Capita talora di scoprire quasi per caso opere delle quali non si conosceva (più o meno colpevolmente) nemmeno l’esistenza. Possono essere libri totalmente ignoti o, come nel presente caso, altri che in libreria sono caduti sotto lo sguardo anche diverse volte senza mai – chissà perché? – attirare troppo l’attenzione. L’ignoranza spesso ha conseguenze imbarazzanti, ma l’importante è cercare di porvi rimedio. Proprio per questo ho deciso di porre al mio intervento il titolo che avete sotto gli occhi, appunto affinché per qualcuno questo scritto possa essere la via per la scoperta di un libro che ho trovato davvero notevolissimo, come magari per qualcun altro possa essere quella per una riscoperta.
Il testo al quale mi riferisco è Titus Groan di Mervyn Peake (in Italia Tito di Gormenghast, edito da Adelphi): complice un’altra lettura che ne faceva menzione, mi ha subito incuriosito e ho concepito il desiderio ardente di leggerlo.
È uno stranissimo libro, Titus Groan: definito di volta in volta come appartenente a diverse tipologie – la fantasy come il romanzo gotico, l’allegoria come una sorta di neo-epica inglese, il romanzo per ragazzi (con il quale condivide almeno qualche piccola apparenza) e il romanzo in qualche modo sociale – a ben vedere esso non rientra in nessuna di esse e da tutte è per certi versi tuttavia racchiuso e circoscritto. Dal contenuto certamente fantastico si potrebbe ipotizzare che sia fantasy, ma poiché non condivide il concetto di “creazione secondaria” di J.R.R. Tolkien, o comunque una qualunque architettura costitutiva tipica di tale sottogenere, si tratta di una classificazione a dir poco faticosa; allo stesso modo il testo presenta sicuri elementi gotici, pur non avendo come scopo ultimo quello di provocare terrore e di destabilizzare la nostra tranquillizzante visione dell’esistente tramite il manifestarsi dell’irrazionale e del soprannaturale; in modo analogo esso mostra fattori allegorici e di critica sociale, pur non essendo sicuramente un romanzo “a chiave”, costruito per interpretare e valutare la nostra realtà contemporanea; così pure Peake mette in scena personaggi dai nomi parlanti, buffi, quasi archetipici di una certa letteratura per ragazzi, pur essendo il suo lavoro estremamente più complesso e stratificato della maggior parte della narrativa di tal fatta.
Un romanzo molto strano, quindi, forse nemmeno un romanzo vero e proprio, parlando stricto sensu. Titus Groan, infatti, è caratterizzato in primissimo luogo dall’estrema limitatezza della trama. Essa potrebbe essere riassumibile all’incirca in questo modo: nel cupo, vastissimo, indecifrabile castello di Gormenghast nasce finalmente il tanto atteso erede al trono del Conte, Tito de’ Lamenti (Titus Groan, appunto). Assistiamo alle reazioni dei principali abitanti del castello nel suo primo anno di vita fino alle circostanze che porteranno alla sua investitura. Parallelamente assistiamo alla parabola ascendente, in società, del giovane, astuto e ambizioso Ferraguzzo (Steerpike).
Pare abbastanza evidente come una trama di questo genere sia abbastanza stringata per un’opera di oltre 500 pagine, sia pure aggiungendovi gli episodi che in qualche modo ne costellano e integrano lo sviluppo.
In ogni caso, si può affermare almeno una cosa, e cioè come la cifra essenziale e prevalente del libro non sia senz’altro la narratività. Chiunque è in grado di capirlo anche solo a una prima lettura, quando dense e ripetute volute descrittive si inerpicano sul tessuto della trama principale, prendendone totale possesso e prevaricando sullo svolgimento degli eventi che la compongono. In altre parole, fatti che molto spesso potrebbero essere narrati rapidamente occupano pagine e pagine di spazio testuale, nelle quali descrizioni barocche e dettagliatissime si innervano su altrettanto estese considerazioni riflessive e sociali stabilendo, di fatto, strettissime connessioni fra i primi e le seconde. Proprio dalle seconde i primi diventano così inevitabilmente dipendenti. È chiaro allora – ed è stato notato da molti – come appunto il castello di Gormenghast sia lo stesso protagonista degli eventi, e lo dimostra proprio la sua natura mutevole e in qualche modo fluida, cangiante in base alle persone, alle inquadrature e alle circostanze, nonché agli stessi momenti narrativi .
L’esilità della trama si accompagna dunque, paradossalmente a una sua sostanziale funzionalità, ad altri elementi della narrazione, poiché essa serve, appunto, a sviluppare tutto il castello di significati che – mi si perdoni il gioco di parole – proprio nel castello hanno motivo di origine.
In primo luogo, perciò, Gormenghast è il luogo di una vastità ineffabile: non è lecito – afferma Anthony Burgess nell’introduzione – tracciare una mappa del castello alla fine del racconto, poiché esso risulta in conclusione inconoscibile e indefinibile. Le sue stanze sono in modo curioso perennemente uguali e perennemente diverse, invase dalla polvere e dai sintomi della decadenza, e allo stesso tempo immemore vestigio dei dettami incomprensibili di una Tradizione della quale si è smarrito financo il minimo senso. Il paragone corre subito inevitabile con “La Biblioteca di Babele” di J.L. Borges: se l’Universo nel racconto borgesiano è la Biblioteca, allora altrettanto Gormenghast è senza dubbio l’Universo nel romanzo di Peake, e anche gli spazi esterni a esso non esistono in altro modo che come sua dipendente e contrapposizione, poiché in ogni caso qualsivoglia tipo di movimento risulta alla fine centripeto. Tutto ritorna sempre alla fortezza.
In questo mondo Tito infante (come pure i suoi familiari, del resto) pur non facendo nulla è il protagonista onnipresente della storia, in quanto la sua stessa persona coincide costitutivamente con il castello (lo si dice esplicitamente). Analogamente, fra tante roccaforti della letteratura Gormenghast spicca in quanto prende possesso della vicenda e ogni suo contrafforte, pinnacolo, stanza e ricettacolo diviene in qualche modo elemento prevalente nell’attenzione dei lettori, simbolo non solo del mondo fossilizzato della società descritta, ma anche della psiche contorta e delirante dei numerosi personaggi che la popolano. Giustamente (ma solo fino a un certo punto) si è parlato di romanzo gotico: il castello è un mondo lugubre, fatiscente e in rovina, pervaso dall’immobilismo e a tratti dalla demenza, luogo di momenti di orrore e delirio, di caos e di disordine ontologico. Allo stesso modo gli abitanti di questo mondo cimiteriale sono gli spettri che lo abitano, biologicamente ancora in vita ma ciascuno pervaso da tratti di “sepolcralità” e follia, a partire dal conte Sepulcrio (Sepulchrave) per proseguire con le zie gemelle, caratterizzate da tronfia alterigia e passiva idiozia nonché da una paralisi che non è solo fattore clinico ma esistenziale, per proseguire ancora con lo scheletrico Lisca (Flay), il ripugnante – e a tratti mostruoso fino ai limiti dell’inumano – cuoco Sugna (Swelter) e tanti altri.
Gli unici motori del cambiamento, un cambiamento tanto temuto quanto indefinibilmente minaccioso, sono proprio Tito, la cui nascita e crescita sono accompagnate da sentori e presagi che promettono di mettere in crisi il mondo immutabile della Tradizione (le cui conseguenze si vedranno nei successivi libri della serie) e soprattutto Ferraguzzo. Portatore di irrefrenabile ambizione, di spiriti libertari e sottilmente anarchici, incarnazione di sfrenato egoismo e arrivismo, nonché di un’ambizione senza limiti, Ferraguzzo è con la sua iconoclasta e incendiaria (letteralmente) malvagità una delle figure più potenti del romanzo nel quale esprime l’antagonista ideale e assoluto. Un antagonista, però, che anch’esso non riesce a sfuggire ai limiti geografici e alle leggi sottese al castello, rimanendo perciò pur sempre inglobato in questo mondo.
Tornando dunque a un punto nodale che mi interessava sviscerare e sottoporre all’attenzione dei lettori, come definire dunque il romanzo?
Se ha un senso cercare una forma specifica nella quale inquadrare l’opera, e assodato che i nuclei tematici di riflessione sul mondo (sia il nostro che quello di Gormenghast) sono quelli suddetti, tale forma specifica non può che trovarsi, secondo me, per mezzo dell’ottica che più ne spiega le qualità complessive. Potremmo parlare, cioè, di romanzo “metaforico”, ove i vari livelli di lettura e le varie caratteristiche interpretative che ho finora cercato brevemente di mettere in luce possono essere interpretati come immagine dalle valenze molteplici. Metafora della società inglese postbellica? Sicuramente, ma sarebbe forse ancora riduttivo e semplicistico spiegare l’oppressiva stasi di Gormenghast come un tentativo di dipingere un mondo devastato dal secondo conflitto mondiale, e tuttora in disfacimento, in preda ai vani furori di rinnovamento da parte di una gioventù amorale e sfrenatamente capitalistica (Ferraguzzo).
La metafora va oltre, a livello esistenziale e – oserei dire – raggiunge anche profondità metafisiche. È l’intera esistenza umana che si aggira nel nulla e sprofonda nelle nebbie catacombali e distorte di un aldilà fin troppo terreno. La fortezza – con le sue esplosioni di violenza sottesa, con le sue finte apparizioni soprannaturali (come non pensare ad Ann Radcliffe e ai suoi successori?), con i suoi presagi, le sue figure mostruose, le sue luciferine cucine trasudanti calore, le inestricabili gallerie di pietra – è un espressionistico specchio di anime umane in preda al tormento, alla cieca angoscia del vivere, all’inane tentativo del cercare di fuggire in qualche modo (a volte anche inconsapevolmente) verso un altro-da-qui che ha la tragicissima caratteristica del non poter esistere. Se il carcere è infinito, dal carcere non c’è ovviamente via di fuga, se non tramite l’annullamento in riti inconcludenti che impediscano di pensare oppure, se non ancora una volta, per mezzo dell’extrema ratio di una follia salvifica.
Metafora e metafisica, sono forse le uniche chiavi di lettura che in molteplici modi e a molti livelli possono schiuderci in modo ottimale le labirintiche porte del testo (e del castello stesso): una Legge vuota e inconsistente regola le sorti degli uomini e li conduce ad atti privi del benché minimo valore, costantemente ripetuti in una sorta di istituzionalizzazione del non-senso alla quale tutti sono vincolati. I rapporti umani si isteriliscono perciò fatalmente nello stesso identico modo in cui isterilisce qualsiasi elemento naturale all’interno delle mura (si veda l’albero morto delle gemelle). Le figure istituzionali crollano anch’esse nel ridicolo. Gli unici momenti di tenerezza, di passione e di vitalità sfumano nell’inconcludenza o nel patetico. Molto spesso si conducono all’esterno della fortezza (si veda il personaggio di Keda), ma hanno sorte che non si intende anticipare e che il lettore scoprirà. Si può ben intuire, però, che non sarà eccessivamente gratificante.
La fine del romanzo mantiene un’aura di sospensione, poiché ovviamente si tratta solo della prima parte di una trilogia che vede lo svilupparsi delle avventure di Tito, ma tematicamente esso potrebbe dirsi già pienamente conchiuso. Già così l’opera riesce a comunicare il sentimento e le riflessioni che tramite un quadro essenzialmente descrittivo aveva intenzione di passare fin dalla prima pagina.
Spenderò solo due ultime parole per concludere sullo stile di Peake: vigoroso, sottile, ironico, insinuante, di volta in volta acceso e intimista, cupo ed eccessivo. L’autore se ne serve come di uno strumento versatilissimo, capace agli estremi di applicarsi a un tempo del racconto estremamente dilatato per pagine e pagine sulla stessa rapida scena, come di affidarsi a uno stream of consciuousness che, attraverso un gioco di specchi prospettico, descrive l’episodio da più punti di vista (e questo avviene almeno in un capitolo). Egli sceglie, in definitiva, di adottare il mezzo stilistico più adeguato e affine a veicolare appunto i messaggi dei quali si è parlato poc’anzi.
Uno stile, per così dire, anch’esso metafisico per un romanzo che ho voluto definire tale e che trova uno dei tanti esempi straordinari di sé nella conclusione. E per una volta si potrà citare evidentemente la fine del testo senza per questo incorrere nelle giuste ire dei lettori poiché, come si è già detto più volte, alla fine dei giochi nella trama non avviene poi tantissimo e ciò che è maggiormente imprevedibile si trova negli episodi aggiuntivi piuttosto che nella linea principale degli eventi. Tutto sommato in Gormenghast non esiste una fine, non un inizio, né effettivamente un passato del tutto trascorso (poiché esso ricorre costantemente), né un futuro incognito a venire. Esistono solo un quando (ora) e un dove (Gormenghast stesso). O così accade almeno per adesso, in questo primo romanzo... Ma, senza anticipare oltre e tornando allo stile, terminerò appunto con la conclusione del romanzo – quasi una sorta di sipario che cala sul primo atto, in attesa che in un prossimo futuro vi possa parlare del libro secondo: Gormenghast.
“Il castello respirava e laggiù, sotto la Sala delle Sculture Radiose, la ruota di Gormenghast si era rimessa in moto. Dopo quel vuoto di silenzio, pur non avendo udito alcun suono, egli [il custode delle sculture, N.d.r.] si sentiva ora crescere dentro una specie di tumulto. Nessun suono, ma ormai dovevano essere ripresi gli schianti delle porte sbattute, gli echi nei corridoi, le luci vacillanti lungo i muri. Nell’alveare di pietra, le passioni ormai vagavano libere, nella loro creta mortale, di cella in cella, e il futuro racchiudeva lacrime e risa strane, nascite e morti feroci sotto umbratili volte. E sogni e violenze e delusioni. Ecco, ancora un poco e sarà l’alba, in un incendio verde, e l’amore stesso si ergerà a lanciare il grido dell’insurrezione! Perché domani è un giorno nuovo – e Tito è entrato nella sua fortezza”.
Il testo al quale mi riferisco è Titus Groan di Mervyn Peake (in Italia Tito di Gormenghast, edito da Adelphi): complice un’altra lettura che ne faceva menzione, mi ha subito incuriosito e ho concepito il desiderio ardente di leggerlo.
È uno stranissimo libro, Titus Groan: definito di volta in volta come appartenente a diverse tipologie – la fantasy come il romanzo gotico, l’allegoria come una sorta di neo-epica inglese, il romanzo per ragazzi (con il quale condivide almeno qualche piccola apparenza) e il romanzo in qualche modo sociale – a ben vedere esso non rientra in nessuna di esse e da tutte è per certi versi tuttavia racchiuso e circoscritto. Dal contenuto certamente fantastico si potrebbe ipotizzare che sia fantasy, ma poiché non condivide il concetto di “creazione secondaria” di J.R.R. Tolkien, o comunque una qualunque architettura costitutiva tipica di tale sottogenere, si tratta di una classificazione a dir poco faticosa; allo stesso modo il testo presenta sicuri elementi gotici, pur non avendo come scopo ultimo quello di provocare terrore e di destabilizzare la nostra tranquillizzante visione dell’esistente tramite il manifestarsi dell’irrazionale e del soprannaturale; in modo analogo esso mostra fattori allegorici e di critica sociale, pur non essendo sicuramente un romanzo “a chiave”, costruito per interpretare e valutare la nostra realtà contemporanea; così pure Peake mette in scena personaggi dai nomi parlanti, buffi, quasi archetipici di una certa letteratura per ragazzi, pur essendo il suo lavoro estremamente più complesso e stratificato della maggior parte della narrativa di tal fatta.
Un romanzo molto strano, quindi, forse nemmeno un romanzo vero e proprio, parlando stricto sensu. Titus Groan, infatti, è caratterizzato in primissimo luogo dall’estrema limitatezza della trama. Essa potrebbe essere riassumibile all’incirca in questo modo: nel cupo, vastissimo, indecifrabile castello di Gormenghast nasce finalmente il tanto atteso erede al trono del Conte, Tito de’ Lamenti (Titus Groan, appunto). Assistiamo alle reazioni dei principali abitanti del castello nel suo primo anno di vita fino alle circostanze che porteranno alla sua investitura. Parallelamente assistiamo alla parabola ascendente, in società, del giovane, astuto e ambizioso Ferraguzzo (Steerpike).
Pare abbastanza evidente come una trama di questo genere sia abbastanza stringata per un’opera di oltre 500 pagine, sia pure aggiungendovi gli episodi che in qualche modo ne costellano e integrano lo sviluppo.
In ogni caso, si può affermare almeno una cosa, e cioè come la cifra essenziale e prevalente del libro non sia senz’altro la narratività. Chiunque è in grado di capirlo anche solo a una prima lettura, quando dense e ripetute volute descrittive si inerpicano sul tessuto della trama principale, prendendone totale possesso e prevaricando sullo svolgimento degli eventi che la compongono. In altre parole, fatti che molto spesso potrebbero essere narrati rapidamente occupano pagine e pagine di spazio testuale, nelle quali descrizioni barocche e dettagliatissime si innervano su altrettanto estese considerazioni riflessive e sociali stabilendo, di fatto, strettissime connessioni fra i primi e le seconde. Proprio dalle seconde i primi diventano così inevitabilmente dipendenti. È chiaro allora – ed è stato notato da molti – come appunto il castello di Gormenghast sia lo stesso protagonista degli eventi, e lo dimostra proprio la sua natura mutevole e in qualche modo fluida, cangiante in base alle persone, alle inquadrature e alle circostanze, nonché agli stessi momenti narrativi .
L’esilità della trama si accompagna dunque, paradossalmente a una sua sostanziale funzionalità, ad altri elementi della narrazione, poiché essa serve, appunto, a sviluppare tutto il castello di significati che – mi si perdoni il gioco di parole – proprio nel castello hanno motivo di origine.
In primo luogo, perciò, Gormenghast è il luogo di una vastità ineffabile: non è lecito – afferma Anthony Burgess nell’introduzione – tracciare una mappa del castello alla fine del racconto, poiché esso risulta in conclusione inconoscibile e indefinibile. Le sue stanze sono in modo curioso perennemente uguali e perennemente diverse, invase dalla polvere e dai sintomi della decadenza, e allo stesso tempo immemore vestigio dei dettami incomprensibili di una Tradizione della quale si è smarrito financo il minimo senso. Il paragone corre subito inevitabile con “La Biblioteca di Babele” di J.L. Borges: se l’Universo nel racconto borgesiano è la Biblioteca, allora altrettanto Gormenghast è senza dubbio l’Universo nel romanzo di Peake, e anche gli spazi esterni a esso non esistono in altro modo che come sua dipendente e contrapposizione, poiché in ogni caso qualsivoglia tipo di movimento risulta alla fine centripeto. Tutto ritorna sempre alla fortezza.
In questo mondo Tito infante (come pure i suoi familiari, del resto) pur non facendo nulla è il protagonista onnipresente della storia, in quanto la sua stessa persona coincide costitutivamente con il castello (lo si dice esplicitamente). Analogamente, fra tante roccaforti della letteratura Gormenghast spicca in quanto prende possesso della vicenda e ogni suo contrafforte, pinnacolo, stanza e ricettacolo diviene in qualche modo elemento prevalente nell’attenzione dei lettori, simbolo non solo del mondo fossilizzato della società descritta, ma anche della psiche contorta e delirante dei numerosi personaggi che la popolano. Giustamente (ma solo fino a un certo punto) si è parlato di romanzo gotico: il castello è un mondo lugubre, fatiscente e in rovina, pervaso dall’immobilismo e a tratti dalla demenza, luogo di momenti di orrore e delirio, di caos e di disordine ontologico. Allo stesso modo gli abitanti di questo mondo cimiteriale sono gli spettri che lo abitano, biologicamente ancora in vita ma ciascuno pervaso da tratti di “sepolcralità” e follia, a partire dal conte Sepulcrio (Sepulchrave) per proseguire con le zie gemelle, caratterizzate da tronfia alterigia e passiva idiozia nonché da una paralisi che non è solo fattore clinico ma esistenziale, per proseguire ancora con lo scheletrico Lisca (Flay), il ripugnante – e a tratti mostruoso fino ai limiti dell’inumano – cuoco Sugna (Swelter) e tanti altri.
Gli unici motori del cambiamento, un cambiamento tanto temuto quanto indefinibilmente minaccioso, sono proprio Tito, la cui nascita e crescita sono accompagnate da sentori e presagi che promettono di mettere in crisi il mondo immutabile della Tradizione (le cui conseguenze si vedranno nei successivi libri della serie) e soprattutto Ferraguzzo. Portatore di irrefrenabile ambizione, di spiriti libertari e sottilmente anarchici, incarnazione di sfrenato egoismo e arrivismo, nonché di un’ambizione senza limiti, Ferraguzzo è con la sua iconoclasta e incendiaria (letteralmente) malvagità una delle figure più potenti del romanzo nel quale esprime l’antagonista ideale e assoluto. Un antagonista, però, che anch’esso non riesce a sfuggire ai limiti geografici e alle leggi sottese al castello, rimanendo perciò pur sempre inglobato in questo mondo.
Tornando dunque a un punto nodale che mi interessava sviscerare e sottoporre all’attenzione dei lettori, come definire dunque il romanzo?
Se ha un senso cercare una forma specifica nella quale inquadrare l’opera, e assodato che i nuclei tematici di riflessione sul mondo (sia il nostro che quello di Gormenghast) sono quelli suddetti, tale forma specifica non può che trovarsi, secondo me, per mezzo dell’ottica che più ne spiega le qualità complessive. Potremmo parlare, cioè, di romanzo “metaforico”, ove i vari livelli di lettura e le varie caratteristiche interpretative che ho finora cercato brevemente di mettere in luce possono essere interpretati come immagine dalle valenze molteplici. Metafora della società inglese postbellica? Sicuramente, ma sarebbe forse ancora riduttivo e semplicistico spiegare l’oppressiva stasi di Gormenghast come un tentativo di dipingere un mondo devastato dal secondo conflitto mondiale, e tuttora in disfacimento, in preda ai vani furori di rinnovamento da parte di una gioventù amorale e sfrenatamente capitalistica (Ferraguzzo).
La metafora va oltre, a livello esistenziale e – oserei dire – raggiunge anche profondità metafisiche. È l’intera esistenza umana che si aggira nel nulla e sprofonda nelle nebbie catacombali e distorte di un aldilà fin troppo terreno. La fortezza – con le sue esplosioni di violenza sottesa, con le sue finte apparizioni soprannaturali (come non pensare ad Ann Radcliffe e ai suoi successori?), con i suoi presagi, le sue figure mostruose, le sue luciferine cucine trasudanti calore, le inestricabili gallerie di pietra – è un espressionistico specchio di anime umane in preda al tormento, alla cieca angoscia del vivere, all’inane tentativo del cercare di fuggire in qualche modo (a volte anche inconsapevolmente) verso un altro-da-qui che ha la tragicissima caratteristica del non poter esistere. Se il carcere è infinito, dal carcere non c’è ovviamente via di fuga, se non tramite l’annullamento in riti inconcludenti che impediscano di pensare oppure, se non ancora una volta, per mezzo dell’extrema ratio di una follia salvifica.
Metafora e metafisica, sono forse le uniche chiavi di lettura che in molteplici modi e a molti livelli possono schiuderci in modo ottimale le labirintiche porte del testo (e del castello stesso): una Legge vuota e inconsistente regola le sorti degli uomini e li conduce ad atti privi del benché minimo valore, costantemente ripetuti in una sorta di istituzionalizzazione del non-senso alla quale tutti sono vincolati. I rapporti umani si isteriliscono perciò fatalmente nello stesso identico modo in cui isterilisce qualsiasi elemento naturale all’interno delle mura (si veda l’albero morto delle gemelle). Le figure istituzionali crollano anch’esse nel ridicolo. Gli unici momenti di tenerezza, di passione e di vitalità sfumano nell’inconcludenza o nel patetico. Molto spesso si conducono all’esterno della fortezza (si veda il personaggio di Keda), ma hanno sorte che non si intende anticipare e che il lettore scoprirà. Si può ben intuire, però, che non sarà eccessivamente gratificante.
La fine del romanzo mantiene un’aura di sospensione, poiché ovviamente si tratta solo della prima parte di una trilogia che vede lo svilupparsi delle avventure di Tito, ma tematicamente esso potrebbe dirsi già pienamente conchiuso. Già così l’opera riesce a comunicare il sentimento e le riflessioni che tramite un quadro essenzialmente descrittivo aveva intenzione di passare fin dalla prima pagina.
Spenderò solo due ultime parole per concludere sullo stile di Peake: vigoroso, sottile, ironico, insinuante, di volta in volta acceso e intimista, cupo ed eccessivo. L’autore se ne serve come di uno strumento versatilissimo, capace agli estremi di applicarsi a un tempo del racconto estremamente dilatato per pagine e pagine sulla stessa rapida scena, come di affidarsi a uno stream of consciuousness che, attraverso un gioco di specchi prospettico, descrive l’episodio da più punti di vista (e questo avviene almeno in un capitolo). Egli sceglie, in definitiva, di adottare il mezzo stilistico più adeguato e affine a veicolare appunto i messaggi dei quali si è parlato poc’anzi.
Uno stile, per così dire, anch’esso metafisico per un romanzo che ho voluto definire tale e che trova uno dei tanti esempi straordinari di sé nella conclusione. E per una volta si potrà citare evidentemente la fine del testo senza per questo incorrere nelle giuste ire dei lettori poiché, come si è già detto più volte, alla fine dei giochi nella trama non avviene poi tantissimo e ciò che è maggiormente imprevedibile si trova negli episodi aggiuntivi piuttosto che nella linea principale degli eventi. Tutto sommato in Gormenghast non esiste una fine, non un inizio, né effettivamente un passato del tutto trascorso (poiché esso ricorre costantemente), né un futuro incognito a venire. Esistono solo un quando (ora) e un dove (Gormenghast stesso). O così accade almeno per adesso, in questo primo romanzo... Ma, senza anticipare oltre e tornando allo stile, terminerò appunto con la conclusione del romanzo – quasi una sorta di sipario che cala sul primo atto, in attesa che in un prossimo futuro vi possa parlare del libro secondo: Gormenghast.
“Il castello respirava e laggiù, sotto la Sala delle Sculture Radiose, la ruota di Gormenghast si era rimessa in moto. Dopo quel vuoto di silenzio, pur non avendo udito alcun suono, egli [il custode delle sculture, N.d.r.] si sentiva ora crescere dentro una specie di tumulto. Nessun suono, ma ormai dovevano essere ripresi gli schianti delle porte sbattute, gli echi nei corridoi, le luci vacillanti lungo i muri. Nell’alveare di pietra, le passioni ormai vagavano libere, nella loro creta mortale, di cella in cella, e il futuro racchiudeva lacrime e risa strane, nascite e morti feroci sotto umbratili volte. E sogni e violenze e delusioni. Ecco, ancora un poco e sarà l’alba, in un incendio verde, e l’amore stesso si ergerà a lanciare il grido dell’insurrezione! Perché domani è un giorno nuovo – e Tito è entrato nella sua fortezza”.
Umberto Sisia
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