Sono sempre stato affezionato ai luoghi comuni poiché, contrariamente a quanto si pensa di solito, sono convinto che nella maggior parte dei casi della vita quotidiana essi siano portatori di una verità talmente evidente da essere persino incontrovertibile. Si potrà forse accusarli di essere banali, vieti e ritriti, ma difficilmente potranno essere tacciati di insincerità.
L’affare si complica, tuttavia, quando i luoghi comuni iniziano a essere applicati ai prodotti della letteratura, del cinema, dello spettacolo, poiché – stavolta sì – potremmo correre il rischio di andare a parare decisamente da un’altra parte e a parlare di un’altra cosa rispetto a ciò che si sta invece esaminando. Non sempre quello che si sa di una qualche opera, infatti, corrisponde effettivamente a quello che essa è. Non sempre nella semplificazione dell’immaginario popolare l’idea che si ha di una storia corrisponde al vero.
Qualche esempio? Jonathan Swift non è stato l’autore di una favoletta con omini centimetrici e immani giganti come di solito si vuol credere... Un tal Don Quixote non era semplicemente un bislacco tontolone protagonista di epopee comiche e picaresche... Le Fiabe dei Grimm non sono affatto materiale per bambini (tutt’altro) e i due stessi autori non sono da ricordare per quello... La Storia Vera di Luciano narra del primo viaggio spaziale della storia e di numerose altre meraviglie fantastiche ma non è il primo romanzo di fantascienza... E si potrebbe continuare a dismisura.
Tale la premessa. Riflessioni di questo genere mi sono infatti balzate alla mente con prepotenza qualche tempo addietro. Dal momento che in quei giorni mi ero ritrovato a rivedere visionandole su YouTube alcune sequenze dal Moby Dick, per la regia di John Houston e sceneggiato dal grandissimo Ray Bradbury, al di là dell’indubbia qualità della pellicola e della nota bellezza delle immagini mi colpì soprattutto il tenore dei commenti di coloro che avevano già guardato il video.
All’interno di tali commenti, infatti, lungi dal contestualizzare quanto si era visto e dal giudicarlo per i suoi contenuti effettivi, gli spettatori di internet non facevano altro che sfruttare l’occasione del film per battaglie ambientaliste altrimenti giustissime ma totalmente inappropriate per quella sede, deviando totalmente – questa la cosa peggiore – dal contenuto reale dell’opera a fini biecamente (per quanto fors’anche in buona fede) propagandistici. Si arrivava addirittura al punto di insultare il povero capitano Achab augurando la morte a tutti coloro che svolgessero una professione consimile.
Un ragionamento di questo tipo, al di là di tutte le altre considerazioni fattibili, non poteva che condurmi a una sola conclusione fondamentale: questa gente non aveva capito assolutamente nulla del film e – se consideriamo che si tratta di una trasposizione cinematografica molto fedele – in fin dei conti nemmeno del libro (quand’anche qualcuno lo avesse letto).
Con molta umiltà mi sono quindi accinto a cercare quantomeno di riflettere nelle sue linee essenziali su che cosa sia Moby Dick: forse sarà solo una goccia nel mare del fraintendimento della communis opinio (e torniamo al punto di partenza), ma comunque un tentativo di fare chiarezza su uno dei romanzi fondamentali non solo della letteratura americana, ma dell’ingegno umano tout court. Mi pare opportuno iniziare con un punto basilare sul quale si innesteranno poi tutte le altre possibili considerazioni.
Moby Dick non è un avventuroso romanzo di avventure marinaresche, né tantomeno è un’opera realistica. Per meglio dire, solo al livello più immediato, più apparente e a quello in fin dei conti meno sostanziale potremmo attaccare questo tipo di etichette al capolavoro di Herman Melville. Moby Dick è piuttosto, fin dalla prima pagina e in modo assolutamente prepotente, un romanzo dai caratteri gotici, fantastici, allucinati, una meravigliosa cavalcata simbolica attraverso molteplici strutture di senso differenti.
In tal modo, la Pequod non è una semplice baleniera, ma tutt’altro: equipaggiata in circostanze straordinarie, straordinaria e dissonante nelle componenti della sua ciurma, essa pare fin dal principio nient’altro che un prolungamento fisico del suo nascosto cervello, il capitano Achab. Anche il suo leggendario narratore – con l’altrettanto leggendario “Call me Ismahel” che dà il via a una narrazione – fin dalle prime battute conferisce all’esposizione delle vicende un tono nettamente profetico, quello di una rivelazione ricca di un profondo ed arcano significato che va decisamente al di là di quello di un semplice viaggio baleniero. Ciò non toglie che la precisione realistica del testo sia enorme, che la descrizione delle pratiche di navigazione sia accurata così come quella, per esempio, delle procedure di dissezione e lavorazione delle balene uccise allo scopo di ricavarne fino all’ultima stilla di olio. Ma – si potrebbe affermare – è tutta scenografia, o quantomeno sottotesto necessario poi a parlare di altro.
Non sono questi, perciò, il valore centrale e l’oggetto precipuo del discorso. Essi si iniziano a cogliere quando entra in ballo e proprio attraverso l’elemento del dissonante. L’equipaggio della Pequod, composto di sanguemisto e individui che si direbbero sbandati o di incerta origine, è un chiaro indizio dell’atmosfera simbolica che si vuole costruire, alludendo a una caotica stranezza della spedizione in partenza. Numerosi altri esempi si susseguiranno.
Ovviamente il centro di tutto il mondo della nave è il suo demoniaco capitano, una delle figure più iconiche, monumentali e pervasive della storia della letteratura, ma che non viene dal nulla ed ha i suoi bravi antecedenti.
Il capitano Achab, giustappunto. Egli è sicuramente il discendente di tutta una numerosissima serie di malvagi gotici. Precedentemente arroccati in castelli sugli Appennini, ora nella loro veste più innovativa questi tipici villains della letteratura si ripresentano sul mare. Hanno cambiato pelle, ma sono nonostante tutto riconoscibilissimi. Il marchio di fabbrica che manifestano nello sguardo infuocato e “divorantemente” ossessivo ce li presenta subito come tali (e parlo al plurale poiché Achab non sarà certo l’ultimo della serie... pensiamo anche solo – in forme diverse – ai pirati di Willam Hope Hodgson). Così pure l’aura di minaccia che ne pervade la personalità è tipica del genere. Come i vari Montoni, Schedoni, Ambrosio e via discorrendo, anche il baleniere è caratterizzato da una storia pregressa, che si apprenderà fosca e drammatica, segnata in modo devastante dal primo incontro con la Balena, il quale gli era costato la perdita della gamba. Un altro indizio di deformità fisica che introduce nel mondo della difformità psicologica di un contorto e maniacale modo di pensare.
Ma Achab non è solo questo: è un personaggio dalla statura titanica, legato a triplo filo alle tematiche del romanticismo: da una condizione di normale baleniere, egli matura grazie a Moby Dick quella volontà di ricerca e quella tensione verso il limite che caratterizzano questo tipo di personaggi. È un’ossessione magnifica, quella di Achab, ed è l’incarnazione della spinta a osare e a sfidare, per quanto tale impulso sia motivato essenzialmente dalla causa motrice di una vendetta delirante. Facendo riferimento al film, Gregory Peck è straordinario in questo senso nel dare vita a un’interpretazione del marinaio cupa, furiosa e contemporaneamente imponente. Achab come un novello Ulisse è colui che si erge titanicamente sapendo in cuor suo di essere già destinato alla sconfitta. Contro gli elementi, contro lo stesso Dio, è colui che non rinuncia pur di conoscere, sapere, confrontarsi; è colui che allo stesso modo di Ulisse alla fine è punito e si inabissa, che è empio ma che pervicacemente si aggrappa al suo ideale e per questo motivo appare anche oscuramente affascinante, quasi un modello da imitare.
È questa la vera essenza di Achab? Forse... e forse no. Possiamo poi essere così sicuri che Achab abbia solamente tutte queste sfumature negative? La grandezza del personaggio è che esso in realtà non fornisce risposte certe. Accanto a questa interpretazione “demoniaca” ha giusto rigore e ragion d’essere anche un’interpretazione positiva. Egli infatti, per i medesimi motivi romantici detti prima, rappresenta pur sempre il titano che sopravanza tutti gli altri. Il signor Starbuck, Ismaele, Queequeeg, tutti gli altri personaggi sono evidentemente di una statura inferiore, non eroica. Di fronte alla giusta sfida di Achab alla balena, essi talora vorrebbero ritirarsi, cacciare normalmente come le altre baleniere, deporre le armi. Solo il capitano persiste indefessamente perché la lotta contro Moby Dick, ça va sans dire, non è una semplice lotta fra un uomo e un animale. Tutt’altro.
E siamo arrivati così a un problema centrale che si riferisce a Moby Dick, all’altro polo magnetico del romanzo che ne costituisce il necessario bilanciamento nelle dinamiche di contrasto che sono indispensabili affinché la trama possa procedere. E del resto è ovvio che perché ci sia qualcuno che sfida (che si trovi esso dalla parte del giusto, dello sbagliato o a metà fra esse) occorre necessariamente qualcuno (o qualcosa) che sia oggetto della sfida venendosi a configurare in un ruolo antagonistico.
Ecco pertanto la funzione della balena che dà il titolo all’opera melvilliana la quale, fra l’altro, ho sempre pensato avrebbe potuto continuare a intitolarsi Moby-Dick; or, the Whale, anche nelle innumerevoli edizioni e trasposizioni successive. Questo appunto perché il motivo della caccia al cetaceo non riguarda affatto la sfera materiale, cosa che risulta palese fin dai primi capitoli (ove esso è oggetto di un favoleggiamento quasi mitologico), per passare a quelli centrali (ove la caccia alle balene reali si contrappone ideologicamente a quella principale, nella quale il mostro brilla per assenza, inafferrabilità, fuggevolezza); l’impressione è totalmente confermata nei capitoli finali, nei quali il leviatano infine si manifesta in tutta la propria alterità. La sfida con la balena – ed è ciò che gli spettatori di YouTube non sono nemmeno lontanamente riusciti a capire – coinvolge non tanto una caccia reale, quanto piuttosto gli ambiti dai contorni sfuggenti ed ingannevoli del fantasmatico e quelli innervati nella natura più profondamente ontologica dell’essere del metafisico.
Come tutti sanno, poi, Moby Dick è una balena bianca, di un colore del tutto innaturale, simbolico. Il capitolo fondamentale dal titolo “La bianchezza della balena” è una cerniera essenziale nell’individuazione del significato del testo, ma anche senza di esso si potrebbe cogliere il valore di questo aspetto essenziale. Semanticamente il bianco non è solo il colore della purezza e del candore, della spiritualità e dell’idealismo, bensì a un livello ancora più profondo lo è del lutto e della morte. Il pallore è la caratteristica dei cadaveri, delle lamie, delle larve, di tutto ciò che rimanda alla costellazione di significati connessi con l’aldilà, tant’è vero che presso diverse culture in occasione dei decessi ci si riveste o ci si tinge la pelle di bianco. Già in Coleridge, il Vecchio Marinaio, autore di un atto di ribellione in qualche modo accostabile a quello di Achab aveva a che fare con un albatro portatore di energie arcane di colore bianco. Così come è di un bianco perfetto il colore della pelle dell’essere misteriosissimo che compare nelle ultime, enigmatiche pagine del Gordon Pym di Edgar Allan Poe.
Questo per dire che il sostegno alla presente tesi è fondatissimo e individuabilissimo. E dunque pare abbastanza evidente che Achab intraprenda una lotta contro il Leviatano, il mostro, la balena bianca allo scopo non solo di vendicarsi della perdita del proprio arto, ma ancora di quella della propria sanità mentale. In seguito al loro primo drammatico scontro principia una lotta fantasmatica sia contro i propri spettri personali, sia contro le forze oscure che infestano la realtà e – di più – contro un ente demonico che incarna e concretizza l’intera malvagità dell’essere. Il faccia a faccia con la balena ha per Achab un sapore lovecraftiano ante litteram poiché mina la sua identità serena e ordinaria precedente (sia a livello lavorativo che familiare) e lo precipita dinanzi al caos e al disordine, ne infrange le certezze costitutive, ne muta il carattere, lo trasforma nel coacervo inconsulto di tratti caratteriali dei quali si è detto: ossessione, romanticismo, eroismo, titanismo, maniacalità, irragionevolezza e tutto ciò che si è andati finora individuando.
Proprio per questo il combattimento del capitano contro Moby Dick risulta eroico, in quanto appunto costituisce anche un sacra missione della quale egli si è autoinvestito nel voler ritrovare ed eliminare definitivamente “il gran demonio dei mari”, ma che evidentemente non è solo limitato ad essi ma suggerisce una portata più ampia e cosmica.
Quale delle due interpretazioni proposte sarà dunque più sensata? Achab è un meraviglioso pazzo monomaniaco che segue le sue ossessioni di vendetta e trascende i limiti assegnati all’uomo venendo per questo punito (e la sua ciurma – seguendone le sorti – è condannata anch’essa a condividerle subendo la medesima sventura, tranne Ismaele che “solo è sopravvissuto per raccontarlo” tramite lo stupendo paradosso della sopravvivenza sulla bara preparata da Quequeeg)? O è un paladino della lotta contro il Male assoluto che fatalmente e pessimisticamente si trova costretto a cedere ad esso nella propria solitaria e superomistica battaglia? Come ho già accennato, penso che in fin dei conti non possa esserci una risposta univoca, o meglio, che entrambi i tipi di letture possano essere giudicati validi contemporaneamente. Dipende solo dall’angolatura di osservazione che si sceglie, dopotutto.
Meglio lasciare perdere le linee di interpretazione insensate e lasciare parlare il testo. Le opere hanno la loro identità e sarebbe opportuno ascoltarle piuttosto che andarsi a impelagare in discussioni prive del benché minimo senso… Ma per alcuni utenti internet usare il cervello evidentemente è troppo impegnativo, come purtroppo anche nella vita reale di tutti i giorni.
L’affare si complica, tuttavia, quando i luoghi comuni iniziano a essere applicati ai prodotti della letteratura, del cinema, dello spettacolo, poiché – stavolta sì – potremmo correre il rischio di andare a parare decisamente da un’altra parte e a parlare di un’altra cosa rispetto a ciò che si sta invece esaminando. Non sempre quello che si sa di una qualche opera, infatti, corrisponde effettivamente a quello che essa è. Non sempre nella semplificazione dell’immaginario popolare l’idea che si ha di una storia corrisponde al vero.
Qualche esempio? Jonathan Swift non è stato l’autore di una favoletta con omini centimetrici e immani giganti come di solito si vuol credere... Un tal Don Quixote non era semplicemente un bislacco tontolone protagonista di epopee comiche e picaresche... Le Fiabe dei Grimm non sono affatto materiale per bambini (tutt’altro) e i due stessi autori non sono da ricordare per quello... La Storia Vera di Luciano narra del primo viaggio spaziale della storia e di numerose altre meraviglie fantastiche ma non è il primo romanzo di fantascienza... E si potrebbe continuare a dismisura.
Tale la premessa. Riflessioni di questo genere mi sono infatti balzate alla mente con prepotenza qualche tempo addietro. Dal momento che in quei giorni mi ero ritrovato a rivedere visionandole su YouTube alcune sequenze dal Moby Dick, per la regia di John Houston e sceneggiato dal grandissimo Ray Bradbury, al di là dell’indubbia qualità della pellicola e della nota bellezza delle immagini mi colpì soprattutto il tenore dei commenti di coloro che avevano già guardato il video.
All’interno di tali commenti, infatti, lungi dal contestualizzare quanto si era visto e dal giudicarlo per i suoi contenuti effettivi, gli spettatori di internet non facevano altro che sfruttare l’occasione del film per battaglie ambientaliste altrimenti giustissime ma totalmente inappropriate per quella sede, deviando totalmente – questa la cosa peggiore – dal contenuto reale dell’opera a fini biecamente (per quanto fors’anche in buona fede) propagandistici. Si arrivava addirittura al punto di insultare il povero capitano Achab augurando la morte a tutti coloro che svolgessero una professione consimile.
Un ragionamento di questo tipo, al di là di tutte le altre considerazioni fattibili, non poteva che condurmi a una sola conclusione fondamentale: questa gente non aveva capito assolutamente nulla del film e – se consideriamo che si tratta di una trasposizione cinematografica molto fedele – in fin dei conti nemmeno del libro (quand’anche qualcuno lo avesse letto).
Con molta umiltà mi sono quindi accinto a cercare quantomeno di riflettere nelle sue linee essenziali su che cosa sia Moby Dick: forse sarà solo una goccia nel mare del fraintendimento della communis opinio (e torniamo al punto di partenza), ma comunque un tentativo di fare chiarezza su uno dei romanzi fondamentali non solo della letteratura americana, ma dell’ingegno umano tout court. Mi pare opportuno iniziare con un punto basilare sul quale si innesteranno poi tutte le altre possibili considerazioni.
Moby Dick non è un avventuroso romanzo di avventure marinaresche, né tantomeno è un’opera realistica. Per meglio dire, solo al livello più immediato, più apparente e a quello in fin dei conti meno sostanziale potremmo attaccare questo tipo di etichette al capolavoro di Herman Melville. Moby Dick è piuttosto, fin dalla prima pagina e in modo assolutamente prepotente, un romanzo dai caratteri gotici, fantastici, allucinati, una meravigliosa cavalcata simbolica attraverso molteplici strutture di senso differenti.
In tal modo, la Pequod non è una semplice baleniera, ma tutt’altro: equipaggiata in circostanze straordinarie, straordinaria e dissonante nelle componenti della sua ciurma, essa pare fin dal principio nient’altro che un prolungamento fisico del suo nascosto cervello, il capitano Achab. Anche il suo leggendario narratore – con l’altrettanto leggendario “Call me Ismahel” che dà il via a una narrazione – fin dalle prime battute conferisce all’esposizione delle vicende un tono nettamente profetico, quello di una rivelazione ricca di un profondo ed arcano significato che va decisamente al di là di quello di un semplice viaggio baleniero. Ciò non toglie che la precisione realistica del testo sia enorme, che la descrizione delle pratiche di navigazione sia accurata così come quella, per esempio, delle procedure di dissezione e lavorazione delle balene uccise allo scopo di ricavarne fino all’ultima stilla di olio. Ma – si potrebbe affermare – è tutta scenografia, o quantomeno sottotesto necessario poi a parlare di altro.
Non sono questi, perciò, il valore centrale e l’oggetto precipuo del discorso. Essi si iniziano a cogliere quando entra in ballo e proprio attraverso l’elemento del dissonante. L’equipaggio della Pequod, composto di sanguemisto e individui che si direbbero sbandati o di incerta origine, è un chiaro indizio dell’atmosfera simbolica che si vuole costruire, alludendo a una caotica stranezza della spedizione in partenza. Numerosi altri esempi si susseguiranno.
Ovviamente il centro di tutto il mondo della nave è il suo demoniaco capitano, una delle figure più iconiche, monumentali e pervasive della storia della letteratura, ma che non viene dal nulla ed ha i suoi bravi antecedenti.
Il capitano Achab, giustappunto. Egli è sicuramente il discendente di tutta una numerosissima serie di malvagi gotici. Precedentemente arroccati in castelli sugli Appennini, ora nella loro veste più innovativa questi tipici villains della letteratura si ripresentano sul mare. Hanno cambiato pelle, ma sono nonostante tutto riconoscibilissimi. Il marchio di fabbrica che manifestano nello sguardo infuocato e “divorantemente” ossessivo ce li presenta subito come tali (e parlo al plurale poiché Achab non sarà certo l’ultimo della serie... pensiamo anche solo – in forme diverse – ai pirati di Willam Hope Hodgson). Così pure l’aura di minaccia che ne pervade la personalità è tipica del genere. Come i vari Montoni, Schedoni, Ambrosio e via discorrendo, anche il baleniere è caratterizzato da una storia pregressa, che si apprenderà fosca e drammatica, segnata in modo devastante dal primo incontro con la Balena, il quale gli era costato la perdita della gamba. Un altro indizio di deformità fisica che introduce nel mondo della difformità psicologica di un contorto e maniacale modo di pensare.
Ma Achab non è solo questo: è un personaggio dalla statura titanica, legato a triplo filo alle tematiche del romanticismo: da una condizione di normale baleniere, egli matura grazie a Moby Dick quella volontà di ricerca e quella tensione verso il limite che caratterizzano questo tipo di personaggi. È un’ossessione magnifica, quella di Achab, ed è l’incarnazione della spinta a osare e a sfidare, per quanto tale impulso sia motivato essenzialmente dalla causa motrice di una vendetta delirante. Facendo riferimento al film, Gregory Peck è straordinario in questo senso nel dare vita a un’interpretazione del marinaio cupa, furiosa e contemporaneamente imponente. Achab come un novello Ulisse è colui che si erge titanicamente sapendo in cuor suo di essere già destinato alla sconfitta. Contro gli elementi, contro lo stesso Dio, è colui che non rinuncia pur di conoscere, sapere, confrontarsi; è colui che allo stesso modo di Ulisse alla fine è punito e si inabissa, che è empio ma che pervicacemente si aggrappa al suo ideale e per questo motivo appare anche oscuramente affascinante, quasi un modello da imitare.
È questa la vera essenza di Achab? Forse... e forse no. Possiamo poi essere così sicuri che Achab abbia solamente tutte queste sfumature negative? La grandezza del personaggio è che esso in realtà non fornisce risposte certe. Accanto a questa interpretazione “demoniaca” ha giusto rigore e ragion d’essere anche un’interpretazione positiva. Egli infatti, per i medesimi motivi romantici detti prima, rappresenta pur sempre il titano che sopravanza tutti gli altri. Il signor Starbuck, Ismaele, Queequeeg, tutti gli altri personaggi sono evidentemente di una statura inferiore, non eroica. Di fronte alla giusta sfida di Achab alla balena, essi talora vorrebbero ritirarsi, cacciare normalmente come le altre baleniere, deporre le armi. Solo il capitano persiste indefessamente perché la lotta contro Moby Dick, ça va sans dire, non è una semplice lotta fra un uomo e un animale. Tutt’altro.
E siamo arrivati così a un problema centrale che si riferisce a Moby Dick, all’altro polo magnetico del romanzo che ne costituisce il necessario bilanciamento nelle dinamiche di contrasto che sono indispensabili affinché la trama possa procedere. E del resto è ovvio che perché ci sia qualcuno che sfida (che si trovi esso dalla parte del giusto, dello sbagliato o a metà fra esse) occorre necessariamente qualcuno (o qualcosa) che sia oggetto della sfida venendosi a configurare in un ruolo antagonistico.
Ecco pertanto la funzione della balena che dà il titolo all’opera melvilliana la quale, fra l’altro, ho sempre pensato avrebbe potuto continuare a intitolarsi Moby-Dick; or, the Whale, anche nelle innumerevoli edizioni e trasposizioni successive. Questo appunto perché il motivo della caccia al cetaceo non riguarda affatto la sfera materiale, cosa che risulta palese fin dai primi capitoli (ove esso è oggetto di un favoleggiamento quasi mitologico), per passare a quelli centrali (ove la caccia alle balene reali si contrappone ideologicamente a quella principale, nella quale il mostro brilla per assenza, inafferrabilità, fuggevolezza); l’impressione è totalmente confermata nei capitoli finali, nei quali il leviatano infine si manifesta in tutta la propria alterità. La sfida con la balena – ed è ciò che gli spettatori di YouTube non sono nemmeno lontanamente riusciti a capire – coinvolge non tanto una caccia reale, quanto piuttosto gli ambiti dai contorni sfuggenti ed ingannevoli del fantasmatico e quelli innervati nella natura più profondamente ontologica dell’essere del metafisico.
Come tutti sanno, poi, Moby Dick è una balena bianca, di un colore del tutto innaturale, simbolico. Il capitolo fondamentale dal titolo “La bianchezza della balena” è una cerniera essenziale nell’individuazione del significato del testo, ma anche senza di esso si potrebbe cogliere il valore di questo aspetto essenziale. Semanticamente il bianco non è solo il colore della purezza e del candore, della spiritualità e dell’idealismo, bensì a un livello ancora più profondo lo è del lutto e della morte. Il pallore è la caratteristica dei cadaveri, delle lamie, delle larve, di tutto ciò che rimanda alla costellazione di significati connessi con l’aldilà, tant’è vero che presso diverse culture in occasione dei decessi ci si riveste o ci si tinge la pelle di bianco. Già in Coleridge, il Vecchio Marinaio, autore di un atto di ribellione in qualche modo accostabile a quello di Achab aveva a che fare con un albatro portatore di energie arcane di colore bianco. Così come è di un bianco perfetto il colore della pelle dell’essere misteriosissimo che compare nelle ultime, enigmatiche pagine del Gordon Pym di Edgar Allan Poe.
Questo per dire che il sostegno alla presente tesi è fondatissimo e individuabilissimo. E dunque pare abbastanza evidente che Achab intraprenda una lotta contro il Leviatano, il mostro, la balena bianca allo scopo non solo di vendicarsi della perdita del proprio arto, ma ancora di quella della propria sanità mentale. In seguito al loro primo drammatico scontro principia una lotta fantasmatica sia contro i propri spettri personali, sia contro le forze oscure che infestano la realtà e – di più – contro un ente demonico che incarna e concretizza l’intera malvagità dell’essere. Il faccia a faccia con la balena ha per Achab un sapore lovecraftiano ante litteram poiché mina la sua identità serena e ordinaria precedente (sia a livello lavorativo che familiare) e lo precipita dinanzi al caos e al disordine, ne infrange le certezze costitutive, ne muta il carattere, lo trasforma nel coacervo inconsulto di tratti caratteriali dei quali si è detto: ossessione, romanticismo, eroismo, titanismo, maniacalità, irragionevolezza e tutto ciò che si è andati finora individuando.
Proprio per questo il combattimento del capitano contro Moby Dick risulta eroico, in quanto appunto costituisce anche un sacra missione della quale egli si è autoinvestito nel voler ritrovare ed eliminare definitivamente “il gran demonio dei mari”, ma che evidentemente non è solo limitato ad essi ma suggerisce una portata più ampia e cosmica.
Quale delle due interpretazioni proposte sarà dunque più sensata? Achab è un meraviglioso pazzo monomaniaco che segue le sue ossessioni di vendetta e trascende i limiti assegnati all’uomo venendo per questo punito (e la sua ciurma – seguendone le sorti – è condannata anch’essa a condividerle subendo la medesima sventura, tranne Ismaele che “solo è sopravvissuto per raccontarlo” tramite lo stupendo paradosso della sopravvivenza sulla bara preparata da Quequeeg)? O è un paladino della lotta contro il Male assoluto che fatalmente e pessimisticamente si trova costretto a cedere ad esso nella propria solitaria e superomistica battaglia? Come ho già accennato, penso che in fin dei conti non possa esserci una risposta univoca, o meglio, che entrambi i tipi di letture possano essere giudicati validi contemporaneamente. Dipende solo dall’angolatura di osservazione che si sceglie, dopotutto.
Meglio lasciare perdere le linee di interpretazione insensate e lasciare parlare il testo. Le opere hanno la loro identità e sarebbe opportuno ascoltarle piuttosto che andarsi a impelagare in discussioni prive del benché minimo senso… Ma per alcuni utenti internet usare il cervello evidentemente è troppo impegnativo, come purtroppo anche nella vita reale di tutti i giorni.
Umberto Sisia
Io ho "solo" letto il libro. Mi stupisco di come si voglia (non lei) vedere in questo volume un gran romanzo simbolico di levatura eccezionale. Nella sua versione integrale, il libro è occupato per l'80% da notizie tecniche riguardanti la caccia alle balene, mentre la storia di Achab, Ismaele e balena bianca occupa qualche pagina all'inizio e qualche pagina alla fine. Non c'è da nessuna parte l'immensa tensione d'animi e la cupa simbologia che tutti vi credono ci sia. A me pare un (bellissimo) trattato sulla pesca delle balene, condito da una storiella marinaresca secondaria tipo "novelle di mastro catrame"...
RispondiEliminaAnalisi affascinante, mi permetto di suggerire la lettura di un altro - notevolissimo - adattamento: http://www.billsienkiewiczart.com/gallery.asp?sc=BSMOB&page=0
RispondiElimina@ Mauro
RispondiEliminaMi permetto di contraddirla. Se quanto dice è vero a livello letterale, è quantomeno riduttivo parlare soltanto di una storia di realistica marineria. Achab e la Balena compariranno poco, ma sono presenti fantasmaticamente, simbolicamente, metaforicamente e sotterraneamente per tutta la durata del romanzo. Il capitolo tematicamente centrale "La bianchezza della balena" è fondamentale per capirlo, ma vi sono numerosissime altre spie testuali e chiavi interpretative che lo dimostrano (in parte affrontate nell'articolo). Le sfaccettature di Moby Dick sono moltissime, senza per questo negare l'indubbio valore della componente avventuroso-realisitca, ma che è solo una delle tante.
@ Valentino
Grazie... Vado a vedere subito...
Diciamo che, come nel caso dei classici immortali (questo ormai lo è), Moby Dick è cresciuto molto oltre l'intento originale, radicandosi e ramificandosi nel nostro immaginario collettivo molto più che quanto l'autore si aspettasse o volesse davvero dire...
RispondiEliminaCondivido in parte le idee di Mauro Longo. Come spesso accade, è difficile "leggere" oggettivamente un'opera che ormai fa parte del canone letterario senza farsi influenzare.
RispondiEliminaNon condivido affatto quelle dell'autore dell'articolo. Credo che l'interpretazione del romanzo sia stata forzato per farlo rientrare in una intelaiatura fantastico/gotica che non ha affatto, a mio parere. Un conto è affermare che Moby Dick gioca sulla duplicità della lettura, simbolica e realistica; un altro, dichiarare che si tratta di "un romanzo dai caratteri gotici, fantastici, allucinati". Non sono d'accordo. Al contrario, è un romanzo realista/realistico, d'avventura, che ha fatto il salto dalla "letteratura d'intrattenimento" alla grande letteratura (secondo i canoni standard) per la forte carica simbolica che corre sottostante ogni parte del libro, ma che allo stesso tempo non prende mai il sopravvento trasformando il romanzo in un'opera fantastica.
Seguendo questa linea, credo sia forzato anche il confronto tra Achab e i malvagi gotici.
Anche secondo me è molto simbolico, ma solo se uno lo vuole, sennò è un libro di avventura e descrizione della pesca alla balena. E' un libro che cambia a seconda del lettore.
RispondiEliminaSecondo me basta leggere la quantità di citazioni su Moby Dick di questo post per smentire quello che sostiene Mauro!
RispondiEliminaLa Balena è sempre presente, anche quando narrano come si legano le corde alle lance.
Tutti i libri cambiano a seconda del lettore! Qualsiasi forma di comunicazione e' una negoziazione di significato fra emittente e destinatario del messaggio. La differenza la fanno gli strumenti a disposizione del destinatario per decodificare il messaggio stesso. In breve: ogni romanzo ha piu' livelli di fruizione... e se io non sono in grado di andare oltre il livello superficiale, non significa che il romanzo non abbia un livello piu' profondo!
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