
Ultimo dei tre volumi autobiografici di Arthur Machen dopo Far Off Things (1922) e Things Near and Far (1923), inediti in Italia, The London Adventure or the Art of Wandering (1924) è forse della trilogia il più affascinante, quasi romanzesco, mischiando ancora racconti – talora parziali o reticenti – della propria vita e carriera letteraria personale a spunti saggistici, cronache e aneddoti, ma facendo qui del vagare, come del divagare, un’arte vera e propria. L’arte del “vagabondaggio”, appunto, in una Londra tra Otto e Novecento i cui percorsi paiono intessersi in una qualche strana “metafisica dello sviluppo urbano”; cenni di un mondo “altro” celato appena sotto la superficie delle cose. L’arte della divagazione, infine, consueta nell’opera dello scrittore gallese, come a deviare sulla via per ogni traversa amena, verso ogni altra destinazione interessante lungo tragitto che ci viene illustrato passeggiando.
Un percorso di architetture più grandiose di quanto mai sia possibile porre per iscritto, almeno nella percezione dell’autore che, da subito confessa, ben altro libro avrebbe voluto scrivere col titolo di The London Adventure, dandocene invece un mero indiretto quadro in questo suo volume. Un “libro nel libro” per chi, come a suo tempo scrisse in Far Off Things, “fa sogni di fuoco e si trova a lavorare con l’argilla”: – “One dreams in fire and works in clay”.

Stessa versione, appunto, mantenendo un utile apparato di note esplicative ma pure conservando, mai corretta negli anni, qualche svista. Sino all’ironia involontaria di scambiare uno stato d’animo per una carrozza.
C’è una parola inusuale che ricorre intradotta nel quarto capitolo, a pagina 93 dove si legge “Tornai a Reigate in un dwam, come dicono in Scozia, senza sapere se mi reggevo sulla testa o sui piedi” (nell’originale, “I drove back to Reigate in a «dwam», as the Scots say; really not knowing wheter I stood on my head or my heels”), e a pag. 94: “Andai a casa in quel dwam chiedendomi cosa avrei dovuto fare e infine scrissi la storia proprio come era successa” (di nuovo fra virgolette, “I went home in that «dwam» and wondered what on hearth I was to do, and at least wrote the whole, true story, just as it happened”). Alla nota numero 44 viene affidato quindi il compito chiarire la definizione; “Dwam: tipo di carrozza scoperta usata in Scozia”.
Non è la prima volta che Machen adopera questo termine scozzese nei suoi scritti, lo si incontra per esempio nel racconto breve “Dr. Duthoit’s Vision”, del 1921. Di certo non appare sui più diffusi dizionari d’inglese ma, testimone fra gli altri un interessante articolo dello Scots Language Centre, “dwam” descrive piuttosto uno stato di “sogno a occhi aperti”, di stupore o rapimento estatico... A suo modo un “trasporto”, in effetti, però non certo fisico né a trazione equina.
Divagazioni a parte, irresistibili di fronte a un’opera capace di tesserne un intero arazzo senza mai perdere il filo o disperderne la trama, l’ultima ristampa de L’avventura londinese rappresenta un’ottima occasione di lettura o rilettura di uno scrittore qui da noi finora collegato solamente al genere fantastico, o all’estetica decadente e mistica di fine Ottocento e primo secolo Ventesimo.
“It is possible, just dimly possible, that the real pattern and scheme of life is not in the least apparent on the outward surface of things, which is the world of common sense, and rationalism, and reasoned deductions; but rather lurks, half hidden, only apparent in certain rare lights, and then only to the prepared eye; a secret pattern, an ornament which seems to have but little relation or none at all to the obvious scheme of the universe”. (The London Adventure, I ed. Martin Seker, London 1924; Chapter I, pag. 21) | “È possibile, oscuramente possibile, che il vero schema e tracciato della vita non appaia nell’aspetto esteriore delle cose, che è il mondo del buon senso, del razionalismo, delle deduzioni ragionate, ma piuttosto affiori, seminascosto, visibile unicamente in certe rare illuminazioni e solo a un occhio preparato; un tracciato segreto, un ornamento che sembra soltanto avere una piccola relazione o nessuna del tutto con l’ovvio schema dell’universo”. (L’avventura londinese, Capitolo I, pag. 21, trad. di F. Basso) |


Andrea Bonazzi
(in prima versione su In Tenebris Scriptus del 29/12/08)
(in prima versione su In Tenebris Scriptus del 29/12/08)
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