Il prete malvagio”.

Un episodio di particolare interesse per gli appassionati, poiché riuniva nuovamente l’affiatato cast di Re-Animator (1985) e From Beyond (1986), dalle musiche del compositore Richard Band agli interpreti con il veterano Jeffrey Combs, Barbara Crampton e lo scomparso David Gale, insieme a David Warner che pure frequentò i temi lovecraftiani in Cast a Deadly Spell (1991) e Necronomicon: Book of the Dead (1993).

Un film perduto, dicevamo, o almeno considerato come tale sino al finire del 2011 quando il regista Band annunciò il ritrovamento di una sua copia di lavorazione, dichiarando al contempo l’intenzione di restaurarlo e pubblicarne separatamente ognuna delle parti.

A un anno di distanza, finalmente, dopo la presentazione in “prima mondiale” dello scorso agosto alla convention horror di Chicago, il tanto a lungo atteso The Evil Clergyman troverà una premiere alla presenza dei due protagonisti Combs e Crampton nel corso del terzo annuale H.P. Lovecraft Film Festival di Los Angeles (28-30 settembre 2012).

The Evil Clergyman, scena
The Evil Clergyman, scena
The Evil Clergyman, scena
The Evil Clergyman, scena

Prevista invece al 9 ottobre prossimo l’uscita in formato DVD per la statunitense Full Moon Pictures.



Andrea Bonazzi

giovedì 10 maggio 2012

The Aklonomicon, antologia illustrata lovecraftiana

The Aklonomicon, 2012, cover art by Dave CarsonPrendete una casa editrice tutta nuova, appositamente fondata in Inghilterra, mescolate un buon numero di affermati autori e figure emergenti della contemporanea scena Weird di lingua inglese, aggiungete altrettanti artisti del fantastico dalle più disparate provenienze e tecniche espressive, guarnite con un’inquieta copertina di Dave Carson, infine servite nel nome di H.P. Lovecraft

Date al cocktail un nome evocativo e avrete The Aklonomicon, una antologia di racconti, poesie e arte lovecraftiana a cura di Ivan McCann e Joseph S. Pulver, Sr. per la Aklo Press. Il volume riccamente illustrato è un incrociarsi di collaborazioni fra testo e immagini che riunisce assieme “alcune delle più oscure luci dell’illustrazione e della narrativa weird,” come recita la nota editoriale.

Oltre quattrocento pagine di versi e storie, fittamente illustrate in bianco e nero e a colori, vedono alternarsi i fumetti di Michael Zigerling e di Eric York, gli scritti di Laird Barron, Simon Strantzas, Richard Gavin, Jeffrey Thomas, Stanley C. Sargent o anche della musicista Tara Vanflower, e le tavole dello stesso Dave Carson, di Paul Carrick, Mike Dubish, J.D. Bush, Steve Lines e molti altri… compresi gli italianissimi talenti Daniele Serra e Andrea Bonazzi, forse poco conosciuti in patria ma grandemente stimati all’estero.

Qui di seguito trovate l’indice del libro con i suoi contenuti al gran completo e, più sotto, il booktrailer realizzato da Brendan Petersen. Per chi volesse maggiori informazioni e gradisse acquistarne una copia, sono disponibili le pagine di aklopress.bigcartel.com.

Contenuti:
Cover Art by Dave Carson
Frontispiece by Andrea Bonazzi
Captured in Oils by Simon Strantzas – Art by Ivan McCann
House of the Rising Sun by Edward Morris – Art by Steve Lines
Truckee Stomp by Laird Barron – Art by J.D. Bush
The Girls of the World by Livia Llewellyn – Art by Kirill Rozhkov
Spawn of Cthulhu by J.S. Pulver, Sr. – Art by Mike Dubisch
Flutes by T.E. Grau – Art by Paul Carrick
Zygote’s Fables by Eric York
Letters to G.G. by B.R. Jording – Art by Jason Roberts
Nightmares Of A Pampiniform Mind by Jordan Krall – Art by Eric Reinert
TIME… and FOREVER by Tara Vanflower & J.S. Pulver, Sr. – Art by Daniele Serra
Never Call Anubis Loki’s Robots Cheap-Shit by Garrett Cook, Jordan Krall, & J.S. Pulver, Sr. – Art by Nick Gucker
The Book by Michael Zigerling
Head Soup by Johnny Mains – Art by Ivan McCann
When She Shines, Poems… like chalices by Nova Rupertus & J.S. Pulver, Sr. – Art by Nick Gucker
Counterclockwise by Jeffrey Thomas – Art by Eric York
Brian’s Girl by Garrett Cook – Art by Jacob Parmentier
The God of Suburbia / Silver Night Train by Livia Llewellyn – Art by Kirill Rozhkov
Nyarlathotep... by J.S. Pulver, Sr. – Art by Ann S. Koi
In the Cave. She Sang by T.E. Grau – Art by Paul Carrick
Kristamas as an exhibition by J.S. Pulver, Sr. – Art by Kristamas Klousch
Ana Kai Tangata by Scott Nicolay – Art by J.D. Bush
The Hands of Sopiale by J. Karl Bogartte
Lord of the Hunt by Livia Llewellyn – Art by Daniele Serra
Dark Outcome by Stanley C. Sargent – Art by Tom Moran
If Company Should Come by Edward Morris – Art by David Lee Ingersoll
Whisperers by Daniel Mills – Art by David Lee Ingersoll
Faint Baying from Afar by Richard Gavin – Art by Dave Carson


The Aklonomicon
a cura di di Ivan McCann e Joseph S. Pulver, Sr.
Aklo Press, 2012
brossura, illustrazioni in b/n e a colori, 446 pagine, £14.99



Tatiana Martino

domenica 6 maggio 2012

The Shadow Out of Time: corto lovecraftiano svedese

The Shadow Out of Time, 2012, titoloFrutto di una collaborazione svedese del 2011-2012 fra Millroad Film e The Lone Animator, il cortometraggio The Shadow Out of Time adatta efficacemente fra recitazione e grafica computerizzata l’omonima novella “L’ombra fuori dal tempo”, scritta da Howard Phillips Lovecraft tra il 1934 e il ‘35.

Scritto da Richard Svensson e Daniel Lenneér, che ne hanno rispettivamente diretto le parti filmate e l’animazione elettronica, il corto della durata di circa quindici minuti sviluppa la celebre novella lovecraftiana attraverso la narrazione in voice-over dell’attore inglese John Hutch, su musiche composte da Christopher Johansson.

Åke Rosén interpreta il ruolo del professor Nathaniel Wingate Peaslee, la cui mente è scambiata con quella di un misterioso e antichissimo alieno capace, in questo modo, di viaggiare nel tempo. Thobias Ericsson e gli stessi Svensson, Lenneér e Johansson compaiono invece in ruoli di supporto.

Informazioni, immagini, collegamenti e risorse presso il blog ufficiale di The Lone Animator. Qui a seguito l’intero cortometraggio pubblicato dagli autori su YouTube.



Andrea Bonazzi

mercoledì 30 novembre 2011

The Ballad of King Orpheus in musica per Dampyr

Dampyr - Place to Be - The Ballad of King OrpheusAvevamo parlato alcuni giorni fa della bella storia di Dampyr che reca appunto questo titolo. Se i benevoli lettori ricordano, si era detto che è una storia particolarmente cara a noi liguri non solo per le qualità intrinseche, ma anche perché disegnata dal giovane penciler intemelio Alessandro Scibilia.

Ma La ballata di Re Orpheus è giunta a possedere ormai anche un’altra caratteristica di solito più inusuale per un fumetto. Se può capitare infatti che una storia disegnata faccia deciso riferimento a musiche esistenti, a canzoni, anche a ballate mitiche e talvolta le riporti persino in parte nel testo, rendendole in pratica una sorta di colonna sonora ideale, un percorso di tracce da tenere ipoteticamente sul proprio stereo nel corso della lettura, è decisamente molto più raro che essa possieda una vera e propria original soundtrack studiata e pensata appositamente per l’occasione. È il caso, però, del racconto in questione, ove – guarda caso – proprio la musica gioca un ruolo consistente e anzi assolutamente essenziale all’interno della vicenda.

Chi ha letto la storia ricorderà infatti come tutta la trama ruoti intorno alle malefatte di questo infido lord scozzese, Lord Soules, il quale – prima da vivo e poi post mortem – con la collaborazione della malvagia creatura fatata Redcap perseguita e infesta tutta la location in cui la narrazione si ambienta. Si rammenterà perciò anche che il mezzo principale per combattere i “cattivi” è appunto il canto della ballata del titolo da parte dell’eroe di turno. Dapprima espressione taumaturgica e benefica in grado di proteggere dagli incantesimi maligni, essa assumerà poi effetti negativissimi a causa della maledizione delle forze del male (e qui giungiamo all’inizio dell’albo, ove la melodia viene riscoperta e comincia a far danni) e infine ritornerà a essere uno strumento del Bene grazie all’intervento di potenze superiori, che ne dissolveranno l’aura oscura ripristinandone la potenza primigenia.

Dampyr #140, copertinaLa ballata oggetto del presente articolo esiste veramente, dunque, sia pure a livello di fiction. Dapprima nasce per i testi, grazie alla mente di Mauro Boselli (creatore e principale scrittore di Dampyr), e ovviamente viene scritta in funzione della storia nella quale, come si diceva, verrà cantata dall’eroe già nel primo scontro narrato in flashback con il perverso Lord Soules. Essa viene poi reinventata, tuttavia, grazie all’intervento dell’associazione Autunnonero che si occupa di folklore e horror organizzando il relativo Festival annuale in Liguria, principalmente nella provincia di Imperia. Tale associazione è legata per vari motivi a filo doppio con Dampyr, non ultimo l’amicizia con Boselli oltre al fatto che Alessandro Scibilia ne sia il vicepresidente e il fratello Andrea il presidente stesso.

Grazie all’interesse degli Scibilia, dunque, e alla loro inventiva, con il pieno accordo di Boselli e della Sergio Bonelli Editore, nasce il progetto di trasformare la ballata – preesistente nella sceneggiatura del fumetto – anche in una canzone vera e propria, cosa che viene fatta coinvolgendo il musicista Mariano Dapor. Già noto per la sua reinterpretazione di famosi pezzi metal (soprattutto degli Iron Maiden, dei Metallica e degli Apocalyptica), ma anche per la composizione di brani originali nel corso della collaborazione con Fabrizio Bruzzone nel duo Cellobass Metal, Mariano coinvolge il suo altro nuovo gruppo, i Place to Be, nell’operazione dando il via a un brainstorming e a un lungo, impegnativo lavoro di interpretazione e sviluppo creativo che porterà all’esecuzione finale del suggestivo pezzo, del quale a seguito si dà un assaggio.



E dunque ora La ballata di Re Orpheus ha preso vita, ed è pienamente acquistabile su Itunes da parte di tutti gli interessati. Chi scrive conosce bene la bravura di Mariano Dapor e ha avuto modo di udire anche i Place to Be, che si sono dimostrati ottima e solida band dalle validissime capacità musicali, vocali ed interpretative per cui, a suo modesto avviso, l’acquisto del brano è pienamente consigliato. Senza dimenticare che, in aggiunta, è anche disponibile presso lo shop online di Autunnonero la stampa con l’illustrazione originale di Alessandro Scibilia che funge da copertina per il pezzo.

Gli appassionati di folklore, di musica, di fumetto sono avvertiti: come lasciarsi sfuggire un tale connubio? Vogliamo perdere l’occasione di leggere (o magari ri-leggere) il numero di Dampyr con il sottofondo delle autentiche note e della melodia che è capace di scacciare spettri e fantasmi e ristabilire l’ordine e la serenità?

Che sia forse solo l’inizio di un nuovo modo di concepire il medium fumetto che via via potrebbe anche prendere piede? Vale la pena di osservare e... ascoltare.

Umberto Sisia

martedì 22 novembre 2011

John Kenn, storie nere su sfondo giallo

John Kenn, '117'
John Kenn, '43'
John Kenn, '174'
John Kenn, '182'
John Kenn, '41'
John Kenn, '135'
John Kenn, '118'

Classe ’78, danese, due gemelle che gli tolgono molto tempo e l’hobby di disegnare. Fin qui sembrerebbe un uomo normale, se non fosse che illustra mostri su post-it.

John Kenn Mortensen, in arte Don Kenn, scrive e dirige spettacoli televisivi per bambini. E quelli che lui stesso definisce “scarabocchi” tali non sono, ma si rivelano essere interessanti bozzetti a penna dal tratto originale e minuzioso. Kenn lascia che siano le proprie illustrazioni a raccontare le storie che di volta in volta ci propone nel suo blog, al punto di farne una sorta di “Mutus Liber” dell’illustrazione, totalmente privo di didascalie (fatta eccezione per le tre righe e una parola della biografia).

La narrazione muta evoca paesaggi nordici con alberi ad alto fusto dietro i quali si nascondono giganteschi mostri pelosi, casette di legno che sembrano uscite dalle fiabe, fantasmi emaciati, vampiri senza piedi fluttuanti sui foglietti gialli. Alci, renne e animali del bosco che si stagliano su due zampe, giganteschi, umanizzati a osservare curiosi il genere umano, e ancora esseri fatti di campiture a inchiostro che camminano sulle onde del mare, ghoul ghignanti e altre creature che sono inquietanti tanto più quando sembrano strizzare l’occhio a un certo gusto per l’illustrazione per ragazzi.

Il supporto sul quale realizza le sue micro-opere, il post-it, costringe l’osservatore a guardare meglio, rivelandosi essere un espediente formidabile per tenere viva l’attenzione e coinvolgerlo nelle minuscole storie nere su sfondo giallo che Kenn ci racconta da abile erede della tradizione scaldica della sua terra.

Gallerie: blog ufficiale johnkenn.blogspot.com; pagina personale su Facebook.



Tatiana Martino

mercoledì 16 novembre 2011

Balene e no. Un viaggio minimo nella simbologia di Moby Dick

'Moby Dick Rises', illustrazione di Rockwell Kent, 1930Sono sempre stato affezionato ai luoghi comuni poiché, contrariamente a quanto si pensa di solito, sono convinto che nella maggior parte dei casi della vita quotidiana essi siano portatori di una verità talmente evidente da essere persino incontrovertibile. Si potrà forse accusarli di essere banali, vieti e ritriti, ma difficilmente potranno essere tacciati di insincerità.

L’affare si complica, tuttavia, quando i luoghi comuni iniziano a essere applicati ai prodotti della letteratura, del cinema, dello spettacolo, poiché – stavolta sì – potremmo correre il rischio di andare a parare decisamente da un’altra parte e a parlare di un’altra cosa rispetto a ciò che si sta invece esaminando. Non sempre quello che si sa di una qualche opera, infatti, corrisponde effettivamente a quello che essa è. Non sempre nella semplificazione dell’immaginario popolare l’idea che si ha di una storia corrisponde al vero.

Qualche esempio? Jonathan Swift non è stato l’autore di una favoletta con omini centimetrici e immani giganti come di solito si vuol credere... Un tal Don Quixote non era semplicemente un bislacco tontolone protagonista di epopee comiche e picaresche... Le Fiabe dei Grimm non sono affatto materiale per bambini (tutt’altro) e i due stessi autori non sono da ricordare per quello... La Storia Vera di Luciano narra del primo viaggio spaziale della storia e di numerose altre meraviglie fantastiche ma non è il primo romanzo di fantascienza... E si potrebbe continuare a dismisura.

Tale la premessa. Riflessioni di questo genere mi sono infatti balzate alla mente con prepotenza qualche tempo addietro. Dal momento che in quei giorni mi ero ritrovato a rivedere visionandole su YouTube alcune sequenze dal Moby Dick, per la regia di John Houston e sceneggiato dal grandissimo Ray Bradbury, al di là dell’indubbia qualità della pellicola e della nota bellezza delle immagini mi colpì soprattutto il tenore dei commenti di coloro che avevano già guardato il video.

All’interno di tali commenti, infatti, lungi dal contestualizzare quanto si era visto e dal giudicarlo per i suoi contenuti effettivi, gli spettatori di internet non facevano altro che sfruttare l’occasione del film per battaglie ambientaliste altrimenti giustissime ma totalmente inappropriate per quella sede, deviando totalmente – questa la cosa peggiore – dal contenuto reale dell’opera a fini biecamente (per quanto fors’anche in buona fede) propagandistici. Si arrivava addirittura al punto di insultare il povero capitano Achab augurando la morte a tutti coloro che svolgessero una professione consimile.

Un ragionamento di questo tipo, al di là di tutte le altre considerazioni fattibili, non poteva che condurmi a una sola conclusione fondamentale: questa gente non aveva capito assolutamente nulla del film e – se consideriamo che si tratta di una trasposizione cinematografica molto fedele – in fin dei conti nemmeno del libro (quand’anche qualcuno lo avesse letto).

Con molta umiltà mi sono quindi accinto a cercare quantomeno di riflettere nelle sue linee essenziali su che cosa sia Moby Dick: forse sarà solo una goccia nel mare del fraintendimento della communis opinio (e torniamo al punto di partenza), ma comunque un tentativo di fare chiarezza su uno dei romanzi fondamentali non solo della letteratura americana, ma dell’ingegno umano tout court. Mi pare opportuno iniziare con un punto basilare sul quale si innesteranno poi tutte le altre possibili considerazioni.

Moby Dick non è un avventuroso romanzo di avventure marinaresche, né tantomeno è un’opera realistica. Per meglio dire, solo al livello più immediato, più apparente e a quello in fin dei conti meno sostanziale potremmo attaccare questo tipo di etichette al capolavoro di Herman Melville. Moby Dick è piuttosto, fin dalla prima pagina e in modo assolutamente prepotente, un romanzo dai caratteri gotici, fantastici, allucinati, una meravigliosa cavalcata simbolica attraverso molteplici strutture di senso differenti.

Moby Dick, 1956, locandina italianaIn tal modo, la Pequod non è una semplice baleniera, ma tutt’altro: equipaggiata in circostanze straordinarie, straordinaria e dissonante nelle componenti della sua ciurma, essa pare fin dal principio nient’altro che un prolungamento fisico del suo nascosto cervello, il capitano Achab. Anche il suo leggendario narratore – con l’altrettanto leggendario “Call me Ismahel” che dà il via a una narrazione – fin dalle prime battute conferisce all’esposizione delle vicende un tono nettamente profetico, quello di una rivelazione ricca di un profondo ed arcano significato che va decisamente al di là di quello di un semplice viaggio baleniero. Ciò non toglie che la precisione realistica del testo sia enorme, che la descrizione delle pratiche di navigazione sia accurata così come quella, per esempio, delle procedure di dissezione e lavorazione delle balene uccise allo scopo di ricavarne fino all’ultima stilla di olio. Ma – si potrebbe affermare – è tutta scenografia, o quantomeno sottotesto necessario poi a parlare di altro.

Non sono questi, perciò, il valore centrale e l’oggetto precipuo del discorso. Essi si iniziano a cogliere quando entra in ballo e proprio attraverso l’elemento del dissonante. L’equipaggio della Pequod, composto di sanguemisto e individui che si direbbero sbandati o di incerta origine, è un chiaro indizio dell’atmosfera simbolica che si vuole costruire, alludendo a una caotica stranezza della spedizione in partenza. Numerosi altri esempi si susseguiranno.

Ovviamente il centro di tutto il mondo della nave è il suo demoniaco capitano, una delle figure più iconiche, monumentali e pervasive della storia della letteratura, ma che non viene dal nulla ed ha i suoi bravi antecedenti.

Il capitano Achab, giustappunto. Egli è sicuramente il discendente di tutta una numerosissima serie di malvagi gotici. Precedentemente arroccati in castelli sugli Appennini, ora nella loro veste più innovativa questi tipici villains della letteratura si ripresentano sul mare. Hanno cambiato pelle, ma sono nonostante tutto riconoscibilissimi. Il marchio di fabbrica che manifestano nello sguardo infuocato e “divorantemente” ossessivo ce li presenta subito come tali (e parlo al plurale poiché Achab non sarà certo l’ultimo della serie... pensiamo anche solo – in forme diverse – ai pirati di Willam Hope Hodgson). Così pure l’aura di minaccia che ne pervade la personalità è tipica del genere. Come i vari Montoni, Schedoni, Ambrosio e via discorrendo, anche il baleniere è caratterizzato da una storia pregressa, che si apprenderà fosca e drammatica, segnata in modo devastante dal primo incontro con la Balena, il quale gli era costato la perdita della gamba. Un altro indizio di deformità fisica che introduce nel mondo della difformità psicologica di un contorto e maniacale modo di pensare.

Ma Achab non è solo questo: è un personaggio dalla statura titanica, legato a triplo filo alle tematiche del romanticismo: da una condizione di normale baleniere, egli matura grazie a Moby Dick quella volontà di ricerca e quella tensione verso il limite che caratterizzano questo tipo di personaggi. È un’ossessione magnifica, quella di Achab, ed è l’incarnazione della spinta a osare e a sfidare, per quanto tale impulso sia motivato essenzialmente dalla causa motrice di una vendetta delirante. Facendo riferimento al film, Gregory Peck è straordinario in questo senso nel dare vita a un’interpretazione del marinaio cupa, furiosa e contemporaneamente imponente. Achab come un novello Ulisse è colui che si erge titanicamente sapendo in cuor suo di essere già destinato alla sconfitta. Contro gli elementi, contro lo stesso Dio, è colui che non rinuncia pur di conoscere, sapere, confrontarsi; è colui che allo stesso modo di Ulisse alla fine è punito e si inabissa, che è empio ma che pervicacemente si aggrappa al suo ideale e per questo motivo appare anche oscuramente affascinante, quasi un modello da imitare.

È questa la vera essenza di Achab? Forse... e forse no. Possiamo poi essere così sicuri che Achab abbia solamente tutte queste sfumature negative? La grandezza del personaggio è che esso in realtà non fornisce risposte certe. Accanto a questa interpretazione “demoniaca” ha giusto rigore e ragion d’essere anche un’interpretazione positiva. Egli infatti, per i medesimi motivi romantici detti prima, rappresenta pur sempre il titano che sopravanza tutti gli altri. Il signor Starbuck, Ismaele, Queequeeg, tutti gli altri personaggi sono evidentemente di una statura inferiore, non eroica. Di fronte alla giusta sfida di Achab alla balena, essi talora vorrebbero ritirarsi, cacciare normalmente come le altre baleniere, deporre le armi. Solo il capitano persiste indefessamente perché la lotta contro Moby Dick, ça va sans dire, non è una semplice lotta fra un uomo e un animale. Tutt’altro.

Moby Dick, 1851, frontespizioE siamo arrivati così a un problema centrale che si riferisce a Moby Dick, all’altro polo magnetico del romanzo che ne costituisce il necessario bilanciamento nelle dinamiche di contrasto che sono indispensabili affinché la trama possa procedere. E del resto è ovvio che perché ci sia qualcuno che sfida (che si trovi esso dalla parte del giusto, dello sbagliato o a metà fra esse) occorre necessariamente qualcuno (o qualcosa) che sia oggetto della sfida venendosi a configurare in un ruolo antagonistico.

Ecco pertanto la funzione della balena che dà il titolo all’opera melvilliana la quale, fra l’altro, ho sempre pensato avrebbe potuto continuare a intitolarsi Moby-Dick; or, the Whale, anche nelle innumerevoli edizioni e trasposizioni successive. Questo appunto perché il motivo della caccia al cetaceo non riguarda affatto la sfera materiale, cosa che risulta palese fin dai primi capitoli (ove esso è oggetto di un favoleggiamento quasi mitologico), per passare a quelli centrali (ove la caccia alle balene reali si contrappone ideologicamente a quella principale, nella quale il mostro brilla per assenza, inafferrabilità, fuggevolezza); l’impressione è totalmente confermata nei capitoli finali, nei quali il leviatano infine si manifesta in tutta la propria alterità. La sfida con la balena – ed è ciò che gli spettatori di YouTube non sono nemmeno lontanamente riusciti a capire – coinvolge non tanto una caccia reale, quanto piuttosto gli ambiti dai contorni sfuggenti ed ingannevoli del fantasmatico e quelli innervati nella natura più profondamente ontologica dell’essere del metafisico.

Come tutti sanno, poi, Moby Dick è una balena bianca, di un colore del tutto innaturale, simbolico. Il capitolo fondamentale dal titolo “La bianchezza della balena” è una cerniera essenziale nell’individuazione del significato del testo, ma anche senza di esso si potrebbe cogliere il valore di questo aspetto essenziale. Semanticamente il bianco non è solo il colore della purezza e del candore, della spiritualità e dell’idealismo, bensì a un livello ancora più profondo lo è del lutto e della morte. Il pallore è la caratteristica dei cadaveri, delle lamie, delle larve, di tutto ciò che rimanda alla costellazione di significati connessi con l’aldilà, tant’è vero che presso diverse culture in occasione dei decessi ci si riveste o ci si tinge la pelle di bianco. Già in Coleridge, il Vecchio Marinaio, autore di un atto di ribellione in qualche modo accostabile a quello di Achab aveva a che fare con un albatro portatore di energie arcane di colore bianco. Così come è di un bianco perfetto il colore della pelle dell’essere misteriosissimo che compare nelle ultime, enigmatiche pagine del Gordon Pym di Edgar Allan Poe.

Questo per dire che il sostegno alla presente tesi è fondatissimo e individuabilissimo. E dunque pare abbastanza evidente che Achab intraprenda una lotta contro il Leviatano, il mostro, la balena bianca allo scopo non solo di vendicarsi della perdita del proprio arto, ma ancora di quella della propria sanità mentale. In seguito al loro primo drammatico scontro principia una lotta fantasmatica sia contro i propri spettri personali, sia contro le forze oscure che infestano la realtà e – di più – contro un ente demonico che incarna e concretizza l’intera malvagità dell’essere. Il faccia a faccia con la balena ha per Achab un sapore lovecraftiano ante litteram poiché mina la sua identità serena e ordinaria precedente (sia a livello lavorativo che familiare) e lo precipita dinanzi al caos e al disordine, ne infrange le certezze costitutive, ne muta il carattere, lo trasforma nel coacervo inconsulto di tratti caratteriali dei quali si è detto: ossessione, romanticismo, eroismo, titanismo, maniacalità, irragionevolezza e tutto ciò che si è andati finora individuando.

Proprio per questo il combattimento del capitano contro Moby Dick risulta eroico, in quanto appunto costituisce anche un sacra missione della quale egli si è autoinvestito nel voler ritrovare ed eliminare definitivamente “il gran demonio dei mari”, ma che evidentemente non è solo limitato ad essi ma suggerisce una portata più ampia e cosmica.

Quale delle due interpretazioni proposte sarà dunque più sensata? Achab è un meraviglioso pazzo monomaniaco che segue le sue ossessioni di vendetta e trascende i limiti assegnati all’uomo venendo per questo punito (e la sua ciurma – seguendone le sorti – è condannata anch’essa a condividerle subendo la medesima sventura, tranne Ismaele che “solo è sopravvissuto per raccontarlo” tramite lo stupendo paradosso della sopravvivenza sulla bara preparata da Quequeeg)? O è un paladino della lotta contro il Male assoluto che fatalmente e pessimisticamente si trova costretto a cedere ad esso nella propria solitaria e superomistica battaglia? Come ho già accennato, penso che in fin dei conti non possa esserci una risposta univoca, o meglio, che entrambi i tipi di letture possano essere giudicati validi contemporaneamente. Dipende solo dall’angolatura di osservazione che si sceglie, dopotutto.

Meglio lasciare perdere le linee di interpretazione insensate e lasciare parlare il testo. Le opere hanno la loro identità e sarebbe opportuno ascoltarle piuttosto che andarsi a impelagare in discussioni prive del benché minimo senso… Ma per alcuni utenti internet usare il cervello evidentemente è troppo impegnativo, come purtroppo anche nella vita reale di tutti i giorni.



Umberto Sisia

mercoledì 19 ottobre 2011

Monsters in America: la storica ossessione americana per l’orrore

Monsters in America, 2011, copertinaLo storico W. Scott Poole esplora i terrori nascosti fra i più oscuri recessi della storia americana nel suo Monsters in America: Our Historical Obsession with the Hideous and the Haunting, un saggio appena pubblicato negli Stati Uniti per la Baylor University Press.

Dai leggendari serpenti marini alle storie sugli zombie, dai processi alle streghe all’ossessione per le invasioni aliene, da Dracula a Norman Bates, l’autore ci accompagna a scoprire i veri orrori all’origine del fascino da sempre esercitato sull’intera cultura americana dall’“orribile” e il “mostruoso”.

“Il passato dell’America si potrebbe vedere come una sorta di film horror, forse persino uno «slasher» di quelli a basso budget,” afferma Poole. “Si presenta davanti a noi grondando sangue, le proprie vittime disseminate sul terreno, nella luce di un sinistro chiar di luna a rivelarci quegli orrori che non si imparano sui libri di storia in terza media”.

I mostri come un riflesso delle ansie comuni sulle identità politiche, la religione, le forze economiche, le dinamiche di genere e razziali, i cambiamenti della società. Attraverso i secoli, le spaventose tradizioni popolari, la caccia alle streghe, le leggende sull’esistenza di bestie strane e singolari, le storie di fantasmi, il cinema e la letteratura di fantascienza e dell’orrore, il panico sul satanismo e le leggende metropolitane sono grado di rivelare inquietanti verità circa la storia americana.

Fra gli abbondanti esempi, i conflitti religiosi dietro alle persecuzioni per stregoneria del New England puritano; i mostri marini e quelli dei boschi o del deserto, portati dal folklore europeo e sviluppatisi con i racconti di frontiera; gli orrori più che concreti della schiavitù, quelli nati dalle carneficine della guerra civile e dalle cronache di serial killer; i mostri dell’era atomica e le psicosi paranoiche della guerra fredda, sino all’idea stessa degli alieni come forza d’invasione o, agli antipodi, quali salvifici messia in grado di salvare la nazione da sé stessa…

E ancora l’horror degli slasher movies, da Psycho a Halloween nelll’invadere e turbare la sfera del privato, le relazioni e il sesso, la famiglia; le orde apocalittiche e spersonalizzate degli zombie, o quelle sempre più seducenti e glamour dei vampiri, fino alle incognite future del mostro “post-umano”.

“Ogni periodo storico decide quali siano i propri mostri, creando quelli di cui più ha bisogno,” conclude W. Scott Poole, critico della cultura pop e professore associato di Storia presso il College of Charleston, autore fra l’altro del precedente studio Satan in America: The Devil We Know (2009).

Maggiori informazioni sul libro presso le pagine web della Baylor University Press e, con ampie possibilità di approfondimento, sul sito ufficiale www.monstersinamerica.com. Un’occhiata ai contenuti del volume è possibile darla anche attraverso le anteprime del servizio “LookInside!” di Amazon. Qui a seguito, il booktrailer.

Monsters in America
Our Historical Obsession with the Hideous and the Haunting
W. Scott Poole
Baylor University Press, 2011
copertina rigida, illustrazioni in bianco e nero, 295 pagine, $29.95
ISBN 9781602583146



Andrea Bonazzi

martedì 11 ottobre 2011

L’orrore di Dunwich in teatro per il London Horror Festival 2011

The Dunwich Horror, 2011, locandina teatrale“In una solitaria e curiosa località rurale presso un piccolo e fetido villaggio, sulla remota e cupa cima di un monte un vecchio arcigno stregone grida verso il cielo! Qui nasce il destino dell’umanità”.

Scritto nel 1928 e pubblicato un anno più tardi sul numero di aprile di Weird Tales, “L’orrore di Dunwich” è una tra le storie più note di Howard Phillips Lovecraft, talora controversa fra gli entusiasti dei “miti di Cthulhu”, che vi ritrovano tutti gli elementi a loro maggiormente congeniali, e pareri letterari che vedono piuttosto il racconto come una regressione estetica verso i convenzionali canoni horror del “bene contro il male”.

Adattato in forma di radiodramma fin dal 1945, e al cinema fra le curiose versioni del 1970 e del 2009, The Dunwich Horror giunge ora sul palcoscenico del Courtyard Theatre di Hoxton, a Londra, in cartellone dal prossimo 25 ottobre al 6 novembre nell’ambito del London Horror Festival 2011.

Portata in scena dalla compagnia della Ororo Productions, la rappresentazione scritta e diretta da David Dawkins sul testo di H.P. Lovecraft “si popola dun cast di personaggi meravigliosamente contorti, di strani mostri e di sinistramente onnipresenti caprimulgi”.

“Lo script ha preso inizio come la lettura di un monologo, essenzialmente adattato per un paio d’ore di durata,” scrive il regista e autore nel suo comunicato stampa di presentazione. “Lo spettacolo vi ha aggiunto personaggi ed elementi teatrali, ma il copione resta ancora molto fedele alla storia originale”.

Informazioni complete presso la pagina ufficiale sul sito web del London Horror Festival. Qui sotto il video trailer per la versione teatrale britannica di The Dunwich Horror.



Andrea Bonazzi

lunedì 3 ottobre 2011

Vampiriana. Novelle italiane di vampiri

Vampiriana. Novelle italiane di vampiri, 2011, copertinaAbbandonate le librerie al solo vampirismo su misura dei romanzi rosa per teenagers, passa ai piccoli editori e alla diretta distribuzione in rete l’arduo compito di mantenere viva – o dignitosamente “non-morta”, se non altro – l’antica tradizione narrativa delle storie di vampiri, recuperandone oltretutto quelle fonti nazionali tanto a lungo rimaste a prender polvere fra le pagine di libri e riviste italiane tra la fine dell’800 e il primissimo XX secolo, sepolte nello “strano e meraviglioso” e nel fantastico tanto a lungo rimosso dalla nostra memoria letteraria.

Secondo volume nella collana “Il labirinto delle Lamie” dopo il romanzo tardo-ottocentesco Il vampiro. Storia vera di Mistrali, Keres Edizioni propone la nuova antologia Vampiriana. Novelle italiane di vampiri, una selezione a cura di Antonio Daniele che riunisce assieme otto fra racconti e novelle brevi a tema vampirico pubblicati nel nostro paese tra il 1885 e il 1917, precedendo così anche il canonico Dracula di Bram Stoker tradotto e apparso in Italia soltanto nel 1922.

Opere brevi, alcune ristampate per la prima volta dall’uscita e quasi tutte corredate dalla riproduzione delle proprie illustrazioni originali, le storie si presentano in diversi approcci – dal vampiro psichico e razionalmente considerato in termine pseudo-scientifico, come quelli di Giuseppe Tonsi, di Francesco Ernesto Morando e del ben noto racconto di Luigi Capuana, a quello soprannaturale, nel filone folklorico rurale filtrato dalle cronache del ’700 per Enrico Boni, in quello stesso della narrativa gotica nordeuropea come in Daniele Oberto Marrama, o nell’esotimo archeologico di Giuseppe De Feo, fino alla “meraviglia naturale” del mitizzato pipistrello succhiasangue e delle sue superstizioni, nei resoconti di viaggio e avventura di Vittorio Martella o del classico Emilio Salgari, celato appena dietro lo pseudonimo di Guido Altieri.

Ampia ed esaustiva l’introduzione del curatore nel presentare ognuno degli autori, in un volumetto ben corredato di fonti sia per le edizioni originali che per le molte loro tavole d’epoca inserite in bianco e nero fuori testo.

Informazioni e acquisto diretto preso le pagine web dell’editrice su keresedizioni.com. Qui a seguito un sommario dettagliato dei contenuti del libro, seguito dal booktrailer.

Introduzione – Antonio Daniele
Vampiro innocente – Francesco Ernesto Morando (in Fanfulla della Domenica n.33, 16 agosto 1885)
Il vampiro della foresta – Guido Altieri [Emilio Salgari] ([1902] da Il vampiro della foresta, 1912, illustrazioni di Corrado Sarti e Silvio Talman)
Il vampiro – Giuseppe Tonsi (da Il vampiro. Racconti incredibili, 1904, ill. G. Giovanelli)
Un vampiro – Luigi Capuana (da Un vampiro, 1907, ill. Ernesto Ballarini e anonimo)
Il dottor Nero – Daniele Oberto Marrama (da Il ritratto del morto. Racconti bizzarri, 1907)
Il vampiro – Giuseppe De Feo (in Giornale Illustrato dei Viaggi e delle Avventure di Terra e di Mare, 24 luglio 1921, ill. Corrado Sarri)
Vampiro – Enrico Boni (da Delirio. XIII Fantasie, 1908)
Il vampiro – Vittorio Martella (in Giornale Illustrato dei Viaggi e delle Avventure di Terra e di Mare, 22 luglio 1917, ill. J. Holewinski)
Fonti
Illustrazioni


Vampiriana. Novelle italiane di vampiri
a cura di Antonio Daniele
Collana Il labirinto delle Lamie, Keres Edizioni, 2011
brossura, illustrazioni in bianco e nero,160 pagine, €16.00
ISBN 9788897231028



Andrea Bonazzi

venerdì 29 luglio 2011

Arkham Sanitarium: un film lovecraftiano in tre episodi

Arkham Sanitarium, 2011, locandinaÈ in arrivo per il prossimo ottobre H.P. Lovecraft’s Arkham Sanitarium, una produzione indipendente scritta e diretta da Andrew G. Morgan sotto il marchio della Survivor Films di Londra, lungometraggio suddiviso in tre episodi basati su altrettante e celebri storie brevi di Howard Phillips Lovecraft: “The Haunter of the Dark” (“L’abitatore del buio”, 1935), “The Shunned House” (“La casa sfuggita”, 1924) e “The Thing on the Doorstep” (“La cosa sulla soglia”, 1933).

Iniziate le riprese nello scorso maggio – di venerdì 13, come tiene a sottolineare lo sceneggiatore e regista di Arkham Sanitarium – il film, sebbene a basso budget, mantiene personaggi e ambienti di una Providence e di un lovecraftiano Massachusetts anni 30, dichiarandosi fedele ai racconti originali. Il tutto nel quadro complessivo di una indagine, a vent’anni di distanza, sulle “strane storie” che si ricollegano al malfamato istituto psichiatrico di Arkham.

Nel cast Anthony Clegg nel ruolo del Dottor West, Paul Maclaine in quello di Daniel Upton ed Edward Lewis French nei panni di Edward Pickman Derby, con Lexi Wolfe e Bruce Gibbons nelle parti di Asenath ed Ephraim Waite.

Qui sopra la locandina illustrata da Dave Wood. Maggiori informazioni, anteprime, immagini e concept degli effetti visivi sono disponibili sul sito ufficiale www.arkhamsanitarium.com, sulla pagina di supporto in IndieGoGo, su Facebook e nei diversi articoli e aggiornamenti web di Twitch e di Unfilmable.com.



Andrea Bonazzi