lunedì 19 luglio 2010

Clark Ashton Smith, l’imperatore dei sogni

“Inchinatevi: Io sono l’Imperatore dei Sogni. Mi incorono con i milioni di astri colorati di mondi segreti e incredibili, e prendo i Loro perduranti cieli come mie vesti regali. E allorché mi innalzo sul Trono dove il vertice ascende, illumino l’orizzonte che s’espande nell’universo infinito”...
– C. A. Smith, “The Emperor of Dreams” (1912)

Clark Ashton Smith, illustrazione di Andrea BonazziUno degli scrittori più illustri e popolari di Weird Tales, la celebre “rivista dell’insolito e del bizzarro” (come citava il sottotitolo) che, paradossalmente, ebbe il suo periodo di maggior splendore negli anni 30 durante lo squallore della Grande Depressione americana, è stato Clark Ashton Smith (1893-1961) il quale, insieme a H.P. Lovecraft e a Robert E. Howard, fu definito – da Lyon Sprague de Camp – uno dei “Tre Moschettieri” della rivista.

Sul magazine guidato da Farnsworth Wright (direttore di Weird Tales dal 1924 al 1940) apparvero tutti i suoi lavori di stampo più marcatamente macabro e orrorifico, molti dei quali sono stati poi raccolti in una serie di volumi editi dalla mitica casa editrice Arkham House, pubblicati con titoli che evocano quel sense of unknown tipico delle storie di Smith: Out of Space and Time (1942), Lost Worlds (1944), Genius Loci (1948), The Abominations of Yondo (1960), Tales of Science and Sorcery (1964) e Other Dimensions (1970).

La fortuna di questi racconti, allo stesso tempo terrorizzanti e sublimi, risiede ancora oggi nella loro prosa, immaginifica e scintillante, stilisticamente perfetta, arcaica, sognante (Smith era anche un apprezzato verseggiatore, e prima di dedicarsi alla narrativa aveva già pubblicato diversi libri di poesia; i suoi versi sono stati paragonati a quelli di Baudelaire e Rimbaud, e osannati da personalità letterarie del calibro di George Sterling e Ambrose Bierce). A detta di molti critici, Smith possedeva una prosa che lo elevava sopra al resto dei suoi contemporanei, e fu solo per necessità che si mise a scrivere narrativa per i grezzi pulp e le riviste popolari dell’epoca: fantasie velenose e sardoniche su maghi e negromanti, vampiri, diavolesse e mostri, terribili divinità e strane creature aliene, giganti, stregoni, licantropi e tutto il resto dell’immaginaria Corte dei Miracoli del racconto soprannaturale, che in Smith si arricchisce però di un substrato “cosmico” il quale traeva linfa dalla sua filosofia escapistica, allontanandolo da ogni altro suo contemporaneo e rendendolo scrittore unico nel panorama del fantastico di marchio weird.

Benchè riprendesse lo stile ornato e fiorente dei classici del genere (Poe, Machen e Blackwood), integrandolo con lo spleen dei poeti Decadenti, Smith nel suo isolamento sviluppò un punto di vista altamente originale, dove le vicende dell’esperienza umana appaiono al più secondarie, e simile per certi versi a quello del suo contemporaneo e amico Lovecraft. Questo, in un iter narrativo che evolse e si potenziò durante il corso delle circa cento storie che scrisse in un periodo fertile che va dal 1925 al 1936, anno in cui smise quasi completamente di produrre narrativa per dedicarsi a forme d’arte manuali come la pittura e la scultura.

Le prime storie di Smith sono favole orientali influenzate dalle narrazioni delle Mille e una Notte e dal Vathek di William Beckford (a cui aggiunse anche un epilogo con “The Third Episode of Vathek”), e il soprannaturale vi gioca un ruolo ancora tutto sommato secondario. Tra le nove che appartengono a questa categoria, soltanto “The Ghost of Mohammed Din” e “The Ghoul” possono considerarsi realmente fantastiche.

Weird Tales, gennaio 1932, copertinaLe sue prime, vere storie dell’orrore iniziò a pubblicarle nel 1928, quando il suo racconto “The Ninth Skeleton” comparve su Weird Tales. Anch’esse, però, sono ancora abbastanza convenzionali. Vi troviamo palesemente l’influsso di Edgar Allan Poe e degli scrittori del gotico inglese, con i quali Smith condivise un gusto marcato per il macabro e il necrofilo, ma già vediamo svilupparsi in germe una sorta di mitologia alternativa che prende spunto dall’invenzione lovecraftiana. In racconti come “The Hunters from Beyond”, “The Treader in the Dust” o “The Immeasurable Horror”, Smith utilizza metodi narrativi che si avvicinano molto a quelli del creatore dei “Miti di Cthulhu”, e intenzionalmente ne riprende lo stile arcaico. Il racconto “The Hunters from Beyond”, per esempio, narra di uno scultore che usa per modelli i mostri che ha evocato con le pratiche della magia nera, e sembra essere stato ispirato direttamente dal “Pickman’s Model” di Lovecraft.

E come Lovecraft, anche Smith crea un suo pantheon di dèi e di mostri (Tsathoggua, Abhoth, Thamogorgos, Ubbo-Sathla, Atlach-Nacha e altri) e altresì un suo grimorio infernale (uno pseudobiblium, come si definisce il libro che non esiste), il Libro di Eibon che all’interno della narrativa smithiana ha la stessa funzionalità magica del Necronomicon.

Più tardi, comunque, Clark Ashton Smith si svincola dall’influenza del suo amico di Providence e sviluppa un genere proprio di cosmic horror che, se possibile, è ancora più estremo di quello di HPL. Difatti, se Lovecraft si definì anche “narratore realista”, il cui scopo principale era quello di costruire un’atmosfera attraverso il metodo lento e pedestre del particolare narrativo e della verosimiglianza scientifica, Smith fu molto più radicale nel rivendicare, all’interno della narrativa d’immaginazione, la piena estraneità di ciò che chiamava “umanitarismo” (che in uno dei suoi Epigrams of Alastor definì una sorta di “provincialismo cosmico”). Per lo scrittore di Auburn, la migliore se non l’unica funzione della letteratura fantastica era quella di guidare l’immaginazione umana verso l’esterno, per portarla – come scrisse in una lettera del 1932 inviata alla rivista Wonder Stories“nella vasta eternità dei cosmi e lontano da tutte le introversioni ed introspezioni”.

Una caratteristica, questa, che avvicina molto i racconti di Smith alla science fantasy, dove è tipico il rifuggire dalle umane convenzioni. Esemplificativi sono i racconti “A Night in Malneant”, forse il più poetico ed enfaticamente sognante di tutti quelli da lui scritti, e “The Light from Beyond” in cui il protagonista, Dorian Wiermoth, compie l’esperienza unica di un viaggio cosmico attraverso mondi esotici di rara bellezza. E poi “The Dark Age”, una delle metafore più belle che siano mai state scritte sul potere della tecnologia, così come opposta alla libertà delle emozioni e delle fantasie umane. Senza dimenticare la bellezza “gotica” di novelle macabre come “The Nameless Offspring”, “The Devotee of Evil”, “The Double Shadow” o “The Tomb-Spawn”, racconti capaci di irretire anche i più smaliziati verso il genere.

Le storie in cui Clark Ashton Smith scioglie totalmente le briglie della sua immaginazione, liberandosi definitivamente dalle influenze degli scrittori a lui più cari, sono però quelle che compongono alcuni cicli ambientati in terre immaginarie. Tra esse le più “strane” sono quelle del cosiddetto “Ciclo di Averoigne” che, composto di undici racconti, è forse il suo magnus opus. Qui i personaggi, gli ambienti e le situazioni sono ispirati dalla favolosa Francia medievale delle leggende epiche arturiane, ma insieme ad alcune invenzioni che riscrivono la storia vi si possono trovare elementi presi dalla mitologia greca, dalla demonologia medievale, dalla fiaba, dal romanzo gotico e dai lovecraftiani “Miti di Cthulhu”. Per cupa inquietudine e sottile erotismo, molti di quei racconti possono essere definiti vere e proprie “favole nere per adulti”.

Tra essi spiccano “The End of the Story”, dove un giovane studente di legge, Christophe Morand, viene irretito nei pressi di un castello diroccato da una bellissima ma pericolosa lamia e condotto a perdizione in un oscuro regno sotterraneo, “The Colossus of Ylourgne” dove agisce un gigantesco mago composto dai corpi di più cadaveri (quasi una rilettura “magica” del Frankenstein di Mary Shelley), e poi “The Disinterment of Venus”, con una comunità di monaci messa in subbuglio dalle procaci nudità di una diabolica statua, e “The Beast of Averoigne”, nel quale Smith prende spunto da un’antica leggenda provenzale, quella della mitica “Bestia del Gevaudan”, per imbastire l’allucinante storia di un mostro spaziale e mutaforma che giunge sulla terra seguendo la scia di una cometa.

Klarkash-Ton, illustrazione di Richard SvenssonIn altre serie di racconti – I cicli di “Zothique”, “Atlantide” e “Hyperborea” – Smith ricorre agli stessi metodi narrativi usati per quelli di Averoigne, con la differenza che qui non fa nessun riferimento a luoghi terrestri conosciuti, abbandonando ogni possibile allusione all’universo noto. Le civiltà strane e decadenti che evoca, malgrado una loro somiglianza con alcuni luoghi del favoloso passato della Terra, sembrano situarsi al di fuori dello spazio e del tempo; i continenti ivi descritti non corrispondono in nessun modo alla topografia del nostro pianeta, e gli eventi che vi accadono sono fuori da ogni prospettiva storica. Qui il “cosmicismo” di Smith tocca il suo apice, e fra le creature più fantastiche e mostruose, tra i fatti prodigiosi che accadono, siamo trasportati ben lontano dal mondo reale.

A Smith non interessa raccontare una storia da un punto di vista “umano”. Ciò che lo stimola è piuttosto l’assenza dei limiti, le seduzioni di un universo misterioso e insondabile, il fascino incommensurabile dell’infinito. “La prerogativa più gloriosa della letteratura” – scrisse in una lettera inviata ad Amazing Stories“è data dall’esercizio dell’immaginazione su cose che risiedono oltre l’esperienza umana, avventurando la fantasia nei sublimi, spaventosi e infiniti cosmi al di fuori dell’acquario umano”.

Per Smith, la vera eccitazione nell’avventura dello scrivere stava nel descrivere eventi ultraumani, forze e scenari capaci di rendere insignificanti i protagonisti terrestri. In questo senso, il cosmic horror rappresentò per lui una sorta di letteratura mistica, attraverso la quale poter accedere ad una realtà “altra” capace di trascendere le umane limitazioni. Come fa dire al personaggio di un suo racconto: “Forse quella che noi chiamiamo Realtà è solo un’allucinazione collettiva”, forse solo una parte di “quella realtà più vasta che i nostri sensi o la nostra scienza è incapace di rivelare”.

Il desiderio principale di Smith, come si evince anche dai saggi che scrisse, era quindi di trascendere i limiti umani per mettersi in armonia con l’universo e il Tutto (e forse fu proprio per tale motivo che negli ultimi anni della sua vita si interessò al Buddhismo). Per questo si discostava da quella che era la mitologia “positivista” del suo tempo, atta a eliminare ogni traccia d’ignoto nell’uomo, a respingere ogni sospetto di mistero, e avvicinò invece la filosofia di alcuni mistici e le idee di personaggi considerati oggi, come allora, eccentrici, tra cui Madame Helena P. Blavatsky (la cui influenza si palesa soprattutto nelle storie “teosofiche” del “Ciclo di Hyperborea”) e Charles Fort, che fu uno dei suoi principali ispiratori. Per cui la sua prosa risulta molto più ricca, emblematica e spirituale di quella di ogni altro scrittore della sua epoca.

Da vero visionario ed esteta, Smith si impegnò in una riflessione su scala cosmica, una riflessione che trasposta in forma narrativa esprimeva tutto il suo stupor mundi. Si mise quindi a comporre storie meravigliose e bizzarre, dove la separazione dall’ottica terrestre, il senso dello smarrimento e di solitudine di fronte ai misteri del “gelo comico” tocca vertici di ineguagliato lirismo. Per riuscire a comprendere appieno la weltanschauung smithiana si dovrebbero leggere, insieme ai racconti, anche i saggi e le lettere che scrisse; documenti che sono di fondamentale importanza per capire le pulsioni che hanno animato lo scrittore portandolo a plasmare quei racconti.

Per Smith, come abbiamo detto, era vitale il senso del mistero, l’assenza dei limiti, e quello che ricercava era soprattutto il fascino del meraviglioso e dell’ignoto. Come ebbe a scrivere una volta a Lovecraft, “scienza, filosofia, psicologia e umanesimo sono dopotutto solo bagliori di candela di fronte alla notte eterna, con le sue infinite riserve di stranezza, terrore e meraviglia”. E in un’altra occasione – una missiva a Harry Bates del giugno 1931 – ribadisce il concetto affermando che “(…) in un eterno e vasto cosmo non c’è nulla di immaginabile, o di inimmaginabile, che non possa accadere e non possa essere reale in qualche tempo o in qualche luogo (…) La scienza ha scoperto e continuerà a scoprire una massa enorme di dati relativi, ma rimarrà sempre un residuo illimitato di mistero insondabile”.

In un tale senso, il campo della narrativa d’immaginazione diventa per Smith un campo pienamente inesauribile, un immenso serbatoio da cui attingere per scrivere storie in cui il sense of wonder si accompagni e trame assolutamente nuove ed originali.

Lost Worlds, 1944, copertinaRispecchiando questo punto di vista “cosmico”, ancora più pregnanti delle fantasie orrorifiche sono le storie di fantascienza dell’autore, ambientate in mondi le cui descrizioni fanno pensare alle stupefacenti tavole dei surrealisti, dove ogni prospettiva è abolita. Lo scenario, chiaramente, non è “relistico” né, men che meno, “scientifico”. Protagonista è l’universo intero, un universo immenso costellato di mondi rutilanti e abitato dalle creature più strane e incredibili, pieno di portenti e di infinito splendore ma anche di terrori al di là di ogni immaginazione. La fantascienza di Clark Ashton Smith è, ancora oggi, qualcosa di assolutamente unico e innovativo, poiché possiede un afflato “cosmico”, un’immensità straordinaria di idee e di concetti che al lettore meno superficiale non possono sfuggire. Egli si divertiva infatti a coronare i suoi racconti con immagini, metafore e simboli (anche “alchemici”) non immediatamente comprensibili per chi non è addentro nel misterioso linguaggio della letteratura nera e fantastica. Per cui, le sue storie di fantascienza sembrano quasi un’estensione di quelle horror, e ben lontane dalla science fiction più ortodossa e progressista.

Sulla base di questo “fideismo cosmico”, Smith scrive storie originali e altamente evocative. Il claustrofobico “Murder in the Fourth Dimension” si ambienta in una piega dello spazio non-euclideo; in “The Eternal World” le normali leggi del tempo e dello spazio sono annullate, mentre in “The Dimension of Chance” i protagonisti sono immersi in un universo multicolore retto da bizzarre leggi fisiche, dove il Caos regna incontrastato. Tra i suoi capolavori spiccano poi “The City in the Singing Flame”, dove una brulla California si trasfigura fantasticamente in una imaginary land da cui è possibile accedere nell’arcano mondo parallelo della Fiamma, e “The Desolation of Soom”, in cui lo scenario smithiano riesce effettivamente ad evocare la sensazione che misteriose Verità dormano “oltre l’orizzonte fiammeggiante”.

È difficile poter rinserrare sotto un’unica definizione l’arte letteraria di Clark Ashton Smith. Il suo lavoro fantastico è probabilmente unico nel suo genere, e il suo stile elegante e volutamente arcaico rende i suoi racconti quasi dei poemi in prosa, dei piccoli gioielli del macabro dove le immani meraviglie del cosmo vanno di pari passo con il mistero e con i terrori più indicibili.

Come scrisse Howard Phillips Lovecraft, “Smith s’è sottratto ai feticci della vita e del mondo, ha intravisto la perversa, titanica bellezza della morte e dell’universo, servendosi dell’infinito per creare i propri sfondi e registrando con reverente timore i capricci di soli e pianeti, di dèi e di demoni, e dei ciechi orrori amorfi che infestano giardini di fungosità policrome più remoti di Algol e d’Achermar. È un cosmo di vivida fiamma e di glaciali abissi quello che egli celebra, e il rigoglio dai colori sgargianti con cui lo popola non deriva da nient’altro se non dal genio più vero” (Cit. “Su Ebony and Crystal di Clark Ashton Smith”, in H. P. Lovecraft, In Difesa di Dagon e altri Saggi sul Fantastico, a cura di G. de Turris, Ed. SugarCo, 1994).

Dette da uno dei più grandi maestri dell’orrore letterario, queste parole acquistano un significato particolare e profondo, che non può sfuggire ai cultori più raffinati del genere. E a quei fortunati lettori che avranno la ventura di imbattersi nei racconti di Smith. Entrati in quelle pagine, si dispiegheranno in voli assurdi le mille Chimere del Sogno, e si spalancheranno le Porte d’Argento che portano nel più vasto mondo della Fantasia e dell’Immaginazione.

Bibliografia di Riferimento:
Pietro Guarriello (a cura di), Ombre dal Cosmo: Fantasie di Clark Ashton Smith, Ed. Yorick, Reggio Emilia, 1999
Charles K. Wolfe (a cura di), Planets and Dimensions: The Collected Essays of Clark Ashton Smith, The Mirage Press, Baltimora, 1973
David E. Schultz e Scott Connors (a cura di), Selected Letters of Clark Ashton Smith, Arkham House, Sauk City, 2003
Don Herron e Donald Sidney-Fryer (a cura di), The Devil’s Notebook: Collected Epigrams and Pensees of Clark Ashton Smith, Starmont House, Mercer island, 1990
Steve Behrends, Clark Ashton Smith, Starmont Reader’s Guide n. 49, Mercer Island, 1990
Donald Sidney-Fryer, Clark Ashton Smith: The Sorcerer Departs, Tsathoggua Press, West Hills, 1997
Scott Connors (a cura di), The Freedom of Fantastic Things: Selected Criticism on Clark Ashton Smith, Hippocampus Press, New York, 2006
Brian Stableford, “Clark Ashton Smith”, in Encyclopedia of Fantasy, St. Martin’s Press, New York, 1997


Ombre dal cosmo, 1999, copertinaPOST SCRIPTUM: Questa presentata è la versione rivista e corretta di un mio vecchio pezzo scritto una quindicina di anni fa, poi pubblicato su uno dei Taccuini che uscivano come supplementi di Yorick Fantasy Magazine. Quelli di Yorick erano fascicoletti spillati, stampati in pochissime copie per cui, praticamente, è come se fosse inedito! C’è solo da aggiungere che Clark Ashton Smith è – purtroppo – un autore ancora poco conosciuto in Italia, nonostante il fatto che praticamente quasi tutta la sua produzione narrativa sia stata tradotta anche nel nostro paese. Generalmente, si sente parlare di lui solo quando il suo nome viene associato a quello di Lovecraft e Robert E. Howard, i due scrittori con i quali Smith condivide la fama di Maestro della narrativa weird. Ma, all’atto pratico, su di lui non esistono da noi studi originali né tradotti, e la critica, o anche soltanto il trovare semplici informazioni su questo grande fantasista, è – ahinoi – una rara avis, almeno per chi non legge in inglese.

Un pioniere in questo campo è stato il prof. Giorgio Giorgi (recuperate, se non l’avete, il suo libro Percorsi nel Fantastico, Ed. Il Cerchio, 1997). C’è poi quel mio vecchio volumetto, Ombre dal Cosmo; ma a parte questo e poco altro, Smith è ancora un autore piuttosto elusivo per l’appassionato italiano che intenda approfondirne la conoscenza. Attualmente, in Italia non esiste nessuna edizione di Clark Ashton Smith in commercio, per cui se qualcuno vuol recuperare qualcosa, deve solo affidarsi al classico colpo di fortuna su e-Bay. E cercare le sette edizioni di Fanucci, o le quattro della MEB. E il “Ciclo di Zothique” della Editrice Nord, più facile da reperire perché ristampato anche in tascabile.

In USA, tutta un’altra storia. E proprio di recente CAS è stato il soggetto di diverse e preziose uscite, saggi, studi critici, raccolte di poesie e di lettere, e molto altro. Tutta la sua narrativa originale, in edizione finalmente corretta, integrale e annotata, è possibile trovarla nei cinque volumi (ma il quinto deve ancora uscire) di Collected Fantasies della Nightshade Press; senza dimenticare una risorsa fondamentale come il sito The Eldritch Darkwww.eldritchdark.com – gestito con competenza e passione da Boyd Pearson (qui, però, la narrativa di Smith è ripresa da vecchie e imperfette edizioni). Attualmente, sotto la supervisione di Scott Connors, che cura la rivista Lost Worlds: The Journal of Clark Ashton Smith Studies, è in preparazione una Bibliografia mondiale dello scrittore, a cui il sottoscritto sta collaborando per parte italiana.

Pietro Guarriello

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