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giovedì 10 marzo 2011

Lovecraft: Teoria dell’Orrore, una recensione

“I rapporti fra uomini non stimolano la mia fantasia. Semmai è il rapporto dell’uomo con il cosmo, con l’ignoto, che solo riesce ad accendere in me la scintilla dell’immaginazione creatrice. Il punto di vista antropocentrico mi riesce insopportabile, perché non posso condividerne la primitiva miopia che esalta il mondo trascurando ciò che vi sta dietro. Il mio piacere è la meraviglia, l’inesplorato, l’inaspettato, ciò che è nascosto e quell’alcunchè d’immutabile che si cela dietro l’apparente mutevolezza delle cose. Rintracciare quel ch’è remoto nel vicino; l’eterno nell’effimero; il passato nel presente; l’infinito nel finito; queste sono le fonti del mio piacere e di ciò che io chiamo bellezza”. (H.P. Lovecraft, “In Difesa di Dagon”, 1921)

Howard Phillips Lovecraft, fotoNelle vesti di critico e di teorico letterario, non meno che in quelle di straordinario narratore dell’orrore, H.P. Lovecraft non sarà mai lodato abbastanza. Basti citare il suo fondamentale “Supernatural Horror in Literature”, il primo vero studio sulla narrativa dell’horror e del mistero che sia mai stato scritto – ancora oggi una pietra miliare nel suo genere e manifesto, mai come oggi così attuale, delle inquietudini del terrore in letteratura – per rendercene conto.

Ma Lovecraft ha scritto anche tutta una serie di sue brillanti argomentazioni sulla materia presa in oggetto, l’horror e il fantastico (materia eterea, irreale, da cui nascono tutte le fantasie...) e in particolare il cosmic horror che è al centro della sua poetica, e le sue interpretazioni hanno anticipato quelle di noti critici e teorizzatori del genere come Tolkien, Borges e Caillois, con il fantastico inteso come alternativa o Mondo Secondario (“secondary world”) e il soprannaturale visto quale interruzione e violazione delle Leggi naturali che dominano la Realtà.

Tutti questi straordinari saggi, utilissimi per indagare la filosofia alla base dell’opera dello scrittore, la sua estetica dell’orrore, e le pulsioni recondite da cui questo scaturisce, sono ora stati raccolti, per la prima volta al mondo (e per una volta tanto il vanto è tutto italiano) nel nuovissimo Teoria dell’Orrore. Tutti gli scritti critici di H.P. Lovecraft (Edizioni Bietti, 2011, pp. 560, €24.00), volume a cura del noto esperto e specialista Gianfranco de Turris, e con una Introduzione di S.T. Joshi, massima autorità su vita e opere del Maestro dell’Incubo.

In verità, non è un libro e un lavoro fatto ex novo, in quanto i saggi di Lovecraft sulla Letteratura fantastica sono già stati raccolti in precedenza, sempre da G. de Turris, una prima volta – in edizione però pressoché incompleta – in In difesa di Dagon e altri saggi sul fantastico (SugarCo, 1994, pp. 202) e poi in volume pubblicato da Castelvecchi (2001, pp. 272) omonimo del presente.

Questa che segnaliamo è quindi (come si legge nel frontespizio interno) una “Terza edizione riveduta, corretta, aggiornata ed ampliata” ma si presenta a tutti gli effetti come un’opera nuova per una serie di ragioni, in primis le circa 200 pagine di materiale nuovo che ne giustifica la mole e l’acquisto. Per non parlare di tutti gli aggiornamenti, le correzioni, le decine e decine di annotazioni in più, ecc., rispetto alle precedenti versioni. Sicuramente si tratta della compilazione definitiva di questo genere, un’opera di seminale importanza che aiuta a decifrare uno scrittore che è stato capace di aprire squarci nel banale quotidiano e di gettare nuovi semi e idee in un campo (oggi minato qual è quello del fantastico letterario) che di semi e idee fruttifere ne ha finora visti pochi.

In questo senso, quella attuata consapevolmente da Lovecraft, nella narrativa e soprattutto nei saggi, è stata una vera e propria “rivoluzione Copernicana” (per usare la bella definizione di Fritz Leiber), un matrice e un mezzo attraverso cui far emergere il suo più profondo pensiero e la sua immensa, assoluta, quasi metafisica (seppure saldamente materialistica e agnostica) “visione delle cose”.

Teoria dell’Orrore, 2011, copertinaA differenza di Poe, Lovecraft colloca l’orrore nel “vasto spazio esterno”, nell’insondabile e profondo Ignoto, e la sua concezione dell’incubo è frutto di tre capisaldi: 1) anzitutto “l’Ignoto”, appunto, inteso come il versante più tenebroso del fantastico; 2) poi “l’atmosfera”, frutto di allusioni a forze estranee e ostili; 3) il punto di vista “cosmico”; 4) infine la “sospensione della realtà”, intesa come sconfitta di ogni legge di natura. Su questi quattro principî Lovecraft edificherà il suo personalissimo percorso, di uomo e di narratore.

Questi saggi sono quindi di vitale interesse e di valore durevole, dando materia alla materia stessa di cui sono fatti i sogni...

Gli scritti sono presentati in modo organico, con un accurato apparato critico di contorno che ne spiega genesi, evoluzione ed importanza. Fondamentale tra questi documenti è naturalmente “L’Orrore sovrannaturale nella Letteratura”, il saggio più importante scritto da HPL, che lo scrittore aggiornò continuamente e costantemente nel corso della sua vita. Quella che qui si è tradotta (unica versione italiana completa, annotata e prefata) è l’ultima sua revisione, del 1936. Lovecraft vi traccia una vera e propria genealogia dell’orrore, che partendo dai primi esempi del genere gotico, attraversando Edgar Allan Poe e Lord Dunsany (due suoi numi tutelari), arriva fino ai Maestri moderni. Un excursus critico-storico che non ha precedenti né rivali in campo critico. Le “fortune” di questo saggio, del resto, sono ampiamente documentate all’interno dal compianto Claudio De Nardi (scomparso mentre questo libro era in corso di stampa) in un bell’intervento, “Storia e Fortuna de L’Orrore Sovrannatutale nella Letteratura”, che introduce alla perfezione quello che Gianfranco de Turris ha giustamente definito “un testo fondamentale nella storia delle teorie del fantastico” (p. 17).

Seguono altri testi critici, di minore portata ma non meno significativi. Il più stimolante tra questi è sicuramente un gruppo di interventi scritti nel 1921, che poi sono stati riuniti dal grande S.T. Joshi sotto il titolo generale di “In Difesa di Dagon”. Si tratta di una serie di ampie e articolate riflessioni in cui Lovecraft difendeva filosofia, gusto estetico e tecniche narrative alla base dei suoi primi racconti, e, più in generale, l’originalità del suo modo di intendere e di vedere il fantastico.

Vengono quindi raccolti una serie di interventi su alcuni temi generali della narrativa fantastica intesa nella sua accezione più ampia: ecco, dunque, uno scritto sul mondo magico e fiabesco (“Sulle Fate”), uno sulla fantascienza (“Alcuni appunti sulla narrativa interplanetaria”), e un paio dedicati più specificatamente alla letteratura horror e weird (“Note su come scrivere racconti fantastici” e “Osservazioni sulla narrativa fantastica”), che insieme costituiscono una guida inestimabile ai principî di Lovecraft e ai suoi metodi di scrittura narrativa.

Infine, trovano posto una serie di profili critici e biografici su alcuni importanti autori del passato, o contemporanei di Lovecraft, che nella forma del saggio breve uniscono memorie e ricordi personali all’analisi critica dell’opera dell’autore. Tra essi spiccano “Lord Dunsany e la sua opera” (1922), e “I romanzi fantastici di William Hope Hodgson” (1934); ma non sono da meno le osservazioni e i ricordi di HPL su Robert E. Howard, Clark Ashton Smith e Henry Whitehead, che proprio grazie al peso dell’apprezzamento di Lovecraft sono assurti essi stessi al rango di Maestri del fantastico.

Dicevamo all’inizio del materiale inedito che arricchisce questa bellissima edizione (che si presenta un must anche sotto il profilo visivo e “tattile”, unendo al rigore e alla sobrietà della veste grafica la limpidezza dei fonts e un perfetto design, interno ed esterno, che rende il volume un piccolo gioiellino di cura editoriale), che recupera innanzitutto una curiosa lista di Lovecraft, “Le mie storie dell’orrore preferite”, tratta da un raro numero del 1934 di The Fantasy Fan; ma la vera novità, una primizia per l’Italia, è qui rappresentata dalle “Trame di racconti fantastici” (“Weird Story Plots”), cioè i sunti da lui preparati dei classici dell’horror che vanno da Poe a Blackwood, da M.R. James a R.W. Chambers, H.H. Ewers, ecc. – senza tralasciare grandi storie dimenticate di W. Elwyn Backus, Leonard Cline, Paul Suter e altri. Lovecraft scrisse tali sunti per “identificare elementi e situazioni che universalmente contribuiscono a creare le suggestioni e a dare efficacia in un racconto dell’orrore”.

Nella parte conclusiva di questa edizione ampliata di Teoria dell’Orrore troviamo infine le “Lettere sull’immaginario” di Lovecraft, una serie di corposi (e inediti) brani estratti dal suo epistolario inerenti la letteratura fantastica e dintorni, ma non solo (giacchè, come ci ricorda de Turris, “Lovecraft non era semplicemente un appassionato ed un autore del fantastico, ma aveva alle spalle un retroterra che si rifletteva su questa sua passione specifica”), il tutto con l’aggiunta di diverse note esplicative, indicazioni bio-bibliografiche, ecc.

Ciò che emerge fuori, a lettura conclusa, è l’enorme passione che Lovecraft nutriva per il genere letterario da lui prescelto, un amore profondo, viscerale, sincero, ma anche analitico e, potremmo dire, “scientifico” nella sua continua analisi e dissezione della materia, opere, autori eccetera. Ma, più importante ancora, in quei saggi Lovecraft riesce a dare una base concreta alla sua filosofia, e a fornire una giustificazione alla scrittura del mistero mediante un’analisi sulla natura e il fascino della narrativa dell’orrore. L’enfasi viene posta sull’atmosfera, più che sulla trama, nella significativa distinzione (che sembra essersi persa nella narrativa horror odierna) tra il racconto genuinamente del mistero e il racconto di mera suspense psicologica.

E poi, fortemente significative, ci sono le sue riflessioni sulla terrificante posizione dell’uomo (infima) nei confronti del vasto universo, la difesa, etica ed estetica, del suo materialismo di natura meccanicista e, in generale, troviamo nei saggi le fondamenta su cui Lovecraft tratteggia in controluce la propria personalissima visione del mondo e della vita. Una lettura fondamentale, quindi, direi vitale per comprendere il pensiero di Howard Phillips Lovecraft, il più grande creatore d’incubi della storia, e anche per capire l’importanza e il significato del genere all’interno del canone letterario tout-court.

Ma, soprattutto, è una lettura indispensabile per avvertire anche noi “... quel raspare di ali nere” che s’agitano negli abissi più profondi dello spazio, e i misteri, le meraviglie e i portenti che si celano ai margini dell’universo a noi sconosciuto.

Pietro Guarriello

martedì 1 marzo 2011

Teoria dell’Orrore: gli scritti critici di Lovecraft

Teoria dell’Orrore, 2011, copertinaGià apparso nel 2001 per i tipi dell’editore Castelvecchi, Teoria dell’Orrore. Tutti gli scritti critici di Howard Phillips Lovecraft ritorna in libreria pubblicato dalle Edizioni Bietti nella sua “terza edizione riveduta, corretta, aggiornata ed ampliata”, sempre a cura di Gianfranco de Turris e con un saggio introduttivo a firma di S.T. Joshi.

Sottinteso trattarsi degli scritti critici sul fantastico (i Collected Essays di Lovecraft al completo occupano, attualmente, ben cinque volumi usciti per Hippocampus Press fra il 2004 e il 2006), la raccolta saggistica riprende la precedente opera di traduzione, le annotazioni e l’apparato critico di Claudio De Nardi, della cui recente scomparsa si è appreso soltanto attraverso la dedica in sua memoria sulle iniziali pagine del libro – come qui ricordato nel precedente articolo “Claudio De Nardi, 1950-2000”.

Le novità di questa riedizione sono rappresentate dal recupero della lista “The Favourite Weird Stories of H. P. Lovecraft” tratta dalla rivista amatoriale The Fantasy Fan n. 2 dell’ottobre 1934, oltre ai riassunti di trame ed elementi da classiche storie weird privatamente annotati dallo scrittore di Providence in “Weird Story Plots”, e alla dozzina di pagine di brani epistolari selezionati in tema per la sezione “Lettere sull’Immaginario”, il tutto tradotto e puntualmente annotato da Massimo Berruti.

Dei saggi, articoli e frammenti proposti dal volume scrive Gianfranco de Turris nel suo intervento d’apertura “Profeta del terrore cosmico”: […] la loro traduzione è stata affidata a uno dei pochi, veri e disinteressati esperti dello scrittore americano esistenti nel nostro Paese: Claudio De Nardi, al quale si devono le numerose note d’integrazione biografica e bibliografica ai testi – indicate con N.d.T. – nonché la dettagliata introduzione a «L’orrore sovrannaturale». Gli si è affiancato in questa nuova edizione un altro giovane esperto, tra i migliori traduttori oggi di Lovecraft: Massimo Berruti al quale si deve la resa in italiano di «Trame di racconti fantastici» e i brani delle «Lettere sull’Immaginario» e relative note, anche qui indicate con N.d.T. All’amico Sebastiano Fusco devo invece la segnalazione e la ricostruzione del successivo evolversi de «Le mie storie dell’orrore preferite». Gli scritti lovecraftiani che seguono vengono presentati in ordine cronologico di redazione: la loro «storia editoriale» e le fonti sono in una elencazione conclusiva dovuta alla pazienza certosina di S.T. Joshi cui sono state aggiunti i materiali di questa nuova edizione”.

scarica l'anteprima PDF, iconaL’intera prefazione è disponibile nelle 38 pagine dell’anteprima scaricabile in formato PDF (984 Kb) dalla pagina dedicata sul sito web dell’editore. Qui di seguito, l’indice dei contenuti [fra parentesi quadra titoli e riferimenti originali dei testi di H.P. Lovecraft]:

Profeta del terrore cosmico – Gianfranco de Turris
Introduzione – S.T. Joshi
In difesa di Dagon [In Defence of Dagon, 1921]
Lord Dunsany e la sua opera [Lord Dunsany and His Work,1922]
Recensione a «Ebony and Crystal» di C.A. Smith [Review of «Ebony and Crystal» by Clark Ashton Smith, 1924]
Sulle fate [Some Backgrounds of Fairyland, 1932]
Ricordo di Henry St. Clair Whitehead [In Memoriam: Henry St. Clair Whitehead, 1932]
Note su come scrivere racconti fantastici [Notes on Writing Weird Fiction, 1933]
Osservazioni sulla narrativa fantastica [Notes on Weird Fiction, 1932-33]
Trame di racconti fantastici [Weird Story Plots, 1932-33]
Appendice: Le mie storie dell’orrore preferite [The Favourite Weird Stories of H. P. Lovecraft, 1934]
Alcuni appunti sulla narrativa interplanetaria [Some Notes on Interplanetary Fiction, 1934-35]
I romanzi fantastici di William Hope Hodgson [The Weird Works of William Hope Hodgson, 1934]
Ricordo di Robert E. Howard [In Memoriam: Robert Ervin Howard, 1936]
Storia e fortuna de «L’orrore sovrannaturale nella letteratura» – Claudio De Nardi
L’orrore sovrannaturale nella letteratura [Supernatural Horror in Literature, 1925-36]
Bibliografia – a cura di Claudio De Nardi
Riassunto delle parti già pubblicate in «The Fantasy Fan» [Supernatural Horror in Literature (Abridgment), 1936]
Bibliografia – a cura di Claudio De Nardi
Lettere sull’Immaginario
Nota – Gianfranco de Turris
Titoli originali, fonti e copyrights


Teoria dell’Orrore. Tutti gli scritti critici
H.P. Lovecraft
collana Caleidoscopio, Edizioni Bietti, 2011
brossura, 566 pagine, €24.00
ISBN 9788882482299

Andrea Bonazzi

giovedì 9 settembre 2010

Licantropi & Weird Tales: I

Saggio in tre parti.

Licantropo dal film 'Van Helsing', 2004, fotoIl lupo mannaro è, in buona compagnia con il vampiro, una delle figure più classiche del nostro immaginario collettivo. I miti e le leggende di ogni tempo e paese sono piene di storie di uomini che si trasformano in bestie, codificate per la prima volta, in vera e propria casistica metamorfica, da due eccentrici studiosi del folklore europeo come Sabine Baring-Gould (in The Book of the Were-Wolves, 1865) e dal Reverendo Montague Summers (The Werewolf, 1933). Al di là delle asettiche classificazioni dei miti e delle fole popolari, è però in campo letterario che l’archetipo del licantropo ha trovato nuova linfa per far prosperare la sua leggenda. Già nelle Metamorfosi di Ovidio (43 a.C.) troviamo la storia di Licaone mutato in lupo da Zeus. Nella letteratura classica ci sono poi gli antecedenti del Satyricon di Petronio (60 d.C.), dove si raccontava la storia di un “versipellis” – così i romani chiamavano il lupo mannaro – come riferita da Nicerota al banchetto di nozze di Trimalcione, e i numerosi testi zooantropici del periodo medievale.

Le prime apparizioni licantropiche dei tempi moderni si trovano nel romanzo di Frederick Marryat The Phantom Ship, scritto nel 1839 (una lunga rielaborazione della leggenda dell’Olandese Volante in cui è incluso il capitolo The Werewolf of the Hartz Mountains, su una ragazza-lupo), in Wagner the Wehr-Wolf (opera-fiume che George William Reynolds, influenzato dall’interesse allora dilagante per l’occulto, pubblicò in ben settantasette fascicoli tra il 1846 e il 1847), e in Le Meneur des Loups del francese Alexandre Dumas, del 1860 (non proprio sui lupi mannari ma su un “conduttore dei lupi”, uno stregone che ha potere su questi animali). Un notevole testo gotico che, purtroppo, risulta ancora inedito in italiano, è poi The Albigenses di Robert Charles Maturin (1824), in cui un licantropo si muove nelle segrete di un antico castello; anche se qui il lupesco protagonista appare in un solo episodio, come storia a parte incastonata nella narrazione principale.

Secondo il critico Andrew Barger, compilatore di The Best Werewolf Short Stories 1800-1849: A Classic Werewolf Anthology (Bottletre Books, 2010), la prima donna-lupo della letteratura, se non si conta la comparsata in The Phantom Ship, prende forma nel romanzo Sidonia the Sorceress dello scrittore tedesco Johannes Wilhelm Meinhold, uscito in due volumi nel 1849 e tradotto in inglese da Lady Wilde, madre del più famoso Oscar. La Sidonia del titolo viene descritta come un “idolo di perversità”, tuttavia la sua natura bestiale e predatoria è ancora troppo legata alla figura della femme fatale del romanticismo tedesco.

Due sono le classiche werewolf stories britanniche dell’ultima decade dell’Ottocento: “The Werewolves” (1898) di H. Beaugrand, e “Loup Garou!” (1899) di Eden Phillpotts. La prima, più suggestiva, trova ambientazione tra le foreste del Canada, dove un trapper racconta del suo singolare incontro con una tribù di indiani intenti a danzare attorno al fuoco... Umani in tutto, ma con la coda e testa di lupo! E tra le prime storie brevi a uscire in Inghilterra, si ricordano ancora “Father Meuron’s Tale” (1907) di R.H. Benson, nel quale una giovane contadina che esibisce i simboli della licantropia viene curata con un esorcismo, e “The Undying Thing” (1901) di Barry Pain, dove la maledizione licantropica affligge una strana famiglia di aristocratici.

Queste prime storie, insieme ad altre che cominciavano ad apparire sui dime-novels, le riviste popolari del tempo, portarono in auge nella fiction le creature mannare grazie anche allo stimolo offerto dai movimenti culturali del periodo, come il Romanticismo e il Decadentismo. È soprattutto nella letteratura inglese, col suo retroterra di atavismo e leggende, che la figura del licantropo trova terreno fertile, e anche scrittori del calibro di Agatha Christie (con The Hound of Death, 1933) Arthur Conan Doyle (The Hound of the Baskervilles, 1901-02) e Robert Louis Stevenson (Olalla, 1885) hanno scritto memorabili variazioni sul tema.

Illustrazione da Wagner the Wehr-Wolf, 1846-47Il primo romanzo di cui è protagonista un licantropo a essere pubblicato in Inghilterra, comunque, è il già citato Wagner the Werewolf (questo il titolo dato alle più recenti edizioni) di George W.M. Reynolds, un dimenticato maestro del penny dreadful – come venivano chiamate le prime opere popolari del terrore – oggi dimenticato ma al tempo famosissimo. Più storia d’avventura che horror di stampo gotico, narra la storia di tal Fernand Wagner, un vecchio e solitario misantropo che, durante una notte di tempesta, viene visitato dal Dr. Faust. La mefistofelica apparizione gli offre la possibilità di tornare giovane e in salute, ma in cambio Wagner dovrà accettare di trasformarsi in licantropo durante le notti di luna piena. Egli naturalmente accetta. Il resto della storia vede quindi i tentativi di Wagner per trovare una cura alla sua condizione di uomo-lupo, e tra audaci briganti, eroine in pericolo e sadiche religiose, il protagonista trova anche il tempo di coronare una sua storia d’amore con la bella ma fatale Nisida. Ambientato per gran parte nella Firenze del medioevo, il lungo romanzo è narrato in tono melodrammatico ed è pieno di tanti, forse troppi personaggi secondari che rendono difficile da seguire la vicenda principale. Anche il diavolo stesso fa una sua comparsata, almeno in un paio d’occasioni...

Gerald Biss, fotoBrughiere brumose, boschi infestati e locande solitarie, gli elementi tipici della tradizione fantastica anglosassone nonché luoghi prediletti per le creature della luna piena, si trapiantano dunque nella prima narrativa fantastica e diventano presto un “topos” del genere. Tra le opere più significative emerse in terra d’Albione, la migliore è forse The Door of the Unreal di Gerald Biss (1876-1922), romanzo pubblicato a Londra nel 1919 e considerato oggi un vero classico della letteratura soprannaturale. H.P. Lovecraft stesso lo elogiò in Supernatural Horror in Literature, e a riguardo scrisse che il romanzo “… tratta in modo piuttosto abile lo scontato tema della licantropia”. Secondo alcuni critici, è stato l’opera che ha poi spianato la strada che ha portato all’Età d’Oro del filone licantropico. La trama s’incentra su misteriose sparizioni di persone che funestano la contea del Sussex, un caso che la polizia locale sembra incapace di risolvere. I due protagonisti della storia, fratello e sorella, si trovano invischiati nelle indagini e scoprono che dietro tutte le sparizioni c’è la sinistra figura del dott. Wolff (nomen omen!), un botanico tedesco che si rivelerà essere un lupo mannaro. Alla morte di questi, sarà la figlia a perpetrarne la lunga scia di sangue.

Tra le opere classiche tradotte anche da noi, ricordiamo invece The Were-Wolf di Clemence Annie Housman (Tr. it.: “Pelliccia Bianca”, in Le Signore dell’Orrore, Longanesi, 1973), novella scritta nel 1896 che Sam Moscowitz, esperto e storico di letteratura pulp, ha definito “la più singolare opera di narrativa mai scritta sul tema della licantropia”. Vi si narra la storia di due fratelli, i quali entrano in conflitto a causa di una misteriosa ragazza che,dietro una bellezza ferina cela la sua natura ambigua di donna-lupo.

Il Mostro Immortale, 1955, copertinaTra i primi romanzi inglesi a trattare in modo compiuto il tema della licantropia, c’è anche The Undying Monster. A Tale of the Fifth Dimension, romanzo scritto nel 1922 da Jessie Dougles Kerruish (Tr. it.: Il mostro immortale, I Romanzi di Urania n. 85, Mondadori, 1955). In quest’opera una maledizione atavica colpisce gli eredi di un’antica casata, che vengono perseguitati da un mostro licantropico e apparentemente immortale che miete le sue vittime nelle notti di luna piena. La storia è sovrabbondante di sinistre atmosfere, ma risente ancora troppo del sorpassato filone del gotico.

La figura del lupo mannaro dovrà trasferirsi al di là dell’Oceano, per l’esattezza in America, per rivitalizzarsi e uscire dai suoi clichè di nebbie e di foreste. Il Nuovo Mondo non possedeva ancora una propria tradizione di leggende su cui basarsi, al contrario dell’Europa ricca di storia, e si ingegnò nell’inventarsi un sostegno mitologico che reinterpretasse con autonoma originalità i vecchi miti anglosassoni. Su questa base gli americani hanno costruito, e in taluni casi reinventato, un passato pseudostorico e di leggenda divenuto familiare anche per noi.

Come fonte d’invenzione fantastica, anche la figura del licantropo venne ripresa dal Vecchio Continente e incorporata in uno scenario nuovo ma sicuramente originale e carico di fermento. Attecchì soprattutto nelle riviste popolari degli anni Trenta, i cosiddetti pulp magazines, e in modo particolare sulla decana di esse, Weird Tales, che del bizzarro e dell’immaginazione si era fatta portavoce durante gli anni della Grande Depressione, offrendo al popolo americano un motivo d’evasione dal grigiore della vita di tutti i giorni. Qui agiva un manipolo di scrittori che, capitanati da un maestro come Lovecraft, riuscirono a dare un nuovo volto al racconto fantastico di stampo ottocentesco, diventato obsoleto con l’avvento della civiltà industriale, determinando di fatto una rottura con il gotico tradizionale e creando una nuova mitologia alternativa che prendeva le mosse da un reale “dilaniato dagli orrori della prima guerra mondiale, e scosso dal fermento che le nuove tecniche scientifiche, prima quelle di Albert Einstein, hanno provocato”. (Cfr. Giorgio Giorgi, “La ‘scuola di Weird Tales’ come necessità di una nuova mitologia”, in Percorsi nel Fantastico, Il Cerchio Iniziative Editoriali, 1997).

Questo “rovesciamento” della tradizione fu avvertito in modo particolare da alcuni scrittori del fantastico più attenti alle trasformazioni in atto, i quali videro crollarsi addosso tutto l’impianto retorico tradizionale che fino ad allora aveva fornito la base alle loro opere. Prendendo coscienza di questa nuova visione del mondo “allargata”, che offriva motivo a nuove e più grandi irrequietezze e paure, fecero sparire dalla loro narrativa tutti gli orpelli gotici ormai stantii e odorosi di muffa, le cripre, i castelli, i cimiteri nebbiosi e le foreste stregate, e posero le basi per l’avvento di un new horror di stampo moderno e non più antropocentrico.

H.P. Lovecraft, 1920, fotoIn questo scenario la figura del lupo mannaro non era comunque destinata a sparire. Si trasforma invece sulla base di questa nuova dimensione dell’Ignoto, e continua a prosperare; merito anche del successo ottenuto da alcuni studi antropologici sul folklore occidentale, come quello di Summers, citato all’inizio, in cui gli autori di pulp-magazines trovarono ispirazione per scrivere proprie storie licantropiche.

Howard Phillips Lovecraft (1890-1937) fu il principale rinnovatore degli elementi del gotico e uno dei primi a rispolverare il tema del werewolf nel racconto “The Hound”, che pubblicato nel febbraio 1924 su Weird Tales, si tinge di una inedita visione “cosmica” che non lascia spazio alla superstizione. Resosi conto che le tradizionali storie di vampiri, licantropi e spettri avevano fatto il loro tempo, ed erano ormai fuori moda alla luce delle moderne teorie della scienza, che aprivano ora a terrori più grandi, Lovecraft ridisegnò la mappa del fantastico e delle sue principali icone; unendo l’orrore con la fantascienza rese più attuale la vecchia concezione del vampiro in “The Shunned House”, della strega in “The Dreams in the Witch House” e, appunto, del licantropo, che nella sua opera appare anche nel sonetto “The Howler” facente parte della raccolta di poesie Fungi from Yuggoth. E di Lovecraft ricordiamo anche il lungo poema “Psychopompos” (Weird Tales, settembre 1937), che vede un malvagio barone medievale terrorizzare i suoi vassalli in forma di grosso lupo.

Weird Tales, aprile 1926, copertinaGli altri due “Moschettieri” di Weird Tales, Robert Ervin Howard (1906-1936) e Clark Ashton Smith (1903-1961), non furono da meno nel riplasmare alla loro maniera la figura del wolfman letterario. Howard lo fece in una accezione più classica, ma non priva di originalità e genuino vigore narrativo. In “The Forest of Villefere” (Weird Tales, agosto 1925) lo spadaccino de Montour incontra un temibile licantropo sui pericolosi sentieri della Francia del XVII secolo. La sua lama avrà la meglio, ma in un racconto seguente, “Wolfshead” (Weird Tales, aprile 1926), apprendiamo che a seguito di quell’avventura de Montour, per uno strano scherzo del destino, era rimasto lui stesso vittima della maledizione licantropica, destinato ad assumere mostruose sembianze lupesche nelle notti di luna piena. Lo scenario, questa volta, è la costa occidentale dell’Africa dove un nobile possidente spagnolo, Dom Vincente da Lusto, ha costruito un solitario castello. “Black Hound of Death” (Weird Tales, novembre 1936) si svolge invece nelle oscure foreste di pini del Sud degli Stati Uniti, e Howard vi narra l’allucinante vicenda di Adam Grimm, trasformato in creatura bestiale, mezzo uomo e mezzo lupo, dalle Nere Arti dei Sacerdoti di Erlik. Senza dimenticare Atla, la donna-lupo che nel racconto “Worms of the Earth” (Weird Tales, novembre 1932) aiuta Bran Mac Morn a compiere il suo spaventoso viaggio negli inferi della Terra.

Dal canto suo Clark Ashton Smith, scrittore abilissimo nel campo della science fantasy, offre un’altra diversificazione della licantropia in “The Beast of Averoigne” (Weird Tales, maggio 1933), che prende spunto da una vecchia leggenda provenzale, quella della Bestia del Gevaudan (l’enorme lupo che terrorizzò i boschi di Francia nel XVIII secolo) reinterpretata però nell’ottica dei lovecraftiani “Miti di Cthulhu”. Per Smith il lupo mannaro è una figura-simbolo preferita per esprimere le paure che si annidano nei boschi, e benchè tali creature appaiano direttamente soltanto in due sue storie della serie di Averoigne (oltre a quella citata anche in “The Enchantress of Sylaire”, dove s’incontra il personaggio di Malachia du Marais, un uomo trasformato in licantropo dagli incantesimi di una maga) esse sono “onnipresenti” dietro le quinte di ognuna. Più tardi questo scrittore affronterà ancora il tema, ma volgendolo in chiave decisamente satirica, nel bizzarro racconto “Monsters in the Night” (The Magazine of Fantasy & Science Fiction, ottobre 1954). Qui troviamo un licantropo che assale per errore un robot scambiandolo per un uomo!

Henry St. Clair Whitehead, fotoAltro famoso contributore di Weird Tales fu Henry St. Clair Whitehead (1882-1932), anche lui amico di Lovecraft e autore tra i più interessanti del primo dopoguerra americano. Pur essendo un diacono della Chiesa episcopale nelle Isole Vergini, Whitehead era accompagnato da una eccezionale fama di uomo forte e coraggioso, che oltre ad essere un intrepido cacciatore di serpenti era anche uno studioso di oscuro folklore. E per spavalderia nei confronti delle superstizioni di quei luoghi, si vantava di avere per amici due veri lupi mannari! Nel suo racconto “No Eye Witness” (Weird Tales, agosto 1932) uno scienziato prova un macchinario avveniristico, una specie di video capace di mostrare scene accadute in passato, e assiste da testimone involontario alla nascita della leggenda sui licantropi. In questa storia è particolarmente originale la fusione di fantascienza, orrore e mito. Un altro esempio di storia licantropica lo troviamo poi in quello che è forse il suo racconto più famoso, “Jumbee” (Weird Tales, settembre 1926), che prende spunto dal folklore caraibico. Qui, per magia voodoo, una vecchia strega si trasforma in un pericoloso cane il cui tocco significa la morte. Whitehead si riferisce al fenomeno definendolo come “canicantropia”.

[Continua]

Pietro Guarriello