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sabato 22 settembre 2012

Cacciatori di vampiri

Quello del "cacciatore di vampiri" è un tema vasto, forse appena un filo — filo di sangue, s’intende — meno vasto dell’argomento stesso del loro oggetto di preda. Dacché esistono vampiri, che appartengano al mito o alla superstizione sino alla finzione narrativa, è necessaria e quasi inevitabile la presenza di una nemesi, un avversario non sempre o necessariamente del tutto umano, una figura di sapiente in grado di individuarli, un antagonista di particolare abilità nel combatterli.

Prototipi di questo genere di personaggio si potrebbero individuare sin dall’antichità classica, quando lamie ed empuse prefiguravano l’odierno vampiro. Per esempio nel resoconto di Flegone Tralliano, che, nel II secolo d.C., narra della giovane defunta Philinnio ritornante più volte dalla tomba per incontrare il proprio amato; storia ripresa in versi da Johann Wolfgang Goethe nel suo La Fidanzata di Corinto (Bruden från Korint, 1797). Scoperta la verità, il popolo si rivolge a un “profeta e veggente di nome Ryllus, tenuto in gran stima e reverenza”, il quale appare l’unico a sapere come affrontare il fenomeno, ordinando che il corpo della ragazza sia incenerito fuori dalle mura cittadine.

Col diffondersi, fra XVII e XVIII secolo, del mito del vampiro, si propaga come un’epidemia dall’area balcanica a tutto l’occidente europeo una vasta letteratura di testimonianze e trattati sull’argomento, dove i veri cacciatori di vampiri sono le torme di contadini, i quali paiono accanirsi sui trapassati compaesani che la superstizione accusa di nefandezze post-mortem.

Ed è in questo panorama che emerge la figura del dhampyr, a cui si rifanno sia il quasi omonimo Dampyr dei fumetti Bonelli che lo stesso personaggio di Blade, dagli inchiostri alla trasposizione in celluloide.

Figlio di un vampiro, sorta di mezzosangue compartecipe di entrambe le nature fra l’umano e il soprannaturale, e per questo sia venerato che temuto, il dhampyr nato dal folklore serbo era tradizionalmente delegato, spesso dietro lauta ricompensa, al ruolo di cacciatore e vendicatore grazie al suo particolare potere di riconoscere e di uccidere i vampiri.

Cacciatore e vampirologo per eccellenza, il brusco ed eccentrico olandese Abraham Van Helsing, tratteggiato da Bram Stoker nel suo Dracula (1892), è il capostipite di un’infinita serie di imitazioni e di varianti sul tema, pur preceduto da esempi come quello del Generale Spielsdorf che, già orbato della propria nipote dalla vampira Carmilla nella omonima novella di Joseph Sheridan Le Fanu (1872), si assume il compito di ricercarne e impalarne il corpo assistito dal misterioso Barone di Vordenburg.

Persino il celeberrimo Sherlock Holmes rischia di entrare nella categoria, imbattendosi in un caso di vampirismo che tale si rivelerà solo in apparenza, ne Il vampiro del Sussex (The Adventure of the Sussex Vampire, 1924) di Arthur Conan Doyle.

E con la narrativa popolare del Novecento, anche personaggi seriali minori s’improvvisano talvolta esperti in materia di nosferatu e affini, come il pur non eccelso Jules de Grandin, tipico “investigatore dell’occulto” creato da Seabury Quinn nel 1925 sulle pagine di Weird Tales.

Sulla stessa celebre rivista faceva il suo esordio anche lo spadaccino Solomon Kane, il seicentesco puritano di Robert Ervin Howard che, tra le varie minacce sovrannaturali, affronta un non-morto assetato di sangue e vendetta nel racconto Teschi sulle Stelle (Skull in the Stars, 1929).

Dal primo trentennio del secolo scorso la commistione fra letteratura, fumetti, cinema e, più tardi, televisone, lascia affiorare sia i tipici caratteri alla Van Helsing che più originali personaggi mediatici. La concezione odierna del vampiro vede il lettore/spettatore identificarsi sempre più in esso, a scapito della categoria del suo antagonista umano, spesso riciclato in letture avventurose o relegato ai margini della contaminazione. È il caso del fenomeno di Buffy l’ammazzavampiri (Buffy the Vampire Stayer, 1992, e seguenti serial TV), o di vere e proprie parodie come per lo spassoso Professor Ambrosius di Per favore… non mordermi sul collo (Dance of the Vampires, 1967), o ancora il Peter Vincent del film Ammazavampiri (Fright Night, 1985): un vecchio attore incastrato nello stanco ruolo di vampirologo, costretto infine a fare i conti con veri e pericolosissimi succhiasangue.

Dal cinema della britannica Hammer, che vede il grande Peter Cushing incarnare il tipo dello spietato distruttore di non morti (sia nella serie dei Dracula che nel ciclo ispirato a Le Fanu), proviene anche il curioso personaggio di Capitan Kronos, settecentesco cacciatore di vampiri in stile “cappa & spada” protagonista del (purtroppo) inedito in Italia Captain Kronos Vampire Hunter (1974).

Più attuale e forse memorabile cacciatore ai limiti fra gotico e fantascienza, è certamente il Robert Neville del romanzo Io sono Leggenda (I’m a legend, 1954) di Richard Matheson, portato sullo schermo in L’ultimo uomo della terra (1963) e 1975: Occhi bianchi sul pianeta terra (The
Omega Man, 1971). Ultimo uomo in un mondo di soli vampiri, Neville intraprende dapprima la sua azione di sterminatore di non-morti per poi scoprire la nuova società umana adattatasi al vampirismo, che ribalterà le parti trasformando lui in preda, e quindi in minacciosa leggenda di un mondo ormai scomparso.

Troppi nomi ed esempi indubbiamente
mancano a questa che è solo una fuggevole occhiata sul tema della "caccia al vampiro". A partire dallo spaccone Jack Crow del film Vampires (1998) di John Carpenter, tratto a sua volta dal romanzo Vampiri S.p.A. (Vampire$, 1990) di John Steakley. Non ce ne vogliano i diretti interessati... serbando i loro aguzzi paletti di frassino per meno vive e assai più degne carcasse.

Andrea Bonazzi
(in prima versione su HorrorMagazine del 3/03/05)

sabato 12 maggio 2012

Flaxman Low, detective dell’occulto

Flaxman Low, detective dell’occulto, 2012, copertinaNon certo il più famoso “detective dell’occulto”, di fronte almeno alle ben note e illustri referenze del Thomas Carnacki di W.H. Hodgson o del John Silence di Algernon Blackwood, ma comunque il più illustre e meglio definito precursore del particolare personaggio fantastico dell’“indagatore dell’ignoto”: il britannico Flaxman Low creato da E. e H. Heron negli ultimi anni dell’Ottocento era rimasto finora quasi del tutto sconosciuto al pubblico italiano, tradotto in tre soli racconti in Occulta. L'omnibus del soprannaturale (Mondadori, 1988) e un ultimo in Storie di Fantasmi (Edizioni EL, 2007).

Primo investigatore letterario a utilizzare i metodi dell’indagine scientifica in casi che rifuggono apparentemente da ogni logica, l’intero ciclo narrativo di Flaxman Low, detective dell’occulto si rende finalmente disponibile per la traduzione e cura di Giuseppe Lo Biondo, attraverso la sua Count Magnus Press, in una raccolta che ne ripropone tutte e dodici le storie apparse in Inghilterra su rivista nel 1898 e ’99, complete delle illustrazioni originali di Benjamin Edward Minns.

“Flaxman Low vide la luce tra le pagine del Pearson’s Magazine, in due serie di racconti, la prima pubblicata dal gennaio al giugno del 1898, e la seconda dal gennaio al giugno del 1899. I racconti furono inizialmente presentati ai lettori della rivista come veri resoconti d’indagini di fenomeni soprannaturali, per la firma di «E. and H. Heron», pseudonimo dietro al quale si celavano Vernon Hesketh Hesketh-Prichard (1876-1922), presumibilmente l’autore principale delle storie, e sua madre, Kate O’Brien Ryall (1851-1935). L’autenticità dei resoconti fu presto smentita, anche a causa del disappunto degli autori nei confronti della scelta editoriale”.

“Le storie riscossero una certa notorietà,” prosegue la postfazione del curatore, “e furono ammirate, tra gli altri, da Arthur Conan Doyle e da M.R. James, che definì Flaxman Low «ingegnoso e di successo, anche se troppo tecnicamente occulto». I racconti furono quindi raccolti nel volume Ghost: Being the Experience of Flaxman Low (1899) che fu pubblicato con i veri nomi degli autori e riproposto nel 1916 in edizione economica, con il titolo Ghost Stories; quest’ultima edizione comprendeva soltanto le prime sei storie della prima serie, e vide ripristinato lo pseudonimo «E. and H. Heron»”.

Informazioni sul blog ufficiale countmagnus.blogspot.it, il volume è acquistabile direttamente presso lo store di Lulu.com, da cui proviene la sottostante e corposa anteprima di 56 pagine.

– “Sapete, penso che non esista affatto il soprannaturale. Tutto è naturale. Abbiamo soltanto bisogno di più luce, più conoscenza”. –

Flaxman Low, detective dell’occulto
E. e H. Heron
Count Magnus Press, 2012
brossura, illustrazioni in bianco e nero, 330 pagine, €16.00
Andrea Bonazzi



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domenica 5 giugno 2011

William Hope Hodgson sulla terraferma: investigatori dell’occulto e altri orrori

Articolo in tre parti. Vedi parte precedente.

William Hope Hodgson, fotoUna volta abbandonato il mare William Hope Hodgson, memore delle sue passate disavventure, deciderà di migliorare il proprio fisico rendendolo duro e scattante. Non contento, scriverà un manuale di cultura fisica e fonderà addirittura una palestra “per allenare lo spirito e i corpo”. Più avanti nel tempo e in un altro continente, uno smilzo, angariato e malaticcio Robert E. Howard deciderà di trasformare il proprio corpo in quello di uno dei suoi barbarici eroi d’età antidiluviana, come Conan e Kull di Valusia, e praticherà il pugilato. Destini simili, diverse fortune. Altre coincidenze? Hodgson moltiplica le sue prodezze atletiche tanto da meritarsi alcune pagine di ammirazione da parte del giornale locale, la sua palestra è piena, ma non basta, così il Nostro si improvvisa fotografo amatoriale. Non basta ancora: nella prima maturità, infine, decide di creare quei capolavori per i quali H.P. Lovecraft si dimostrerà entusiasta.

Sono gli anni della “Trilogia dell’Abisso”; due romanzi di cui abbiamo già parlato: The Boats of the Glen Carrig (Naufragio nell’ingoto) e The Ghost Pirates (I pirati fantasma), più uno ambientato sulla terraferma (per modo di dire), ovvero The House on the Borderland (La casa sull’abisso). In quest’ultimo, Hodgson sviluppa l’intuizione principale che sta alla base dei primi due, ma con potenza simbolica, se possibile, ancora maggiore. L’essere umano è come un edificio pieno di stanze, alcune luminose, altre avvolte dalle ombre, il cui tetto aspira alle altezze celesti ma le cui fondamenta sprofondano negli inferi, laddove attendono in agguato creature mostruose e brutali.

Fotografo istintivo e abile per inclinazione, Hodgson con questo romanzo immortala in alcune potenti immagini tutta la psicologia di Freud e Jung di là a venire. Il protagonista di questo lungo incubo abita con la sorella in una casa che esiste contemporaneamente in più dimensioni (“on the borderland” appunto, sul confine fra questo e altri mondi). Un giorno la sorella viene aggredita da alcune ributtanti creature porcine che paiono sorgere dagli immensi sotterranei della casa (un simbolo degli istinti primordiali repressi e deformati dalla ragione?) e i due sono costretti a difendersi con ogni mezzo dagli assalti di queste creature.

The House on the Borderland, versione a fumetti di Richard CorbenNelle pagine successive, l’incubo si tinge di metafisica. Il protagonista, mentre si ritrova al suo scrittoio a riordinare gli orribili fatti occorsi in tempi recenti, attraversa il tempo e lo spazio in quello che potrebbe essere definito uno stadio mistico-contemplativo indotto dalla natura della casa. Il tempo comincia a scorrere nelle due direzioni (passato e futuro) alternativamente. Al termine di questo viaggio, egli si ritrova all’interno di un’enorme arena circondata da statue mostruose, fra le quali campeggia una in particolare che ricorda ominosamente gli orribili esseri porcini contro i quali ha combattuto.

Infine, viene proiettato nello spazio profondo, laddove il potenziale di tutte le cose a venire è contenuto in sfere luminose “sulle quali si alternano facce orribili”. Lovecraft riprende queste e consimili visioni nel suo “The Dreams in the Witch House” (“I sogni nella casa stregata”), laddove la meditazione su alcune “geometrie non-euclidee” conduce il protagonista all’interno di una città aliena dalle forme folli e incomprensibili.

Ma c’è di più: Hodgson rivela in questi squarci visionari una non comune preparazione in dottrine occulte. La meditazione con conseguente viaggio astrale del protagonista ricorda molto da vicino certe pratiche magiche in uso nei circoli occultistici dell’epoca, mentre la visione delle sfere rimanda alle strutture occulte della Cabala ebraica. Era convinzione comune, fra gli occultisti occidentali e fin dal medioevo, che il processo attraverso il quale Dio ha creato il mondo potesse essere riassunto e schematizzato mediante la raffigurazione di un numero variabile di sfere (da dodici a diciannove) rappresentanti ciascuna una “Potestà” o un attributo della divinità. Tali sfere venivano chiamate nell’occultismo ebraico “Sephiroth” (probabilmente una contrazione spuria dal greco “sphairos”, sfera appunto).

The House on the Borderland, 1921, copertinaD’altro canto, ciascuna di queste sfere o potestà includeva un suo opposto speculare, una “sfera d’ombra” racchiudente le scorie della creazione, gli esperimenti scartati da Dio al momento di creare il mondo oppure, in linguaggio psicologico, il “rimosso” freudiano. Tali sfere speculari venivano denominate invece “Qlippoth” o “Quelippoth”, in aramaico “sudiciume”. Al tempo di Hodgson, alcuni occultisti (fra i quali l’onnipresente Aleister Crowley) ritenevano che così come si potesse “salire” attraverso le Sephiroth all’intelligenza “Prima” di Dio, giungendo a entrare in comunicazione con la mente stessa del Creatore, allo stesso modo fosse possibile “regredire” o “discendere” verso il “ventre” di Dio, passando attraverso le sue feci ossia “Quelippoth”, le sfere demoniache rappresentanti l’ombra della creazione.

Non è provata né documentabile l’affiliazione di Hodgson a suddetti circoli massonico-occultistici quali, per esempio, la Golden Dawn di S.L. MacGregor Mathers o la “Societas Rosicruciana in Anglia” di A.E. Waite, fatto sta che il Nostro, all’interno di The House on the Borderland, sta evidentemente sviluppando in maniera creativa suddette teorie. Il suo è un racconto di “regressione” all’“Ombra” Junghiana, molto prima che il pensiero dello psicologo svizzero coniasse il termine specifico per la disciplina in questione, regressione verso il rimosso o l’istinto bestiale primordiale che avviene prima per l’essere umano in particolare, tipizzato dal protagonista, poi illustrato per l’intera Creazione attraverso i gusci “pieni di infamia” delle Quelippoth. Così come il futuro fa un balzo in avanti nella mente di Dio, allo stesso modo il passato regredisce alla bestia immonda che soggiace a qualsiasi sforzo civilizzatore. Sotto la luce dei “piani alti” sta la tenebra delle fondamenta, dove le creature porcine stanno in agguato.

Occorrerà riportare che il tema della regressione allo stato bestiale percorre tutta la letteratura inglese più originale del periodo; da The Time Machine (La macchina del tempo) di Herbert George Wells, con la sua suddivisione sociale in evoluti “Eloi” (termine che ricorda gli “Elohim”, angeli della tradizione ebraica) e bestiali “Morlocks”, passando attraverso il Dr. Jekill and Mr. Hyde di R.L. Stevenson per sfociare in “The Great God Pan” (“Il grande dio Pan”) di Arthur Machen. Tuttavia va a Hodgson il merito di aver esteso su scala cosmica il tema della regressione, lezione che Lovecraft non dimenticherà.

Carnacki the Ghost Finder, 1920, copertinaDopo la stesura di The House on the Borderland l’Occulto non cessa di affascinare Hodgson, né deve stupire trattandosi di una personalità come la sua, attratta dal fascino dell’Ignoto e per di più talmente eclettica da essere capace di spaziare dalla marineria alla fotografia. Le avventure di Carnacki the Ghost Finder (Carnacki, cacciatore di spettri) riprendono e sviluppano tali interessi, inserendosi nel solco delle avventure “poliziesche” e di investigazione del ben più famoso Sherlock Holmes di Arthur Conan Doyle. Il Carnacki di Hodgson è uno dei suoi tanti alter ego letterari, una simpatica figura di “Investigatore dell’Occulto” che affronta demoni e creature dell’Altrove armato di profonde conoscenze esoteriche e di un robusto apparato scientifico al passo coi tempi. Nel racconto “The Hog” (“Il verro”) Carnacki si oppone ai tormenti inflitti a un suo cliente da un demone dalle ennesime fattezze porcine, “isolando” la sua malefica manifestazione all’interno di un pentacolo elettrico a vari colori anticipando, forse, i venturi esperimenti con la luce al neon.

Le suddivisioni che Hodgson-Carnacki opera fra Entità “Aeiirii”, meno pericolose, ed Entità “Saiitii” estremamente letali costituisce una strizzata d’occhio al gergo occulto di certe conventicole esoteriche, punte di humor che Lovecraft applicherà puntualmente nei suoi racconti, né va ignorata la fortuna che certe commistioni fra scienza empirica e soprannaturale avranno nella letteratura successiva di genere, basti pensare al già citato “The Dreams in the Witch House”.

[Continua]

Mariano D’Anza

domenica 5 dicembre 2010

Sir Arthur Conan Doyle e gli spiriti

Weird Fiction Review: Vol. 1, 2011, copertinaCelebre inventore del mito di Sherlock Holmes, l’investigatore deduttivo e razionale per eccellenza; meno noto creatore di personaggi fantastici come il Professor Challenger in storie quali Il mondo perduto (The Lost World, 1912), modello dei successivi romanzi sui “dinosauri redivivi” dalle imitazioni de La terra dimenticata dal Tempo (The Land that Time Forgot, 1924) di E.R. Burroughs fino al Jurassic Park di Michael Crichton; autore forse ancor meno conosciuto di ottimi racconti del terrore, oltre che di novelle d’ambiente storico... Ma oltre a tutto questo, Sir Arthur Conan Doyle (1859-1930) fu anche un sostenitore dello spiritismo pubblicando opere come La nuova rivelazione (The new revelation, 1918), The History of Spiritualism (1926) e The Edge of Unknown (1930), indulgendo sino alla credulità in un crescente interesse verso il soprannaturale che lo portò alquanto ingenuamente ad avallare casi fraudolenti come quello delle “fate di Cottingley”, con le giovanissime sorelle Wright fotografate, tra il 1917 e il 1920, in non troppo fantasiose composizioni insieme a fatine alate disegnate secondo il gusto dell’epoca: semplici e palesi ritagli, sorretti da bastoncini nelle pose. Conan Doyle si giocò una grossa fetta di credibilità dedicando loro il saggio Il ritorno delle fate (The Coming of the Fairies, 1922).

Per lungo tempo si è ritenuto che la passione dello scrittore verso l’irrazionale, e per lo spiritismo in particolare, fosse maturato in seguito al trauma della perdita del figlio, ferito in guerra nel 1916 e morto di polmonite un anno dopo. Ma la scoperta, relativamente recente, di un taccuino nel quale annotò i suoi primi contatti con medium e fenomeni medianici dimostra ora come tale interesse, mai documentato in precedenza, trovasse inizio già trent’anni prima.

Arthur Conan Doyle era medico a Portsmouth quando assistette alla sua prima seduta nel 1897, nello stesso anno in cui pubblicava Uno studio in rosso (A Study in Scarlet), prima storia del ciclo di Sherlock Holmes. Dopo aver visto il medium parlare con voci differenti, e il tavolino muoversi nel comunicare I messaggi degli “spiriti”, il trentottenne dottore scrive di aver assistito a “una nuova rivelazione” per l’umanità, in cui la religione si era resa “cosa concreta” e non soltanto più “materia di fede”.

Nel 1887, ancora, Conan Doyle prende nota di essersi recato a casa di un paziente a Portsmouth, e di essersi unito a un gruppo di persone nervosamente sedute attorno a una tavola da pranzo nella speranza di contattare il mondo degli spiriti. Attesero per una mezz’ora prima che il tavolo prendesse a muoversi di scatto, battendo parole in un’elementare sorta di codice Morse: “andate troppo lentamente; quanto tempo ci state mettendo?”

Alla sessione successiva, qualche giorno più tardi, la temperatura si abbassò precipitosamente e una delle signore “divenne gelida, provando la sensazione come di una mano che le battesse leggera sul palmo, e con la netta impressione che ci fosse qualcuno alle sue spalle”. Prosegue quindi l’annotazione: “su ordine degli spiriti, interrompemmo la seduta”.

Le note, che coprono un periodo dal 1885 all’89, sono state pubblicate in una nuova biografia, apparsa nel 2007 e ristampata l’anno seguente in paperback dalla britannica Orion Books: Conan Doyle: The Man Who Created Sherlock Holmes, scritta dall’inglese Andrew Lycett che ha rintracciato negli Stati Uniti le carte private dell’autore, prima gelosamente conservate dalla famiglia e battute infine all’asta da Christie’s, a Londra, nel 2004.

“Queste note mi hanno aiutato a comprendere ciò che considero l’enigma centrale della sua vita,” dichiarava Lycett al Times nel presentare il proprio libro. “Ovvero come un esperto medico, creatore di una tal epitome di detective basato sulla razionalità, fosse così ossessionato dal soprannaturale da diventare, dopo la Prima Guerra Mondiale, uno dei principali promotori dello spiritualismo”.

Per contro, il personaggio di Sherlock Holmes appare piuttosto scettico verso il paranormale. Oltre a smascherare il tutt’altro che innaturale Mastino dei Baskerville (The Hound of the Baskervilles, 1902), nel breve “Il vampiro del Sussex” (“The Adventure of the Sussex Vampire,” 1924), solo altro episodio di tono vagamente fantastico nella serie, trovandosi ad affrontare un apparente caso di vampirismo Holmes liquida così la faccenda: “Ha ragione, Watson. È una leggenda citata in uno di questi riferimenti. Ma dobbiamo davvero prestare attenzione a simili cose? Siamo gente con i piedi per terra, e così dobbiamo restare. Il mondo è già abbastanza grande per noi. Non c’è bisogno che ci si mettano anche i fantasmi”.

Educato presso i gesuiti sia nell’infanzia che al college, Arthur Ignatius Conan Doyle, questo il nome completo, rifiutò il cattolicesimo professandosi agnostico fin dal 1875. Rimase tuttavia sempre affascinato dall’idea del sovrannaturale, come testimoniano i suoi racconti dell’orrore che iniziò a scrivere ben prima di avvicinare lo spiritismo. “Il capitano della Stella Polare” (“The Captain of the ‘Polestar’”) risale infatti al 1883, per citare una sua delle sue storie fantastiche più note.

L’eperienza delle sedute medianiche lo avrebbe liberato dai propri dubbi, conclude il biografo Andrew Lycett: “Guardava allo spiritualismo come a un’esperienza scientifica o, perlomeno, come a una naturale estensione della scienza”.

Una pagina italiana a proposito delle “fate di Cottingley” si trova su Fate & Fate.it. Informazioni sulla biografia di Conan Doyle, della quale diamo a seguito i dati bibliografici, sono reperibili presso il sito web della Orion Publishing.

Conan Doyle: The Man Who Created Sherlock Holmes
Andrew Lycett
Orion Books, 2008
brossura, 600 pagine, £10.99
ISBN 9780753824283

Andrea Bonazzi

(in prima versione su In Tenebris Scriptus del 25/09/07)

lunedì 25 ottobre 2010

La prima notte dei vampiri. Diciotto storie pericolose

La prima notte dei vampiri, 2010, copertina“Da Polidori a Stoker, da Tolstoj a Le Fanu, da Poe a Capuana, da Quiroga a Lovecraft, ben prima di Twilight, i vampiri hanno ossessionato la fantasia dei piú celebri scrittori del XIX secolo. Questa strana creatura assetata di sangue che invade il mondo dei vivi, questo amante seducente che fin dalla notte dei tempi ha abitato le nostre fantasie piú oscure mantiene intatto il suo fascino secolo dopo secolo e le storie raccolte in questa antologia lo dimostrano ampiamente. Attingendo alle letterature occidentali, La prima notte dei vampiri raccoglie i racconti piú agghiaccianti dedicati a questa figura sfuggente e misteriosa, narrandoci le sue infinite metamorfosi, perché il Vampiro non è morto, non muore mai, anzi... è sempre al passo con i tempi, e, perché no?, con un fisico talmente perfetto da sembrare irreale e una voce suadente – cosí lo vede Stephenie Meyer –, è entrato a turbare anche la nostra epoca”.

Fin qui la quarta di copertina del volume, che non può esimersi dal citare i nomi e le mode del momento a scontata promozione di un’antologia destinata ai più recenti e freschi fans del vampirismo. La prima notte dei vampiri. Diciotto storie pericolose arriva in libreria pubblicato da Einaudi come il nuovo, annuale tascabile preparato in vista di Halloween, con una selezione di racconti corredata da un’introduzione di Carlo Pagetti.

Selezione destinata in tutta evidenza a un pubblico ampio e non specializzato, concentrata nel riproporre per un’ennesima volta classici e meno classici vampiri, senza nemmeno più uno sforzo di ricerca nel campo – pur vasto, ancora – dell’inedito. Titoli sicuri, ben noti e collaudati, in nuova traduzione soltanto laddove indisponibili a prelevarsi da precedenti edizioni della medesima editrice. Persino racconti che nulla hanno a che fare col vampiro – come nel caso di Lovecraft, forse un autore troppo “di richiamo” per poterne fare a meno sul menù della vigilia di Ognissanti, ma del quale si poteva trovare qualcosa maggiormente in tema. O ancora, storie che devono essenzialmente al titolo la loro inclusione in questa sede, come il recupero di un Salgari che rappresenta, forse, l’unica allettante relativa novità fra la narrativa proposta nel volume.

Con un occhio ovviamente sulle vendite, il buon proposito è sempre quello di rendere certe opere, per quanto conosciute, disponibili ai più giovani. D’accordo sino a qui, non fosse che in decenni e decenni di sole ristampe e riedizioni, generazioni vecchie e nuove di appassionati del fantastico si ritrovano ciclicamente a leggere, in sostanza, i soliti vecchi “classici” di sempre, con poche alternative alla scoperta di cosa ci sia oltre.

Consuetudine scontata nel mercato anglosassone, è tuttavia di estrema rarità che antologie di genere edite in Italia anticipino pubblicamente un indice dei propri contenuti. Per questo, ogni volta che ci sarà possibile, cercheremo in sede di presentazione di fornirvi un sommario di queste raccolte. Eccovi dunque a seguito la lista dei racconti:

Il vampiro (The Vampyre, 1819) – John William Polidori
Vampirismus (1821) – E.T.A. Hoffmann
Berenice (1835) – Edgar Allan Poe
L’amante cadavere (La Morte Amoureuse, 1836) – Théophile Gautier
Il visitatore terrificante (Varney the Vampire, 1845) – Thomas Preskett Prest e James Malcon Rymer
La famiglia del vurdalak (La Famille du Vurdalak, 1847) – Aleksej Konstantinovič Tolstoj
La bella vampirizzata (La Belle Vampirisée, 1849) – Alexandre Dumas
Il vampiro – (Vampir, 1855) Aleksandr N. Afanasjev
Carmilla (1872) – Sheridan Le Fanu
L’Horla (Le Horla, 1887) – Guy de Maupassant
L’ospite di Dracula (Dracula’s Guest, 1897) – Bram Stoker
Un vampiro (1907) – Luigi Capuana
Il Dottor Nero (1907) – Daniele Oberto Marrama
Il vampiro della foresta (1907) – Emilio Salgari
Aylmer Vance e il Vampiro (Aylmer Vance and the Vampire) – Alice e Claude Askew
Il cuscino di piume (La almohada de plumas, 1917) – Oracio Quiroga
Nella cripta (In the Vault, 1925) – Howard Phillips Lovecraft
Il vampiro del Sussex (The Sussex Vampire, 1927) – Arthur Conan Doyle


La prima notte dei vampiri. Diciotto storie pericolose
AA.VV.
Super ET, Einaudi, 2010
brossura, XX–384 pagine, €14.00
ISBN 9788806204877

Andrea Bonazzi

giovedì 9 settembre 2010

Licantropi & Weird Tales: I

Saggio in tre parti.

Licantropo dal film 'Van Helsing', 2004, fotoIl lupo mannaro è, in buona compagnia con il vampiro, una delle figure più classiche del nostro immaginario collettivo. I miti e le leggende di ogni tempo e paese sono piene di storie di uomini che si trasformano in bestie, codificate per la prima volta, in vera e propria casistica metamorfica, da due eccentrici studiosi del folklore europeo come Sabine Baring-Gould (in The Book of the Were-Wolves, 1865) e dal Reverendo Montague Summers (The Werewolf, 1933). Al di là delle asettiche classificazioni dei miti e delle fole popolari, è però in campo letterario che l’archetipo del licantropo ha trovato nuova linfa per far prosperare la sua leggenda. Già nelle Metamorfosi di Ovidio (43 a.C.) troviamo la storia di Licaone mutato in lupo da Zeus. Nella letteratura classica ci sono poi gli antecedenti del Satyricon di Petronio (60 d.C.), dove si raccontava la storia di un “versipellis” – così i romani chiamavano il lupo mannaro – come riferita da Nicerota al banchetto di nozze di Trimalcione, e i numerosi testi zooantropici del periodo medievale.

Le prime apparizioni licantropiche dei tempi moderni si trovano nel romanzo di Frederick Marryat The Phantom Ship, scritto nel 1839 (una lunga rielaborazione della leggenda dell’Olandese Volante in cui è incluso il capitolo The Werewolf of the Hartz Mountains, su una ragazza-lupo), in Wagner the Wehr-Wolf (opera-fiume che George William Reynolds, influenzato dall’interesse allora dilagante per l’occulto, pubblicò in ben settantasette fascicoli tra il 1846 e il 1847), e in Le Meneur des Loups del francese Alexandre Dumas, del 1860 (non proprio sui lupi mannari ma su un “conduttore dei lupi”, uno stregone che ha potere su questi animali). Un notevole testo gotico che, purtroppo, risulta ancora inedito in italiano, è poi The Albigenses di Robert Charles Maturin (1824), in cui un licantropo si muove nelle segrete di un antico castello; anche se qui il lupesco protagonista appare in un solo episodio, come storia a parte incastonata nella narrazione principale.

Secondo il critico Andrew Barger, compilatore di The Best Werewolf Short Stories 1800-1849: A Classic Werewolf Anthology (Bottletre Books, 2010), la prima donna-lupo della letteratura, se non si conta la comparsata in The Phantom Ship, prende forma nel romanzo Sidonia the Sorceress dello scrittore tedesco Johannes Wilhelm Meinhold, uscito in due volumi nel 1849 e tradotto in inglese da Lady Wilde, madre del più famoso Oscar. La Sidonia del titolo viene descritta come un “idolo di perversità”, tuttavia la sua natura bestiale e predatoria è ancora troppo legata alla figura della femme fatale del romanticismo tedesco.

Due sono le classiche werewolf stories britanniche dell’ultima decade dell’Ottocento: “The Werewolves” (1898) di H. Beaugrand, e “Loup Garou!” (1899) di Eden Phillpotts. La prima, più suggestiva, trova ambientazione tra le foreste del Canada, dove un trapper racconta del suo singolare incontro con una tribù di indiani intenti a danzare attorno al fuoco... Umani in tutto, ma con la coda e testa di lupo! E tra le prime storie brevi a uscire in Inghilterra, si ricordano ancora “Father Meuron’s Tale” (1907) di R.H. Benson, nel quale una giovane contadina che esibisce i simboli della licantropia viene curata con un esorcismo, e “The Undying Thing” (1901) di Barry Pain, dove la maledizione licantropica affligge una strana famiglia di aristocratici.

Queste prime storie, insieme ad altre che cominciavano ad apparire sui dime-novels, le riviste popolari del tempo, portarono in auge nella fiction le creature mannare grazie anche allo stimolo offerto dai movimenti culturali del periodo, come il Romanticismo e il Decadentismo. È soprattutto nella letteratura inglese, col suo retroterra di atavismo e leggende, che la figura del licantropo trova terreno fertile, e anche scrittori del calibro di Agatha Christie (con The Hound of Death, 1933) Arthur Conan Doyle (The Hound of the Baskervilles, 1901-02) e Robert Louis Stevenson (Olalla, 1885) hanno scritto memorabili variazioni sul tema.

Illustrazione da Wagner the Wehr-Wolf, 1846-47Il primo romanzo di cui è protagonista un licantropo a essere pubblicato in Inghilterra, comunque, è il già citato Wagner the Werewolf (questo il titolo dato alle più recenti edizioni) di George W.M. Reynolds, un dimenticato maestro del penny dreadful – come venivano chiamate le prime opere popolari del terrore – oggi dimenticato ma al tempo famosissimo. Più storia d’avventura che horror di stampo gotico, narra la storia di tal Fernand Wagner, un vecchio e solitario misantropo che, durante una notte di tempesta, viene visitato dal Dr. Faust. La mefistofelica apparizione gli offre la possibilità di tornare giovane e in salute, ma in cambio Wagner dovrà accettare di trasformarsi in licantropo durante le notti di luna piena. Egli naturalmente accetta. Il resto della storia vede quindi i tentativi di Wagner per trovare una cura alla sua condizione di uomo-lupo, e tra audaci briganti, eroine in pericolo e sadiche religiose, il protagonista trova anche il tempo di coronare una sua storia d’amore con la bella ma fatale Nisida. Ambientato per gran parte nella Firenze del medioevo, il lungo romanzo è narrato in tono melodrammatico ed è pieno di tanti, forse troppi personaggi secondari che rendono difficile da seguire la vicenda principale. Anche il diavolo stesso fa una sua comparsata, almeno in un paio d’occasioni...

Gerald Biss, fotoBrughiere brumose, boschi infestati e locande solitarie, gli elementi tipici della tradizione fantastica anglosassone nonché luoghi prediletti per le creature della luna piena, si trapiantano dunque nella prima narrativa fantastica e diventano presto un “topos” del genere. Tra le opere più significative emerse in terra d’Albione, la migliore è forse The Door of the Unreal di Gerald Biss (1876-1922), romanzo pubblicato a Londra nel 1919 e considerato oggi un vero classico della letteratura soprannaturale. H.P. Lovecraft stesso lo elogiò in Supernatural Horror in Literature, e a riguardo scrisse che il romanzo “… tratta in modo piuttosto abile lo scontato tema della licantropia”. Secondo alcuni critici, è stato l’opera che ha poi spianato la strada che ha portato all’Età d’Oro del filone licantropico. La trama s’incentra su misteriose sparizioni di persone che funestano la contea del Sussex, un caso che la polizia locale sembra incapace di risolvere. I due protagonisti della storia, fratello e sorella, si trovano invischiati nelle indagini e scoprono che dietro tutte le sparizioni c’è la sinistra figura del dott. Wolff (nomen omen!), un botanico tedesco che si rivelerà essere un lupo mannaro. Alla morte di questi, sarà la figlia a perpetrarne la lunga scia di sangue.

Tra le opere classiche tradotte anche da noi, ricordiamo invece The Were-Wolf di Clemence Annie Housman (Tr. it.: “Pelliccia Bianca”, in Le Signore dell’Orrore, Longanesi, 1973), novella scritta nel 1896 che Sam Moscowitz, esperto e storico di letteratura pulp, ha definito “la più singolare opera di narrativa mai scritta sul tema della licantropia”. Vi si narra la storia di due fratelli, i quali entrano in conflitto a causa di una misteriosa ragazza che,dietro una bellezza ferina cela la sua natura ambigua di donna-lupo.

Il Mostro Immortale, 1955, copertinaTra i primi romanzi inglesi a trattare in modo compiuto il tema della licantropia, c’è anche The Undying Monster. A Tale of the Fifth Dimension, romanzo scritto nel 1922 da Jessie Dougles Kerruish (Tr. it.: Il mostro immortale, I Romanzi di Urania n. 85, Mondadori, 1955). In quest’opera una maledizione atavica colpisce gli eredi di un’antica casata, che vengono perseguitati da un mostro licantropico e apparentemente immortale che miete le sue vittime nelle notti di luna piena. La storia è sovrabbondante di sinistre atmosfere, ma risente ancora troppo del sorpassato filone del gotico.

La figura del lupo mannaro dovrà trasferirsi al di là dell’Oceano, per l’esattezza in America, per rivitalizzarsi e uscire dai suoi clichè di nebbie e di foreste. Il Nuovo Mondo non possedeva ancora una propria tradizione di leggende su cui basarsi, al contrario dell’Europa ricca di storia, e si ingegnò nell’inventarsi un sostegno mitologico che reinterpretasse con autonoma originalità i vecchi miti anglosassoni. Su questa base gli americani hanno costruito, e in taluni casi reinventato, un passato pseudostorico e di leggenda divenuto familiare anche per noi.

Come fonte d’invenzione fantastica, anche la figura del licantropo venne ripresa dal Vecchio Continente e incorporata in uno scenario nuovo ma sicuramente originale e carico di fermento. Attecchì soprattutto nelle riviste popolari degli anni Trenta, i cosiddetti pulp magazines, e in modo particolare sulla decana di esse, Weird Tales, che del bizzarro e dell’immaginazione si era fatta portavoce durante gli anni della Grande Depressione, offrendo al popolo americano un motivo d’evasione dal grigiore della vita di tutti i giorni. Qui agiva un manipolo di scrittori che, capitanati da un maestro come Lovecraft, riuscirono a dare un nuovo volto al racconto fantastico di stampo ottocentesco, diventato obsoleto con l’avvento della civiltà industriale, determinando di fatto una rottura con il gotico tradizionale e creando una nuova mitologia alternativa che prendeva le mosse da un reale “dilaniato dagli orrori della prima guerra mondiale, e scosso dal fermento che le nuove tecniche scientifiche, prima quelle di Albert Einstein, hanno provocato”. (Cfr. Giorgio Giorgi, “La ‘scuola di Weird Tales’ come necessità di una nuova mitologia”, in Percorsi nel Fantastico, Il Cerchio Iniziative Editoriali, 1997).

Questo “rovesciamento” della tradizione fu avvertito in modo particolare da alcuni scrittori del fantastico più attenti alle trasformazioni in atto, i quali videro crollarsi addosso tutto l’impianto retorico tradizionale che fino ad allora aveva fornito la base alle loro opere. Prendendo coscienza di questa nuova visione del mondo “allargata”, che offriva motivo a nuove e più grandi irrequietezze e paure, fecero sparire dalla loro narrativa tutti gli orpelli gotici ormai stantii e odorosi di muffa, le cripre, i castelli, i cimiteri nebbiosi e le foreste stregate, e posero le basi per l’avvento di un new horror di stampo moderno e non più antropocentrico.

H.P. Lovecraft, 1920, fotoIn questo scenario la figura del lupo mannaro non era comunque destinata a sparire. Si trasforma invece sulla base di questa nuova dimensione dell’Ignoto, e continua a prosperare; merito anche del successo ottenuto da alcuni studi antropologici sul folklore occidentale, come quello di Summers, citato all’inizio, in cui gli autori di pulp-magazines trovarono ispirazione per scrivere proprie storie licantropiche.

Howard Phillips Lovecraft (1890-1937) fu il principale rinnovatore degli elementi del gotico e uno dei primi a rispolverare il tema del werewolf nel racconto “The Hound”, che pubblicato nel febbraio 1924 su Weird Tales, si tinge di una inedita visione “cosmica” che non lascia spazio alla superstizione. Resosi conto che le tradizionali storie di vampiri, licantropi e spettri avevano fatto il loro tempo, ed erano ormai fuori moda alla luce delle moderne teorie della scienza, che aprivano ora a terrori più grandi, Lovecraft ridisegnò la mappa del fantastico e delle sue principali icone; unendo l’orrore con la fantascienza rese più attuale la vecchia concezione del vampiro in “The Shunned House”, della strega in “The Dreams in the Witch House” e, appunto, del licantropo, che nella sua opera appare anche nel sonetto “The Howler” facente parte della raccolta di poesie Fungi from Yuggoth. E di Lovecraft ricordiamo anche il lungo poema “Psychopompos” (Weird Tales, settembre 1937), che vede un malvagio barone medievale terrorizzare i suoi vassalli in forma di grosso lupo.

Weird Tales, aprile 1926, copertinaGli altri due “Moschettieri” di Weird Tales, Robert Ervin Howard (1906-1936) e Clark Ashton Smith (1903-1961), non furono da meno nel riplasmare alla loro maniera la figura del wolfman letterario. Howard lo fece in una accezione più classica, ma non priva di originalità e genuino vigore narrativo. In “The Forest of Villefere” (Weird Tales, agosto 1925) lo spadaccino de Montour incontra un temibile licantropo sui pericolosi sentieri della Francia del XVII secolo. La sua lama avrà la meglio, ma in un racconto seguente, “Wolfshead” (Weird Tales, aprile 1926), apprendiamo che a seguito di quell’avventura de Montour, per uno strano scherzo del destino, era rimasto lui stesso vittima della maledizione licantropica, destinato ad assumere mostruose sembianze lupesche nelle notti di luna piena. Lo scenario, questa volta, è la costa occidentale dell’Africa dove un nobile possidente spagnolo, Dom Vincente da Lusto, ha costruito un solitario castello. “Black Hound of Death” (Weird Tales, novembre 1936) si svolge invece nelle oscure foreste di pini del Sud degli Stati Uniti, e Howard vi narra l’allucinante vicenda di Adam Grimm, trasformato in creatura bestiale, mezzo uomo e mezzo lupo, dalle Nere Arti dei Sacerdoti di Erlik. Senza dimenticare Atla, la donna-lupo che nel racconto “Worms of the Earth” (Weird Tales, novembre 1932) aiuta Bran Mac Morn a compiere il suo spaventoso viaggio negli inferi della Terra.

Dal canto suo Clark Ashton Smith, scrittore abilissimo nel campo della science fantasy, offre un’altra diversificazione della licantropia in “The Beast of Averoigne” (Weird Tales, maggio 1933), che prende spunto da una vecchia leggenda provenzale, quella della Bestia del Gevaudan (l’enorme lupo che terrorizzò i boschi di Francia nel XVIII secolo) reinterpretata però nell’ottica dei lovecraftiani “Miti di Cthulhu”. Per Smith il lupo mannaro è una figura-simbolo preferita per esprimere le paure che si annidano nei boschi, e benchè tali creature appaiano direttamente soltanto in due sue storie della serie di Averoigne (oltre a quella citata anche in “The Enchantress of Sylaire”, dove s’incontra il personaggio di Malachia du Marais, un uomo trasformato in licantropo dagli incantesimi di una maga) esse sono “onnipresenti” dietro le quinte di ognuna. Più tardi questo scrittore affronterà ancora il tema, ma volgendolo in chiave decisamente satirica, nel bizzarro racconto “Monsters in the Night” (The Magazine of Fantasy & Science Fiction, ottobre 1954). Qui troviamo un licantropo che assale per errore un robot scambiandolo per un uomo!

Henry St. Clair Whitehead, fotoAltro famoso contributore di Weird Tales fu Henry St. Clair Whitehead (1882-1932), anche lui amico di Lovecraft e autore tra i più interessanti del primo dopoguerra americano. Pur essendo un diacono della Chiesa episcopale nelle Isole Vergini, Whitehead era accompagnato da una eccezionale fama di uomo forte e coraggioso, che oltre ad essere un intrepido cacciatore di serpenti era anche uno studioso di oscuro folklore. E per spavalderia nei confronti delle superstizioni di quei luoghi, si vantava di avere per amici due veri lupi mannari! Nel suo racconto “No Eye Witness” (Weird Tales, agosto 1932) uno scienziato prova un macchinario avveniristico, una specie di video capace di mostrare scene accadute in passato, e assiste da testimone involontario alla nascita della leggenda sui licantropi. In questa storia è particolarmente originale la fusione di fantascienza, orrore e mito. Un altro esempio di storia licantropica lo troviamo poi in quello che è forse il suo racconto più famoso, “Jumbee” (Weird Tales, settembre 1926), che prende spunto dal folklore caraibico. Qui, per magia voodoo, una vecchia strega si trasforma in un pericoloso cane il cui tocco significa la morte. Whitehead si riferisce al fenomeno definendolo come “canicantropia”.

[Continua]

Pietro Guarriello

martedì 24 agosto 2010

Botanica Delira: strane storie dal mondo vegetale

Botanica Delira, 2010, copertina“Altre storie di vegetazione strana, sconosciuta e omicida” è quel che recita il sottotitolo di Botanica Delira. More Stories of Strange, Undiscovered, and Murderous Vegetation, una antologia a cura di Chad Arment fresca di stampa per la piccola casa editrice americana Coachwhip Publications, specializzata nella riproposta di testi d’epoca o da tempo fuori copyright fra letteratura fantastica e saggistica assortita.

Complemento ideale all’analogo Flora Curiosa. Cryptobotany, Mysterious Fungi, Sentient Trees, and Deadly Plants in Classic Science Fiction and Fantasy pubblicato nel 2008, il volume raccoglie altri 21 racconti brevi avventurosi, esotici e fantastici sul tema, tutti apparsi tra la fine dell’Ottocento e gli anni 30, da Louisa May Alcott a Sax Rohmer e Arthur Conan Doyle passando per la narrativa anonima delle riviste popolari del periodo.

Criptobotanica, piante misteriose e divoratrici d’uomini, fiori dal profumo letale, apocalittiche gramigne e cactus tropicali assassini si alternano a illustrare uno stranissimo, spesso mortale mondo vegetale che dai temi della fantasia letteraria, agli albori dell’horror, della fantascienza e fantasy, vanno a sconfinare nella cronaca, presentandoci nella raccolta anche una selezione di articoli tratti da quotidiani apparsi fra il 1885 e il 1913. Resoconti quasi salgariani nel loro sensazionalismo esotico, esagerati o artefatti a suscitare un senso di timore e meraviglia.

Tutte le informazioni sul libro, con l’indice al completo di autori e contenuti, sono disponibili presso la pagina dedicata sul sito web dell’editore.

Botanica Delira.
More Stories of Strange, Undiscovered, and Murderous Vegetation
a cura di Chad Arment
Coachwhip Publications, 2010
brossura, 294 pagine, $14.95
ISBN 9781616460259

Andrea Bonazzi