Articolo in due parti: vedi parte I.
“Il Gran Maestro della Rosa” è invece una variazione su “The Cask of Amontillado”, racconto “di vendetta” di Poe. Nel racconto di Matthew Phipps Shiel i due protagonisti sono uno scrittore parvenu e un membro della “Società bene” londinese. Il primo è interessato sia alla sorella del secondo, benché sposato, sia al fatto che questi appartenga a una società “segretissima” chiamata “Gli amici della Rosa”. Crooks, lo scrittore, cerca inutilmente di saperne di più ottenendo in cambio soltanto informazioni nebulose, fin quando non riesce a sedurre la sorella dell’iniziato rovinandone la reputazione. A quel punto giungerà a vedere ciò che voleva vedere, anche se sotto un punto di vista particolarmente drammatico, come era facile immaginare. La descrizione di Smyth (l’iniziato), gentiluomo cockney (“come Charles Lamb”, precisa Shiel), abitudinario, gelido e laconico, colto nell’atto di invocare probabilmente una Entità poderosa che “si prenda cura” del seduttore Crooks, è semplicemente magistrale:
“Ma ciò che fece gelare il sangue di Crooks fu l’orrida vista delle danze e delle preghiere di Smyth, coperto dal manto, dietro il candeliere, che si comportava come uno che facesse un incantesimo, la testa rovesciata all’indietro, lo sguardo in alto, gli occhiali sul naso! Ma a quale arcano linguaggio Caldeo apparteneva quel pregare Moloch e Baal, in modo che la sua lingua sembrava belare e gemere? Crooks conosceva qualche linguaggio: ma questo non somigliava a niente di noto… E poi, quell’agitarsi, quel fandango di mani e gambe, che continuava con le preghiere, come uno stregone in trance, nel cuore della danza, nella terra delle tarantole… Un esempio di Stregoneria antica, come le orge illuminate dalle torce di Sheba e dell’Egitto…”
La scena non doveva essere lontana da ciò che realmente accadeva nella Londra contemporanea di Shiel. Riporta Israel Regardie (uno dei biografi di Crowley) che MacGregor Mathers, fondatore della setta della Golden Dawn, allo scopo di maledire i suoi nemici non esitava a vestirsi con tuniche colorate in pubblico, recarsi agli incroci e colà esibirsi in danze estatiche, scuotendo una buccina piena di fagioli rinsecchiti e invocando Seth e il Titano Tifone.
La nostra simpatia va istintivamente allo stregone Smyth piuttosto che al fedifrago Crooks, fatto perlomeno curioso se pensiamo che in vita Shiel fu più un avatar del secondo che non del primo. Risale infatti al 1914-1916 quel processo che getterà un ombra particolarmente inquietante sulla già movimentata biografia di Shiel: lo scrittore viene accusato di “indecent assault” e “carnally knowledge” ai danni della dodicenne (dodici anni e cinque mesi, a essere più precisi) Dorothy Sircar. Illustrata in questi termini nudi e crudi la vicenda appare agghiacciante, ma per comprendere meglio cosa sia successo bisogna, innanzitutto, operare quella riflessione adottata dalla biografa di Shiel, Kirsten Mac Leod, sul ruolo della donna in età Vittoriana ed Edoardiana.
Fino a tutto il 1700 in Inghilterra non era per nulla inusuale permettere l’esistenza di “spose-bambine”, e in effetti l’età in cui si considerava una donna in età da marito era dai tredici anni in su. Ciò naturalmente generava in uomini e donne una concezione diversa dell’erotismo, che adesso ci farebbe inorridire e di cui basterà citare l’esempio di Lewis Carroll, che appare attualmente il caso più scandaloso. Nel 1885, invece, fa la sua definitiva comparsa il Criminal Law Amendment Act, che sancisce la condanna dell’omosessualità e sposta l’età in cui una donna è considerata “donna a tutti gli effetti” dai tredici anni ai sedici. Le ragioni di un simile atto vanno ricercate in più direzioni: da una parte si fa strada fra le coscienze una concezione dell’infanzia come “territorio protetto”, veicolata dalle idee freudiane che prenderanno definitivamente piede a metà del ’900 (ai tempi dell’Amendment era ben conosciuto il volume Physiology of Love – La fisiologia dell’amore, 1873 – dell’italiano Paolo Mantegazza), dall’altra una certa forma di puritanesimo che vede con disgusto la “promiscuità” dimostrata sul lavoro da parte di quella middle-up-class di stampo proletario e impiegatizio, che tanto fa arricciare il naso alla “Società bene” londinese. Questa parte di critica ovviamente ignora, o finge di ignorare, il fatto che molte donne “proletarie” cominciano nel 1800 a lavorare in età molto giovane, conseguenza diretta della seconda Rivoluzione Industriale. Ciò che disgusta è appunto la promiscuità “di genere” che vede nelle fabbriche l’uomo e la donna lavorare a stretto contatto. Naturalmente una parte “illuminata” vede giustamente un allarme che concerne la sfera dell’affetto, del sesso e della crescita nel permettere alle donne di sposarsi in età così precoce.
Da questo punto di vista, la lettera che Shiel scrisse a mo’ di autodifesa non giocò a suo favore. In essa egli fa l’elogio dei costumi orientali e soprattutto indiani (la tredicenne Dorothy Sircar era infatti indiana da parte di madre); protesta la sua innocenza riguardo all’età, da lui considerata fino all’ultimo come “quella giusta” (ma va ricordato che l’accusa parla di “assault” oltre che di “carnal knowledge”, e che Shiel mai fa menzione di alcun consentimento da parte di Dorothy) e cita a esempio di “spose bambine” illustri i casi delle madri rispettivamente di Napoleone Bonaparte e di Warren Hastings. Peccato che tutte e due gli esempi in questione morirono tragicamente di parto, una delle critiche più feroci e attente vedeva infatti nelle tragiche e dolorose morti di partorienti infantili l’argomento principale per far sì che la soglia di età venisse alzata.
Shiel era inoltre un frequentatore abituale di bettole e locali notturni, considerati all’epoca come focolai di vizio e lussuria. Lo scrittore rivolgeva le sue attenzioni al sesso femminile persino per strada, con battute scherzose e frasi galanti (quelli che in lingua spagnola, alla quale Shiel si troverà sempre vicino, si chiamerebbero, “piropos”). Non solo, ma per attirare l’attenzione usciva la sera per le strade di Londra completamente addobbato di luci colorate, a mo’ di bizzarro albero di Natale (da qui l’epiteto “Mago rivestito di luci”), altra mossa poco saggia dal momento che le strade erano malviste dall’opinione comune e considerate come “istigatrici di ogni perversione”.
A questo dobbiamo inoltre aggiungere la palese infedeltà dello scrittore il quale, al tempo dei fatti concernenti Dorothy Sircar (che per inciso era la sua figliastra), si trovava impelagato in un’altra relazione, sia con un’altra donna sia con Lydia Furley, ammiratrice e, dopo il processo, sua nuova consorte. Alla fine Shiel verrà condannato a sedici mesi di reclusione da scontare “hard working”, e possiamo ben ritenere che tanto male non gli andò, se pensiamo che la condanna per omosessualità ai danni di Oscar Wilde, suo contemporaneo, costò all’autore irlandese l’equivalente di un esilio sociale.
Inutile rimarcare che l’odio di M.P. Shiel per “l’uomo inglese occidentale”, già abbastanza marcato prima del processo, raggiungerà in seguito livelli di virtuosismo impressionanti. La sua attrazione verso i costumi orientali, che Shiel insiste nell’attribuire alle sue origini in parte indiane, trova ampio spazio nella sua narrativa. Basti pensare alla scena da The Purple Cloud nella quale il protagonista, osservando lo sfacelo della morte e della distruzione universalmente presente intorno a lui in una Londra oramai spopolata e distrutta [sic], afferma: “L’incongruenza dell’abbigliamento europeo che indossavo era ormai diventata ai miei occhi quasi un insulto o una burla; così per prima cosa mi diressi verso il solo posto dove ero sicuro di trovare vestiti degni di essere indossati da un uomo, l’Ambasciata turca in Bryanston Square”. Più avanti descriverà estesamente il proprio abbigliamento: “[…] già i miei capelli scendono lungo la schiena raccolta in oliata treccia; la mia barba profumata proietta le sue due punte divergenti verso le mie costole; invece di pantaloni porto l’Izar, cioè un paio di calzoni di tessuto yeomani, simile al cotone, a strisce gialle; sul corpo porto un camicia, o quamis, di seta bianca, che mi arriva fino ai polpacci […]”. E prosege per altre quindici righe.
L’attrazione per amanti-bambine fiere nemiche della “morale comune” (abbiamo oramai compreso in che senso) si ripresenta in molte opere successive dello scrittore, ma assume risvolti inquietanti nei suoi racconti gotici. Nel racconto “La moglie di Huguenin” terrorizza sia la trasformazione finale della strega sia il fatto della “reversibilità”. Data la precoce età con la quale le fanciulle si sposavano, era prassi comune che il marito, a volte molto più anziano, facesse sia da “padre” che da “iniziatore sessuale” alla giovane sposa: in questo racconto invece avviene il contrario, in quanto è l’incantatrice greca a iniziare sessualmente il marito più giovane e a causarne la rovina, è il “Femminino” notturno e satanico di puro stampo decadentista a generare terrore e raccapriccio.
Questo misto di percezioni che vede la donna sia come “preda sessuale” sia come “maga oscura” e porta iniziatica verso un sapere oscuro, sorta di “Ianua Coeli” al contrario in senso “catabatico”, avrà incredibile fortuna, basti pensare alle innumerevoli “donne scarlatte” di quell’altro personaggio controverso, anch’egli inziato alla Golden Dawn, che fu l’immancabile Aleister Crowley.
Poco prima del processo Shiel aveva raggiunto una certa notorietà, sia con il suo “The Yellow Peril”, antesignano del più famoso Fu Manchu di Sax Rohmer, sia con una trilogia di romanzi che a buon diritto si può definire come il primo esercizio stilistico in assoluto di Weird fiction catastrofica, in ordine di apparizione Lord of the Sea, The Purple Cloud e The Last Miracle.
Su La Nube Purpurea già è stato scritto talmente tanto, e di buona qualità, che mi limiterò qui a segnalare alcuni punti notevoli, utili a chi volesse per la prima volta accostarsi a quello che oramai dovrebbe essere riconosciuto come un capolavoro assoluto della narrativa mondiale. La trama descrive sostanzialmente le vicissitudini di un novello Adamo che, tentato dalla sua Eva, causa la distruzione completa di ogni forma di vita umana sulla Terra, e così facendo diviene responsabile del suo susseguente ripopolamento. È possibile concepire qualcosa di lontanamente paragonabile a questa grandiosa forma di megalomania letteraria? Una volta giunto nuovamente in Inghilterra, a catastrofe avvenuta, il protagonista (chiamato per l’appunto “Adam”) si trova davanti a uno scenario di morte e devastazione senza pari. Un’isola, un continente, un Mondo ricoperto di cadaveri olezzanti di pesco, conseguenza delle nefaste attività della “nube” il cui odore, paradossalmente, conserva i cadaveri in una mummificazione perpetua che impedisce loro di imputridirsi.
Questa è la descrizione di ciò che Adam rinviene in una Villa abbandonata: “[…] in una piccola camera da letto semibuia dell’ala nord vidi una signora alta, con un servo, o forse un boscaiolo, abbracciati su un divano, e lei portava un diadema sulla fronte, e i loro denti senza labbra erano ancora avidamente congiunti […]”. In un altro passo, le paranoie del protagonista circondato dai cadaveri di milioni di suoi simili proiettano su di essi, in un eccesso di comica simpatia, gli stessi sentimenti che generavano in vita, come in questo passo: “[…] là dentro, c’era soltanto una vecchia signora, in una cappella a sud del coro, che non mi ispirava fiducia; e lì rimasi sdraiato ad ascoltare, perché tutto sommato non dormii quasi niente, mentre sopra la mia testa vociavano i megafoni dell’immensa tempesta”.
Una volta giunto a Londra, Adam trova rifugio nell’ufficio di un giornale, ma non riesce a dormire in quanto avverte la presenza di milioni e milioni di fantasmi, spettri di un mondo consegnato alla morte e tutti in collera con lui a causa del suo gesto (paranoia, o sensazioni più sottili?): “Quell’immagine letale di dita fredde e morte, mi sembrava vederla davanti a me, l’insipidezza delle lingue morte, il broncio delle labbra degli annegati e le spume svaporate che le orlano; finché il mio corpo non divenne madido, come bagnato dalle acque di scolo degli obitori, e dai sudori che i cadaveri traspirano, e dalla lacrima nauseante che si ferma sulle gote dei morti: perché, che può fare un unico insignificante uomo, avvolto nella sua veste di carne, davanti a moltitudini ed eserciti di disincarnati, solo tra tutti loro, e in nessun luogo un altro, un suo pari, a cui chiedere aiuto contro di loro?”
C’è pure spazio per un omaggio ironicamente postumo ad Arthur Machen, rappresentato dalla scena nella quale Adam trova la sua casa in Cornovaglia, per caso, e ne rinviene il cadavere seduto alla scrivania nell’atto di fissare su carta gli ultimi versi poetici dell’umanità: “Avevo trovato sulla scrivania di Machen un bel quaderno dalla copertina morbida, con un disegno di macchie rosse e gialle, e su questo quaderno, chiuso per molti giorni nel piccolo studio della torretta, scrissi questa relazione di ciò che è successo; e penso che continuerò a farlo, perché mi procura conforto e compagnia”. Ce n’è abbastanza, ritengo, anche per i più scettici.
Bibliografia di M.P. Shiel in italiano:
La nube purpurea, Adelphi, 1967 (ristampa, 1991)
L'isola degli inganni, Serra & Riva, 1979
Il principe Zaleski, Sellerio Editore, 1986
Xelucha e altri racconti, Fanucci, 1989
Sulla Golden Dawn vedasi: Israel Regardie, La magia della Golden Dawn, Edizioni Mediterranee, 1995
Alcuni inediti in Italia di Shiel si trovano online e in lingua inglese sulle pagine web del Project Gutenberg.
“Il Gran Maestro della Rosa” è invece una variazione su “The Cask of Amontillado”, racconto “di vendetta” di Poe. Nel racconto di Matthew Phipps Shiel i due protagonisti sono uno scrittore parvenu e un membro della “Società bene” londinese. Il primo è interessato sia alla sorella del secondo, benché sposato, sia al fatto che questi appartenga a una società “segretissima” chiamata “Gli amici della Rosa”. Crooks, lo scrittore, cerca inutilmente di saperne di più ottenendo in cambio soltanto informazioni nebulose, fin quando non riesce a sedurre la sorella dell’iniziato rovinandone la reputazione. A quel punto giungerà a vedere ciò che voleva vedere, anche se sotto un punto di vista particolarmente drammatico, come era facile immaginare. La descrizione di Smyth (l’iniziato), gentiluomo cockney (“come Charles Lamb”, precisa Shiel), abitudinario, gelido e laconico, colto nell’atto di invocare probabilmente una Entità poderosa che “si prenda cura” del seduttore Crooks, è semplicemente magistrale:
“Ma ciò che fece gelare il sangue di Crooks fu l’orrida vista delle danze e delle preghiere di Smyth, coperto dal manto, dietro il candeliere, che si comportava come uno che facesse un incantesimo, la testa rovesciata all’indietro, lo sguardo in alto, gli occhiali sul naso! Ma a quale arcano linguaggio Caldeo apparteneva quel pregare Moloch e Baal, in modo che la sua lingua sembrava belare e gemere? Crooks conosceva qualche linguaggio: ma questo non somigliava a niente di noto… E poi, quell’agitarsi, quel fandango di mani e gambe, che continuava con le preghiere, come uno stregone in trance, nel cuore della danza, nella terra delle tarantole… Un esempio di Stregoneria antica, come le orge illuminate dalle torce di Sheba e dell’Egitto…”
La scena non doveva essere lontana da ciò che realmente accadeva nella Londra contemporanea di Shiel. Riporta Israel Regardie (uno dei biografi di Crowley) che MacGregor Mathers, fondatore della setta della Golden Dawn, allo scopo di maledire i suoi nemici non esitava a vestirsi con tuniche colorate in pubblico, recarsi agli incroci e colà esibirsi in danze estatiche, scuotendo una buccina piena di fagioli rinsecchiti e invocando Seth e il Titano Tifone.
La nostra simpatia va istintivamente allo stregone Smyth piuttosto che al fedifrago Crooks, fatto perlomeno curioso se pensiamo che in vita Shiel fu più un avatar del secondo che non del primo. Risale infatti al 1914-1916 quel processo che getterà un ombra particolarmente inquietante sulla già movimentata biografia di Shiel: lo scrittore viene accusato di “indecent assault” e “carnally knowledge” ai danni della dodicenne (dodici anni e cinque mesi, a essere più precisi) Dorothy Sircar. Illustrata in questi termini nudi e crudi la vicenda appare agghiacciante, ma per comprendere meglio cosa sia successo bisogna, innanzitutto, operare quella riflessione adottata dalla biografa di Shiel, Kirsten Mac Leod, sul ruolo della donna in età Vittoriana ed Edoardiana.
Fino a tutto il 1700 in Inghilterra non era per nulla inusuale permettere l’esistenza di “spose-bambine”, e in effetti l’età in cui si considerava una donna in età da marito era dai tredici anni in su. Ciò naturalmente generava in uomini e donne una concezione diversa dell’erotismo, che adesso ci farebbe inorridire e di cui basterà citare l’esempio di Lewis Carroll, che appare attualmente il caso più scandaloso. Nel 1885, invece, fa la sua definitiva comparsa il Criminal Law Amendment Act, che sancisce la condanna dell’omosessualità e sposta l’età in cui una donna è considerata “donna a tutti gli effetti” dai tredici anni ai sedici. Le ragioni di un simile atto vanno ricercate in più direzioni: da una parte si fa strada fra le coscienze una concezione dell’infanzia come “territorio protetto”, veicolata dalle idee freudiane che prenderanno definitivamente piede a metà del ’900 (ai tempi dell’Amendment era ben conosciuto il volume Physiology of Love – La fisiologia dell’amore, 1873 – dell’italiano Paolo Mantegazza), dall’altra una certa forma di puritanesimo che vede con disgusto la “promiscuità” dimostrata sul lavoro da parte di quella middle-up-class di stampo proletario e impiegatizio, che tanto fa arricciare il naso alla “Società bene” londinese. Questa parte di critica ovviamente ignora, o finge di ignorare, il fatto che molte donne “proletarie” cominciano nel 1800 a lavorare in età molto giovane, conseguenza diretta della seconda Rivoluzione Industriale. Ciò che disgusta è appunto la promiscuità “di genere” che vede nelle fabbriche l’uomo e la donna lavorare a stretto contatto. Naturalmente una parte “illuminata” vede giustamente un allarme che concerne la sfera dell’affetto, del sesso e della crescita nel permettere alle donne di sposarsi in età così precoce.
Da questo punto di vista, la lettera che Shiel scrisse a mo’ di autodifesa non giocò a suo favore. In essa egli fa l’elogio dei costumi orientali e soprattutto indiani (la tredicenne Dorothy Sircar era infatti indiana da parte di madre); protesta la sua innocenza riguardo all’età, da lui considerata fino all’ultimo come “quella giusta” (ma va ricordato che l’accusa parla di “assault” oltre che di “carnal knowledge”, e che Shiel mai fa menzione di alcun consentimento da parte di Dorothy) e cita a esempio di “spose bambine” illustri i casi delle madri rispettivamente di Napoleone Bonaparte e di Warren Hastings. Peccato che tutte e due gli esempi in questione morirono tragicamente di parto, una delle critiche più feroci e attente vedeva infatti nelle tragiche e dolorose morti di partorienti infantili l’argomento principale per far sì che la soglia di età venisse alzata.
Shiel era inoltre un frequentatore abituale di bettole e locali notturni, considerati all’epoca come focolai di vizio e lussuria. Lo scrittore rivolgeva le sue attenzioni al sesso femminile persino per strada, con battute scherzose e frasi galanti (quelli che in lingua spagnola, alla quale Shiel si troverà sempre vicino, si chiamerebbero, “piropos”). Non solo, ma per attirare l’attenzione usciva la sera per le strade di Londra completamente addobbato di luci colorate, a mo’ di bizzarro albero di Natale (da qui l’epiteto “Mago rivestito di luci”), altra mossa poco saggia dal momento che le strade erano malviste dall’opinione comune e considerate come “istigatrici di ogni perversione”.
A questo dobbiamo inoltre aggiungere la palese infedeltà dello scrittore il quale, al tempo dei fatti concernenti Dorothy Sircar (che per inciso era la sua figliastra), si trovava impelagato in un’altra relazione, sia con un’altra donna sia con Lydia Furley, ammiratrice e, dopo il processo, sua nuova consorte. Alla fine Shiel verrà condannato a sedici mesi di reclusione da scontare “hard working”, e possiamo ben ritenere che tanto male non gli andò, se pensiamo che la condanna per omosessualità ai danni di Oscar Wilde, suo contemporaneo, costò all’autore irlandese l’equivalente di un esilio sociale.
Inutile rimarcare che l’odio di M.P. Shiel per “l’uomo inglese occidentale”, già abbastanza marcato prima del processo, raggiungerà in seguito livelli di virtuosismo impressionanti. La sua attrazione verso i costumi orientali, che Shiel insiste nell’attribuire alle sue origini in parte indiane, trova ampio spazio nella sua narrativa. Basti pensare alla scena da The Purple Cloud nella quale il protagonista, osservando lo sfacelo della morte e della distruzione universalmente presente intorno a lui in una Londra oramai spopolata e distrutta [sic], afferma: “L’incongruenza dell’abbigliamento europeo che indossavo era ormai diventata ai miei occhi quasi un insulto o una burla; così per prima cosa mi diressi verso il solo posto dove ero sicuro di trovare vestiti degni di essere indossati da un uomo, l’Ambasciata turca in Bryanston Square”. Più avanti descriverà estesamente il proprio abbigliamento: “[…] già i miei capelli scendono lungo la schiena raccolta in oliata treccia; la mia barba profumata proietta le sue due punte divergenti verso le mie costole; invece di pantaloni porto l’Izar, cioè un paio di calzoni di tessuto yeomani, simile al cotone, a strisce gialle; sul corpo porto un camicia, o quamis, di seta bianca, che mi arriva fino ai polpacci […]”. E prosege per altre quindici righe.
L’attrazione per amanti-bambine fiere nemiche della “morale comune” (abbiamo oramai compreso in che senso) si ripresenta in molte opere successive dello scrittore, ma assume risvolti inquietanti nei suoi racconti gotici. Nel racconto “La moglie di Huguenin” terrorizza sia la trasformazione finale della strega sia il fatto della “reversibilità”. Data la precoce età con la quale le fanciulle si sposavano, era prassi comune che il marito, a volte molto più anziano, facesse sia da “padre” che da “iniziatore sessuale” alla giovane sposa: in questo racconto invece avviene il contrario, in quanto è l’incantatrice greca a iniziare sessualmente il marito più giovane e a causarne la rovina, è il “Femminino” notturno e satanico di puro stampo decadentista a generare terrore e raccapriccio.
Questo misto di percezioni che vede la donna sia come “preda sessuale” sia come “maga oscura” e porta iniziatica verso un sapere oscuro, sorta di “Ianua Coeli” al contrario in senso “catabatico”, avrà incredibile fortuna, basti pensare alle innumerevoli “donne scarlatte” di quell’altro personaggio controverso, anch’egli inziato alla Golden Dawn, che fu l’immancabile Aleister Crowley.
Poco prima del processo Shiel aveva raggiunto una certa notorietà, sia con il suo “The Yellow Peril”, antesignano del più famoso Fu Manchu di Sax Rohmer, sia con una trilogia di romanzi che a buon diritto si può definire come il primo esercizio stilistico in assoluto di Weird fiction catastrofica, in ordine di apparizione Lord of the Sea, The Purple Cloud e The Last Miracle.
Su La Nube Purpurea già è stato scritto talmente tanto, e di buona qualità, che mi limiterò qui a segnalare alcuni punti notevoli, utili a chi volesse per la prima volta accostarsi a quello che oramai dovrebbe essere riconosciuto come un capolavoro assoluto della narrativa mondiale. La trama descrive sostanzialmente le vicissitudini di un novello Adamo che, tentato dalla sua Eva, causa la distruzione completa di ogni forma di vita umana sulla Terra, e così facendo diviene responsabile del suo susseguente ripopolamento. È possibile concepire qualcosa di lontanamente paragonabile a questa grandiosa forma di megalomania letteraria? Una volta giunto nuovamente in Inghilterra, a catastrofe avvenuta, il protagonista (chiamato per l’appunto “Adam”) si trova davanti a uno scenario di morte e devastazione senza pari. Un’isola, un continente, un Mondo ricoperto di cadaveri olezzanti di pesco, conseguenza delle nefaste attività della “nube” il cui odore, paradossalmente, conserva i cadaveri in una mummificazione perpetua che impedisce loro di imputridirsi.
Questa è la descrizione di ciò che Adam rinviene in una Villa abbandonata: “[…] in una piccola camera da letto semibuia dell’ala nord vidi una signora alta, con un servo, o forse un boscaiolo, abbracciati su un divano, e lei portava un diadema sulla fronte, e i loro denti senza labbra erano ancora avidamente congiunti […]”. In un altro passo, le paranoie del protagonista circondato dai cadaveri di milioni di suoi simili proiettano su di essi, in un eccesso di comica simpatia, gli stessi sentimenti che generavano in vita, come in questo passo: “[…] là dentro, c’era soltanto una vecchia signora, in una cappella a sud del coro, che non mi ispirava fiducia; e lì rimasi sdraiato ad ascoltare, perché tutto sommato non dormii quasi niente, mentre sopra la mia testa vociavano i megafoni dell’immensa tempesta”.
Una volta giunto a Londra, Adam trova rifugio nell’ufficio di un giornale, ma non riesce a dormire in quanto avverte la presenza di milioni e milioni di fantasmi, spettri di un mondo consegnato alla morte e tutti in collera con lui a causa del suo gesto (paranoia, o sensazioni più sottili?): “Quell’immagine letale di dita fredde e morte, mi sembrava vederla davanti a me, l’insipidezza delle lingue morte, il broncio delle labbra degli annegati e le spume svaporate che le orlano; finché il mio corpo non divenne madido, come bagnato dalle acque di scolo degli obitori, e dai sudori che i cadaveri traspirano, e dalla lacrima nauseante che si ferma sulle gote dei morti: perché, che può fare un unico insignificante uomo, avvolto nella sua veste di carne, davanti a moltitudini ed eserciti di disincarnati, solo tra tutti loro, e in nessun luogo un altro, un suo pari, a cui chiedere aiuto contro di loro?”
C’è pure spazio per un omaggio ironicamente postumo ad Arthur Machen, rappresentato dalla scena nella quale Adam trova la sua casa in Cornovaglia, per caso, e ne rinviene il cadavere seduto alla scrivania nell’atto di fissare su carta gli ultimi versi poetici dell’umanità: “Avevo trovato sulla scrivania di Machen un bel quaderno dalla copertina morbida, con un disegno di macchie rosse e gialle, e su questo quaderno, chiuso per molti giorni nel piccolo studio della torretta, scrissi questa relazione di ciò che è successo; e penso che continuerò a farlo, perché mi procura conforto e compagnia”. Ce n’è abbastanza, ritengo, anche per i più scettici.
Bibliografia di M.P. Shiel in italiano:
La nube purpurea, Adelphi, 1967 (ristampa, 1991)
L'isola degli inganni, Serra & Riva, 1979
Il principe Zaleski, Sellerio Editore, 1986
Xelucha e altri racconti, Fanucci, 1989
Sulla Golden Dawn vedasi: Israel Regardie, La magia della Golden Dawn, Edizioni Mediterranee, 1995
Alcuni inediti in Italia di Shiel si trovano online e in lingua inglese sulle pagine web del Project Gutenberg.
Mariano D’Anza
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