Altro sognatore “scientifico” fu l’illustre figlio della Duchessa di Manchester, Algernon Blackwood. Come spesso era solito accadere nell’Inghilterra agli inizi del ventesimo secolo il padre del Nostro, un alto funzionario del Ministero delle Poste Britanniche, aderisce a una setta fondamentalista di stampo calvinista (quasi la stessa occorrenza toccata in sorte ad Aleister Crowley), condannando così il figlio a una carriera che è facile prevedere. Il giovane Algernon dimostrò subito una capacità di sopportazione molto limitata, tratto distintivo di ogni buon sognatore individualista che si rispetti, ma in particolare nei riguardi di una Divinità che condanna o perdona aprioristicamente.
Al termine di una esperienza di soggiorno e studio in Moravia, voluta dai genitori allo scopo di far apprendere al figlio il tedesco, lingua utile al commercio, il giovane Algernon deciderà ribellarsi alla religione dei suoi genitori mediante lo studio delle dottrine occulte, dell’ipnotismo e dei Veda. Successivamente, il Nostro viene inviato in una fattoria in Canada a curare alcuni affari di famiglia, esperienza che si rivelerà fallimentare. Lo vediamo tornare in un secondo momento e nello stesso luogo, ma per passare un lungo periodo nei boschi ancora parzialmente inesplorati di quelle regioni, in completo ritiro dal mondo e a “scopo di studio”, esperienza dalla quale Blackwood trarrà i suoi migliori “Camp Tales” (uno fra tutti “The Wendigo”).
Lo troviamo ancora una volta a New York, in rotta completa con la famiglia, senza soldi e senza alloggio, accusato di vagabondaggio e perfino di incendio doloso. Il suo migliore amico di allora, Arthur Bigge, si rivelerà in realtà un approfittatore senza scrupoli che si involerà rubandogli le poche possessioni rimastegli. In un secondo momento Blackwood ritroverà il suo persecutore e lo farà arrestare, dopodichè si farà assumere come reporter dal New York Times, occupazione che gli donerà anche una relativa stabilità economica. Di questo periodo, Blackwood ci ha lasciato un alter-ego indimenticabile, Jim Shorthouse, e due fra i suoi migliori racconti: “The Empty House” e “A case of Eavesdropping”.
È normale che un sognatore di professione vada alla ricerca di lontananze immaginate, ma è molto raro che queste si concretizzino in distanze fisiche. Le sue inquietudini personali, lo spingono infatti ad abbandonare il mestiere di reporter per quello di commerciante di alcolici, poi ancora sarà segretario di un famoso milionario, per infine abbandonare i suoi vagabondaggi e fare ritorno alla natia Inghilterra, come scrisse un suo biografo: “se non ricco di beni, quanto meno di esperienza”.
Dopo il suo ritorno, Blackwood si dedicò alla scrittura professionale e fu iniziato alla Golden Dawn da un amico (molto probabilmente quel M.W. al quale dedica il suo ciclo di John Silence) tornando così imperiosamente alle vecchie passioni giovanili. Ciò che, secondo David Punter, àncora saldamente la narrativa di Blackwood alla tradizione gotica è la sua ricercata attenzione agli ambienti, oltre che alla psicologia dei personaggi.
Ma eccetto alcuni casi, rare volte si tratta di ambienti chiusi. In “Ancient Sorceries”, uno dei casi non risolti di John Silence, è un’intera cittadina medioevale a esercitare un influsso maligno e irreversibile sulla psiche del protagonista. La cittadina, mano a mano che la narrazione si dipana, assume sempre più le caratteristiche di una maledizione circolare, che si ripete a ogni nuova reincarnazione della “vittima”. Giurata una volta fedeltà al Demonio, il povero Vezin sarà per sempre condannato a ripetere il gesto e non ha alcuna importanza che la cittadina sia praticamente disabitata in data odierna, in quanto alla prima apparizione di Vezin, i fantasmi demoniaci sorgono automaticamente intorno a lui e prendono nuova vita, ma per ripetere eternamente la stessa attività di una volta; iniziare Vezin al male. Il protagonista riesce infine a ricordare quando avvenne il fatto la prima volta e, così facendo, ad esorcizzarlo parzialmente sotto le scrupolose attenzioni di John Silence. Ma quando infine il detective psichico viene interrogato sulla possibile guarigione dello sfortunato e prostatato Vezin, egli risponde: “...Riemersioni subliminali di ricordi come queste possono essere incredibilmente dolorose e talora molto, molto pericolose. Spero solo che quell’anima sensibile possa quanto prima fuggire dall’ossessione di quel passato violento e tempestoso. Ma ne dubito, ne dubito...”.
Come Punter rileva, si tratta del passato che ritorna con il suo carico di angosce irrisolte e ripetitività diabolica. Viene da pensare ai principi del romanzo gotico, dove il simbolo del passato ominoso viene sempre rappresentato da un luogo; il castello dei Mysteries of Udolpho di Ann Radcliff, L’abbazia di Ambrosio in The Monk di M.G. Lewis, o ancora la monumentale e tardiva Gormenghast di Mervyn Peake: il Castello infinito e illimitato, che non rappresenta solo un passato oppressivo e imbalsamato in quanto, come suggerisce Peake, Gormenghast è un’immagine diretta del mondo. Ma con Blackwood assistiamo alla genesi di un gotico più maturo ed “evoluto”, se vogliamo.
Il passato, in Blackwood, si libera decisamente delle limitazioni da ambiente chiuso, per diventare semplicemente Ambiente. Egli sposta, con un’abile mossa da consumato autore, l’attenzione percettiva del lettore non sul luogo “isolato” dell’azione, ma sul mondo stesso in cui il lettore vive e opera, in altre parole sulla realtà del mondo in cui viviamo come vero ambiente chiuso, recintato da un universo ostile, costantemente in agguato e in attesa di rivelarsi qualora il velo della percezione “normale” si squarci in un istante di fatale rivelazione.
Fra i racconti che segnano il passaggio tra uno stile e l’altro, il più rappresentativo è senza dubbio “The Insanity of Jones”. La parafernalia del gotico vi si trova tutta, compresa la scena finale di vendetta con i suoi particolari efferati, violenza rappresentata con tratti di un’alienità tanto più ostica e straniante in quanto avallata da una Giustizia soprannaturale implacabile e imparziale. In questo racconto, il lettore benpensante non vede nient’altro se non lo sfogo di una persona isolata e mentalmente disturbata, il lettore “iniziato” vede invece solo il naturale compiersi di un atto di giustizia troppo a lungo posticipato. Blackwood gioca ancora qui con l’ambiguità della nostra percezione riguardo alla follia e alla sanità mentale, non parla a una categoria o a una classe sociale “statica” (l’aristocrazia decaduta o decadente del gotico classico o della ghost story vittoriana) ma alla middle-up class londinese post-imperiale, ovvero a quel coacervo metropolitano di inquietudini, frustrazioni e straniamento che è la cifra della nostra cosiddetta modernità.
Contrariamente a quanto accade all’ultimo rampollo di una qualsiasi condannata famiglia di nobili scozzesi o inglesi, con il loro carico represso di presagi familiari, in “The Insanity of Jones” gli “omina” di una vendetta soprannaturale non attendono nel quadro di un antenato ritratto con uno stile particolarmente vivido, né nella stanza chiusa di una magione avita né in una dimenticata camera di tortura, ma fra i tavoli di una mensa per impiegati, alla periferia di un quartiere proletario oppure nello stesso ufficio dove Jones trascorre la maggior parte della sua vita monotona e confusa. Non per questo dobbiamo pensare che gli elementi soprannaturali perdano qualcosa della loro magniloquenza tragica, anzi, questi non si risparmiano neppure un trucco fra quelli tipici del genere; si permettono addirittura di giustificare e assolvere il protagonista, inviando per lui una guardia soprannaturale che lo scorta alla punizione con una spada fiammeggiante, forse consapevoli del fatto che fra “quelle facce soprannaturali che si affollano intorno a Jones” si trovino anche quelle persone “normali” che non assolvono e non perdonano secondo le leggi di questo mondo.
Come vediamo, l’unico accenno al conservatorismo “classico” del gotico o della ghost story rimane solamente in una certa qual alzata d’orgoglio tipicamente cockney, che consiste nel criticare la modernità in quanto arida e imbarbarita al momento di condannare senza appello un valore sacro e dignitoso quale il vecchio concetto aristocratico di “vendetta”.
Ma a pensarci bene, ciò serve magnificamente a Blackwood per alzare ancora di più il livello di ambiguità del racconto. Viene da pensare all’altrettanto ambiguo “tema del traditore e dell’eroe” di J.L. Borges, con il suo carattere di ripetitività ossessiva (il concetto di “destino” che in Borges è quasi più da intendersi come simbolo dell’arethè gauchesca argentina, più che ragionata riflessione sul concetto orientale di reincarnazione) e con la sua accumulazione di presagi nonchè strizzata d’occhio all’epica classica.
Se quello che scrive David Punter è esatto, ovvero che: “In Blackwood il regno del Soprannaturale è accettato come esistente, le sue storie sono piene di «spiegazioni»... ma sono spiegazioni che presuppongono una credenza,” quanto da lui sottolineato è tanto più vero sia per i casi di John Silence che per i suoi magnifici “Camp Tales”. È in questi che si rende Palese l’interesse “scientifico” che Blackwood nutre nei confronti dell’occulto, e precisamente è qui che egli si libera della sua doppia oppressione di tipo psicologico costituita in parte dal filisteismo ipocrita e bigotto della borghesia mercantile emergente, in parte dalla statica immobilità dell’aristocrazia decadente. Blackwood conosce la seconda attraverso la madre e la prima per averla vissuta sualla pelle attraverso i suoi viaggi in giro per il mondo, oltre che attraverso la pletora di occupazioni “moderne” alle quali si era dedicato.
Il Blackwood più maturo e più abile è per l’appunto il Blackwood che rispolvera la sua passione giovanile per l’occulto, l’ipnosi, la natura dei demoni e delle entità “elementali”, la magia; ma stavolta con occhi nuovi e con un bagaglio di esperienze molto più vasto e profondo. Potremmo anche dire, attraverso un percorso “gnostico” che assomiglia molto a quello mistico-alchemico di Arthur Machen. Nei suoi racconti ad ambiente naturale, troviamo quella componente del gotico che alcuni critici hanno denominato attenzione verso “Il barbarico”. Fanno bella scena di sé ambienti selvaggi, personaggi non-civilizzati o semi-civilizzati come il Défago di “The Wendigo”. Ma ancora una volta Blackwood inverte la cifra e il segno della narrazione per aumentare la nostra completa confusione, in quanto non sono realmente Entità appartenenti a un’altra dimensione a invadere il nostro Mondo, anche se ancora in buona parte inesplorato e ostile: siamo noi a invadere i loro rifugi, pagandone le tragiche conseguenze.
I personaggi di Blackwood, nota sempre giustamente David Punter, non fanno in realtà nulla per meritare tale funesto destino: vi incappano quasi sempre per casualità. A volte, ma solo in casi rari, tale casualità non è affatto tale (come in “May Day Eve”); più spesso invece vale il detto “l’ignoranza non è una scusante”.
Il racconto lungo, o romanzo breve “The Man Whom the Trees Loved” costituisce un esempio magistrale in questo senso. Un uomo mite e riflessivo si ritira a vivere con la moglie in una augusta magione posta sul limitare di un bosco immenso. L’uomo ama gli alberi, per i quali ha sempre nutrito una speciale passione, ciò che ancora ignora è quanto dagli alberi egli sia riamato...
Fin dal principio del racconto, caratterizzato da quel tipo di preparazione lunga e dettagliata che costituisce il “marchio di fabbrica” di Blackwood, assistiamo a uno scontro di volontà impari e disperato fra la moglie del protagonista, tesa a difendere il marito da una minaccia esterna da lei avvertita e presagita, e quella delle “Entità” del bosco, che la parola “Alberi” definisce solo parzialmente. Gli Alberi attirano l’uomo sempre più verso di loro, si avvicinano alla casa di notte per riallontanarsi a giorno fatto, tendono i loro rami sul capo del dormiente per frusciare nelle sue orecchie un richiamo che è sempre lo stesso: “unisciti a noi”. I tentativi di salvataggio e opposizione della moglie sono tanto disperati quanto commoventi, è l’ultimo baluardo della “Ragione comune” contro “L’Altro Mondo”, le cui dinamiche Blackwood ricostruisce con accenni e con una concezione di fondo che ha origini antiche e poco esplorate.
La selva dell’uomo amato dagli alberi, così come quella canadese in “The Wendigo” o quella galleggiante in “The Willows”, è sempre la stessa; è la “Hyle” dei teologi gnostici della scuola di Chartres, la materia indifferenziata, il caos agli inizi della Creazione o, meglio detto, ai suoi margini, e contrariamente a quanto credevano gli aristotelici è una “Entità senziente” e dotata di volontà propria. Così come un gruppo di spiritisti si riunisce in circolo allo scopo di incarnare nel nostro mondo una Entità “umbratile”, allo stesso modo le Entità che vivono ai confini fra il nostro mondo e l’altro congiurano per “spiritualizzare” alcuni soggetti peculiarmente sensibili nel “Loro” mondo. A volte, questo processo di trasmutazione alchemica avviene in maniera quasi naturale e il risultato si concretizza in quella “Santa fuga del prigioniero” nel mondo delle fate di cui parlava Tolkien e che ha sapore gnostico e iniziatico, come nel caso di “May day Eve”. Più spesso, la trasformazione è tragica e dolorosa.
Blackwood condivide con Machen la stessa concezione delle forze naturali, ma mentre Machen rimane sempre all’interno di una normativa plotiniana che ammonisce a non superare mai quel limite imposto dalla legge fra il Caos e l’Ordine, Blackwood ammette candidamente che il nostro Universo è per metà coperto da un velo di ignoranza e che oltre quel velo si cela “L’altro Mondo”, con le sue Entità spesso ostili. Alcune vivono in “riserve”, come i Salici del racconto omonimo o gli Alberi del signor Bittacy, ma solo gli iniziati come il dottor Silence sono in grado di rendersi conto di quando un universo collima con l’altro (come in “The Camp of the Dog”), per gli altri ignari visitatori c’è una rivelazione ominosa seguita da una dolorosa metamorfosi.
I Salici del racconto omonimo così come gli Alberi di Bittacy e Sanderson, oppure la solitaria e maestosa entità conosciuta come il Wendigo, fanno presa sull’immaginazione e l’intuizione dei soggetti che scelgono di catturare, oltre che sulla loro ignoranza e resistenza alla “loro” realtà, e sono precisamente queste prime due caratteristiche che Blackwood vuole esplorare “scientificamente” nei suoi racconti.
Le concezioni antiche volevano l’anima umana divisa in tre parti separate e connesse. Gli umanisti rinascimentali ripresero questa idea dalle concezioni egizie, ritornate in voga grazie alle innumerevoli copie manoscritte dei Geroglifica di Orapollo. Le sette massoniche del secolo ventesimo fecero incetta sia delle traduzioni rinascimentali, sia delle scoperte archeologiche effettuate al Cairo e a Saqqara, e la Golden Dawn, alla quale sia Blackwood sia Machen furono affiliati, non fu da meno. Gli egizi dividevano l’uomo in Ka (anima immortale), Ba (anima spirituale) e Aj (letteralmente “fantasma”). L’Aj è una entità che permane nel mondo materiale richiamata da qualche passione vissuta in vita (il classico ghost), il Ka, secondo gli gnostici valentiniani, ritorna direttamente al “Pleroma” di intelligenze che costituisce il “vero Dio” Increato e svincolato dalla sua creazione, ma il Ba non è né completamente spirito né completamente corpo; è una “mummia”, un morto-in-vita o vivo-nella-morte, ecco perchè gli egizi solevano lasciare offerte di cibo accanto alle mummie.
Allo stesso modo, i Salici del racconto si “nutrono” di qualcosa che non è mai specificato nella narrazione, ma che possiamo ricostruire tramite quanto sinora esposto. Essi privano gli uomini del loro “agente di trasformazione” lasciandoli vuoti e secchi come mummie, come involucri. Il Ba inoltre corrisponde, per gli gnostici alessandrini, alla “Imaginatio vera”, la facoltà che l’uomo possiede di comunicare con il mondo degli archetipi e degli Angeli. Gli Ishraquiyun (gnostici) persiani, di cui parla Henry Corbin, fanno inoltre menzione di una “Terra di Hurqalaya”, un mondo “sottile” che vive a stretto contatto col nostro, dove “gli spiriti si fanno carne e la carne si fa spirito”, proprio come accade nelle “Riserve” di Blackwood o sulle colline di “May Day Eve”.
Sarebbe affascinante pensare che George Gordon abbia messo le mani su qualche manoscritto “Ishraqui” mentre era di stanza nel Sudan per poi passarlo a qualche conventicola massonica alla quale sarà stato sicuramente affiliato, ho scritto di lui per non scrivere di qualche altro generale o archeologo britannico di stanza nel nord dell’Iraq o in missione diplomatica sulla catena dell’Elborz, ma è poco importante sapere se le conventicole esoteriche inglesi conoscessero o no della “Terra di Hurqalaya”. La stessa concezione, anche se con nomi diversi, si ritrova anche negli scritti di Jacob Boheme e, a voler guardare nel dettaglio, persino nelle visioni di William Blake.
Lasciando da parte le speculazioni fenomenologiche, è un fatto che la narrativa di Blackwood abbia profondamente influenzato la concezione dell’Orrore del buon H.P. Lovecraft e abbia anche creato una serie di scelti e ricettivi “continuatori” del suo stile e delle sue tematiche. Fra questi (che in tutto si contano sulle dita di una mano) cito Ramsey Campbell, che con il suo The Midnight Sun riprende il tema di “The Man Whom the Trees Loved”, forse in maniera più prolissa (si tratta di un romanzo di quasi 500 pagine) ma di sicuro effetto e potente atmosfera. Blackwood inseguì le sue teorie occulte su “L’espansione delle facoltà umane” fino alla fine, difendendole e diffondendole in quel mondo arido e opportunista che conobbe durante la sua maturità.
Bibligrafia parziale:
Algernon Blackwood, Colui che ascoltava nel buio e altre storie, Fanucci, 1978
Algernon Blackwood, John Silence, investigatore dell’Occulto, Fanucci, 1977
David Punter, Storia della Letteratura del Terrore, Editori Riuniti, 2000
Henri Corbin, Corpo spirituale e Terra Celeste, Adelphi, 1986
Al termine di una esperienza di soggiorno e studio in Moravia, voluta dai genitori allo scopo di far apprendere al figlio il tedesco, lingua utile al commercio, il giovane Algernon deciderà ribellarsi alla religione dei suoi genitori mediante lo studio delle dottrine occulte, dell’ipnotismo e dei Veda. Successivamente, il Nostro viene inviato in una fattoria in Canada a curare alcuni affari di famiglia, esperienza che si rivelerà fallimentare. Lo vediamo tornare in un secondo momento e nello stesso luogo, ma per passare un lungo periodo nei boschi ancora parzialmente inesplorati di quelle regioni, in completo ritiro dal mondo e a “scopo di studio”, esperienza dalla quale Blackwood trarrà i suoi migliori “Camp Tales” (uno fra tutti “The Wendigo”).
Lo troviamo ancora una volta a New York, in rotta completa con la famiglia, senza soldi e senza alloggio, accusato di vagabondaggio e perfino di incendio doloso. Il suo migliore amico di allora, Arthur Bigge, si rivelerà in realtà un approfittatore senza scrupoli che si involerà rubandogli le poche possessioni rimastegli. In un secondo momento Blackwood ritroverà il suo persecutore e lo farà arrestare, dopodichè si farà assumere come reporter dal New York Times, occupazione che gli donerà anche una relativa stabilità economica. Di questo periodo, Blackwood ci ha lasciato un alter-ego indimenticabile, Jim Shorthouse, e due fra i suoi migliori racconti: “The Empty House” e “A case of Eavesdropping”.
È normale che un sognatore di professione vada alla ricerca di lontananze immaginate, ma è molto raro che queste si concretizzino in distanze fisiche. Le sue inquietudini personali, lo spingono infatti ad abbandonare il mestiere di reporter per quello di commerciante di alcolici, poi ancora sarà segretario di un famoso milionario, per infine abbandonare i suoi vagabondaggi e fare ritorno alla natia Inghilterra, come scrisse un suo biografo: “se non ricco di beni, quanto meno di esperienza”.
Dopo il suo ritorno, Blackwood si dedicò alla scrittura professionale e fu iniziato alla Golden Dawn da un amico (molto probabilmente quel M.W. al quale dedica il suo ciclo di John Silence) tornando così imperiosamente alle vecchie passioni giovanili. Ciò che, secondo David Punter, àncora saldamente la narrativa di Blackwood alla tradizione gotica è la sua ricercata attenzione agli ambienti, oltre che alla psicologia dei personaggi.
Ma eccetto alcuni casi, rare volte si tratta di ambienti chiusi. In “Ancient Sorceries”, uno dei casi non risolti di John Silence, è un’intera cittadina medioevale a esercitare un influsso maligno e irreversibile sulla psiche del protagonista. La cittadina, mano a mano che la narrazione si dipana, assume sempre più le caratteristiche di una maledizione circolare, che si ripete a ogni nuova reincarnazione della “vittima”. Giurata una volta fedeltà al Demonio, il povero Vezin sarà per sempre condannato a ripetere il gesto e non ha alcuna importanza che la cittadina sia praticamente disabitata in data odierna, in quanto alla prima apparizione di Vezin, i fantasmi demoniaci sorgono automaticamente intorno a lui e prendono nuova vita, ma per ripetere eternamente la stessa attività di una volta; iniziare Vezin al male. Il protagonista riesce infine a ricordare quando avvenne il fatto la prima volta e, così facendo, ad esorcizzarlo parzialmente sotto le scrupolose attenzioni di John Silence. Ma quando infine il detective psichico viene interrogato sulla possibile guarigione dello sfortunato e prostatato Vezin, egli risponde: “...Riemersioni subliminali di ricordi come queste possono essere incredibilmente dolorose e talora molto, molto pericolose. Spero solo che quell’anima sensibile possa quanto prima fuggire dall’ossessione di quel passato violento e tempestoso. Ma ne dubito, ne dubito...”.
Come Punter rileva, si tratta del passato che ritorna con il suo carico di angosce irrisolte e ripetitività diabolica. Viene da pensare ai principi del romanzo gotico, dove il simbolo del passato ominoso viene sempre rappresentato da un luogo; il castello dei Mysteries of Udolpho di Ann Radcliff, L’abbazia di Ambrosio in The Monk di M.G. Lewis, o ancora la monumentale e tardiva Gormenghast di Mervyn Peake: il Castello infinito e illimitato, che non rappresenta solo un passato oppressivo e imbalsamato in quanto, come suggerisce Peake, Gormenghast è un’immagine diretta del mondo. Ma con Blackwood assistiamo alla genesi di un gotico più maturo ed “evoluto”, se vogliamo.
Il passato, in Blackwood, si libera decisamente delle limitazioni da ambiente chiuso, per diventare semplicemente Ambiente. Egli sposta, con un’abile mossa da consumato autore, l’attenzione percettiva del lettore non sul luogo “isolato” dell’azione, ma sul mondo stesso in cui il lettore vive e opera, in altre parole sulla realtà del mondo in cui viviamo come vero ambiente chiuso, recintato da un universo ostile, costantemente in agguato e in attesa di rivelarsi qualora il velo della percezione “normale” si squarci in un istante di fatale rivelazione.
Fra i racconti che segnano il passaggio tra uno stile e l’altro, il più rappresentativo è senza dubbio “The Insanity of Jones”. La parafernalia del gotico vi si trova tutta, compresa la scena finale di vendetta con i suoi particolari efferati, violenza rappresentata con tratti di un’alienità tanto più ostica e straniante in quanto avallata da una Giustizia soprannaturale implacabile e imparziale. In questo racconto, il lettore benpensante non vede nient’altro se non lo sfogo di una persona isolata e mentalmente disturbata, il lettore “iniziato” vede invece solo il naturale compiersi di un atto di giustizia troppo a lungo posticipato. Blackwood gioca ancora qui con l’ambiguità della nostra percezione riguardo alla follia e alla sanità mentale, non parla a una categoria o a una classe sociale “statica” (l’aristocrazia decaduta o decadente del gotico classico o della ghost story vittoriana) ma alla middle-up class londinese post-imperiale, ovvero a quel coacervo metropolitano di inquietudini, frustrazioni e straniamento che è la cifra della nostra cosiddetta modernità.
Contrariamente a quanto accade all’ultimo rampollo di una qualsiasi condannata famiglia di nobili scozzesi o inglesi, con il loro carico represso di presagi familiari, in “The Insanity of Jones” gli “omina” di una vendetta soprannaturale non attendono nel quadro di un antenato ritratto con uno stile particolarmente vivido, né nella stanza chiusa di una magione avita né in una dimenticata camera di tortura, ma fra i tavoli di una mensa per impiegati, alla periferia di un quartiere proletario oppure nello stesso ufficio dove Jones trascorre la maggior parte della sua vita monotona e confusa. Non per questo dobbiamo pensare che gli elementi soprannaturali perdano qualcosa della loro magniloquenza tragica, anzi, questi non si risparmiano neppure un trucco fra quelli tipici del genere; si permettono addirittura di giustificare e assolvere il protagonista, inviando per lui una guardia soprannaturale che lo scorta alla punizione con una spada fiammeggiante, forse consapevoli del fatto che fra “quelle facce soprannaturali che si affollano intorno a Jones” si trovino anche quelle persone “normali” che non assolvono e non perdonano secondo le leggi di questo mondo.
Come vediamo, l’unico accenno al conservatorismo “classico” del gotico o della ghost story rimane solamente in una certa qual alzata d’orgoglio tipicamente cockney, che consiste nel criticare la modernità in quanto arida e imbarbarita al momento di condannare senza appello un valore sacro e dignitoso quale il vecchio concetto aristocratico di “vendetta”.
Ma a pensarci bene, ciò serve magnificamente a Blackwood per alzare ancora di più il livello di ambiguità del racconto. Viene da pensare all’altrettanto ambiguo “tema del traditore e dell’eroe” di J.L. Borges, con il suo carattere di ripetitività ossessiva (il concetto di “destino” che in Borges è quasi più da intendersi come simbolo dell’arethè gauchesca argentina, più che ragionata riflessione sul concetto orientale di reincarnazione) e con la sua accumulazione di presagi nonchè strizzata d’occhio all’epica classica.
Se quello che scrive David Punter è esatto, ovvero che: “In Blackwood il regno del Soprannaturale è accettato come esistente, le sue storie sono piene di «spiegazioni»... ma sono spiegazioni che presuppongono una credenza,” quanto da lui sottolineato è tanto più vero sia per i casi di John Silence che per i suoi magnifici “Camp Tales”. È in questi che si rende Palese l’interesse “scientifico” che Blackwood nutre nei confronti dell’occulto, e precisamente è qui che egli si libera della sua doppia oppressione di tipo psicologico costituita in parte dal filisteismo ipocrita e bigotto della borghesia mercantile emergente, in parte dalla statica immobilità dell’aristocrazia decadente. Blackwood conosce la seconda attraverso la madre e la prima per averla vissuta sualla pelle attraverso i suoi viaggi in giro per il mondo, oltre che attraverso la pletora di occupazioni “moderne” alle quali si era dedicato.
Il Blackwood più maturo e più abile è per l’appunto il Blackwood che rispolvera la sua passione giovanile per l’occulto, l’ipnosi, la natura dei demoni e delle entità “elementali”, la magia; ma stavolta con occhi nuovi e con un bagaglio di esperienze molto più vasto e profondo. Potremmo anche dire, attraverso un percorso “gnostico” che assomiglia molto a quello mistico-alchemico di Arthur Machen. Nei suoi racconti ad ambiente naturale, troviamo quella componente del gotico che alcuni critici hanno denominato attenzione verso “Il barbarico”. Fanno bella scena di sé ambienti selvaggi, personaggi non-civilizzati o semi-civilizzati come il Défago di “The Wendigo”. Ma ancora una volta Blackwood inverte la cifra e il segno della narrazione per aumentare la nostra completa confusione, in quanto non sono realmente Entità appartenenti a un’altra dimensione a invadere il nostro Mondo, anche se ancora in buona parte inesplorato e ostile: siamo noi a invadere i loro rifugi, pagandone le tragiche conseguenze.
I personaggi di Blackwood, nota sempre giustamente David Punter, non fanno in realtà nulla per meritare tale funesto destino: vi incappano quasi sempre per casualità. A volte, ma solo in casi rari, tale casualità non è affatto tale (come in “May Day Eve”); più spesso invece vale il detto “l’ignoranza non è una scusante”.
Il racconto lungo, o romanzo breve “The Man Whom the Trees Loved” costituisce un esempio magistrale in questo senso. Un uomo mite e riflessivo si ritira a vivere con la moglie in una augusta magione posta sul limitare di un bosco immenso. L’uomo ama gli alberi, per i quali ha sempre nutrito una speciale passione, ciò che ancora ignora è quanto dagli alberi egli sia riamato...
Fin dal principio del racconto, caratterizzato da quel tipo di preparazione lunga e dettagliata che costituisce il “marchio di fabbrica” di Blackwood, assistiamo a uno scontro di volontà impari e disperato fra la moglie del protagonista, tesa a difendere il marito da una minaccia esterna da lei avvertita e presagita, e quella delle “Entità” del bosco, che la parola “Alberi” definisce solo parzialmente. Gli Alberi attirano l’uomo sempre più verso di loro, si avvicinano alla casa di notte per riallontanarsi a giorno fatto, tendono i loro rami sul capo del dormiente per frusciare nelle sue orecchie un richiamo che è sempre lo stesso: “unisciti a noi”. I tentativi di salvataggio e opposizione della moglie sono tanto disperati quanto commoventi, è l’ultimo baluardo della “Ragione comune” contro “L’Altro Mondo”, le cui dinamiche Blackwood ricostruisce con accenni e con una concezione di fondo che ha origini antiche e poco esplorate.
La selva dell’uomo amato dagli alberi, così come quella canadese in “The Wendigo” o quella galleggiante in “The Willows”, è sempre la stessa; è la “Hyle” dei teologi gnostici della scuola di Chartres, la materia indifferenziata, il caos agli inizi della Creazione o, meglio detto, ai suoi margini, e contrariamente a quanto credevano gli aristotelici è una “Entità senziente” e dotata di volontà propria. Così come un gruppo di spiritisti si riunisce in circolo allo scopo di incarnare nel nostro mondo una Entità “umbratile”, allo stesso modo le Entità che vivono ai confini fra il nostro mondo e l’altro congiurano per “spiritualizzare” alcuni soggetti peculiarmente sensibili nel “Loro” mondo. A volte, questo processo di trasmutazione alchemica avviene in maniera quasi naturale e il risultato si concretizza in quella “Santa fuga del prigioniero” nel mondo delle fate di cui parlava Tolkien e che ha sapore gnostico e iniziatico, come nel caso di “May day Eve”. Più spesso, la trasformazione è tragica e dolorosa.
Blackwood condivide con Machen la stessa concezione delle forze naturali, ma mentre Machen rimane sempre all’interno di una normativa plotiniana che ammonisce a non superare mai quel limite imposto dalla legge fra il Caos e l’Ordine, Blackwood ammette candidamente che il nostro Universo è per metà coperto da un velo di ignoranza e che oltre quel velo si cela “L’altro Mondo”, con le sue Entità spesso ostili. Alcune vivono in “riserve”, come i Salici del racconto omonimo o gli Alberi del signor Bittacy, ma solo gli iniziati come il dottor Silence sono in grado di rendersi conto di quando un universo collima con l’altro (come in “The Camp of the Dog”), per gli altri ignari visitatori c’è una rivelazione ominosa seguita da una dolorosa metamorfosi.
I Salici del racconto omonimo così come gli Alberi di Bittacy e Sanderson, oppure la solitaria e maestosa entità conosciuta come il Wendigo, fanno presa sull’immaginazione e l’intuizione dei soggetti che scelgono di catturare, oltre che sulla loro ignoranza e resistenza alla “loro” realtà, e sono precisamente queste prime due caratteristiche che Blackwood vuole esplorare “scientificamente” nei suoi racconti.
Le concezioni antiche volevano l’anima umana divisa in tre parti separate e connesse. Gli umanisti rinascimentali ripresero questa idea dalle concezioni egizie, ritornate in voga grazie alle innumerevoli copie manoscritte dei Geroglifica di Orapollo. Le sette massoniche del secolo ventesimo fecero incetta sia delle traduzioni rinascimentali, sia delle scoperte archeologiche effettuate al Cairo e a Saqqara, e la Golden Dawn, alla quale sia Blackwood sia Machen furono affiliati, non fu da meno. Gli egizi dividevano l’uomo in Ka (anima immortale), Ba (anima spirituale) e Aj (letteralmente “fantasma”). L’Aj è una entità che permane nel mondo materiale richiamata da qualche passione vissuta in vita (il classico ghost), il Ka, secondo gli gnostici valentiniani, ritorna direttamente al “Pleroma” di intelligenze che costituisce il “vero Dio” Increato e svincolato dalla sua creazione, ma il Ba non è né completamente spirito né completamente corpo; è una “mummia”, un morto-in-vita o vivo-nella-morte, ecco perchè gli egizi solevano lasciare offerte di cibo accanto alle mummie.
Allo stesso modo, i Salici del racconto si “nutrono” di qualcosa che non è mai specificato nella narrazione, ma che possiamo ricostruire tramite quanto sinora esposto. Essi privano gli uomini del loro “agente di trasformazione” lasciandoli vuoti e secchi come mummie, come involucri. Il Ba inoltre corrisponde, per gli gnostici alessandrini, alla “Imaginatio vera”, la facoltà che l’uomo possiede di comunicare con il mondo degli archetipi e degli Angeli. Gli Ishraquiyun (gnostici) persiani, di cui parla Henry Corbin, fanno inoltre menzione di una “Terra di Hurqalaya”, un mondo “sottile” che vive a stretto contatto col nostro, dove “gli spiriti si fanno carne e la carne si fa spirito”, proprio come accade nelle “Riserve” di Blackwood o sulle colline di “May Day Eve”.
Sarebbe affascinante pensare che George Gordon abbia messo le mani su qualche manoscritto “Ishraqui” mentre era di stanza nel Sudan per poi passarlo a qualche conventicola massonica alla quale sarà stato sicuramente affiliato, ho scritto di lui per non scrivere di qualche altro generale o archeologo britannico di stanza nel nord dell’Iraq o in missione diplomatica sulla catena dell’Elborz, ma è poco importante sapere se le conventicole esoteriche inglesi conoscessero o no della “Terra di Hurqalaya”. La stessa concezione, anche se con nomi diversi, si ritrova anche negli scritti di Jacob Boheme e, a voler guardare nel dettaglio, persino nelle visioni di William Blake.
Lasciando da parte le speculazioni fenomenologiche, è un fatto che la narrativa di Blackwood abbia profondamente influenzato la concezione dell’Orrore del buon H.P. Lovecraft e abbia anche creato una serie di scelti e ricettivi “continuatori” del suo stile e delle sue tematiche. Fra questi (che in tutto si contano sulle dita di una mano) cito Ramsey Campbell, che con il suo The Midnight Sun riprende il tema di “The Man Whom the Trees Loved”, forse in maniera più prolissa (si tratta di un romanzo di quasi 500 pagine) ma di sicuro effetto e potente atmosfera. Blackwood inseguì le sue teorie occulte su “L’espansione delle facoltà umane” fino alla fine, difendendole e diffondendole in quel mondo arido e opportunista che conobbe durante la sua maturità.
Bibligrafia parziale:
Algernon Blackwood, Colui che ascoltava nel buio e altre storie, Fanucci, 1978
Algernon Blackwood, John Silence, investigatore dell’Occulto, Fanucci, 1977
David Punter, Storia della Letteratura del Terrore, Editori Riuniti, 2000
Henri Corbin, Corpo spirituale e Terra Celeste, Adelphi, 1986
Mariano D’Anza
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