Per scrittori come Edward Lucas White (1866-1934) andrebbe tracciata una cronistoria che affonda le sue radici nella più remota antichità. Personaggio originalissimo, White appartenne alla nobile ed elitaria stirpe degli scrittori “onirici”, il cui capostipite in età moderna fu senz’altro l’irlandese Lord Dunsany. Autori che trassero l’interezza (o quasi) della loro opera da sogni, autori che vissero per tutta la vita in due mondi.
Il rapporto che l’Antichità intessé con il mondo onirico (Regno di Morfeo, fratello della Morte) fu lungo e prolifico. Nella Magna Grecia, i sacerdoti di Apollo scavarono caverne e ipogei, dove i fedeli si addormentavano cercando la saggezza nei sogni rivelatori inviati dal Dio, conosciuto sotto l’appellativo di “Pholarchos” ovvero signore (“Archos”) del rifugio (“Pholèos”), dove gli adoratori si nascondevano come animali, inseguendo il sonno sacro. Alla Pizia di Delfi occorreva una notte di sonno dopo aver inalato i fumi sacri per ottenere il responso profetico, e il suo era un vero e proprio viaggio, non dissimile da quelli effettuati dagli sciamani uralo-altaici; ma la cosa non deve né stupire né risultare macchinosa. La credenza diffusa era che i sogni realmente profetici fossero tali in quanto l’onironauta, che in Magna Grecia veniva chiamato “Iatromante”, doveva visitare lo stesso regno dei morti, pertanto, come rileva lo studioso Peter Kingsley è ben vero che “Scendere nel regno dei morti quando si muore è una cosa, farlo quando si è ancora in vita, preparati e consapevoli, e giovarsi dell’esperienza è tutt’altra”.
Per farlo ci volevano dei “professionisti”, persone capaci di passare da un mondo all’altro senza morire, sciamani, profeti, “Iatromanti”. Siamo ancora convinti, da bravi figli di Cartesio, che la Civiltà occidentale sia frutto della razionalità, ma alcuni ritrovamenti archeologici avvenuti in data recente gettano una luce tutt’altro che “razionale” sulla Grecia arcaica, “culla” della nostra cultura umanistica e scientifica. Il presocratico Parmenide, citato da Platone e da lui considerato “Padre” della filosofia, ci ha lasciato un solo poema incompleto il cui incipit si apre su di un viaggio effettuato dal filosofo aldilà delle porte del giorno e della notte nella casa vicina all’ingresso del Tartaro, la cui signora e Dea ha nome Persefone, colei che lo ha condotto “sulla strada della divinità”. Parmenide è stato il fondatore di quello sfaccettato e variegato concetto che in Occidente prende il nome di “Scienza”, ma la sua saggezza affondava nei sogni e nelle visioni. Il mondo romano non fu da meno di quello greco nel riconoscere i rapporti intercorrenti fra sonno, visione e “guarigione” divina, quando necessaria.
Tanto è vero che l’ipocondriaco retore romano Elio Aristide (IV sec. A.C.), narrò con dovizia di particolari le sue vicissitudini e tribolazioni da Roma al Santuario di Delfi, allo scopo di implorare dal Dio il sogno profetico che lo avrebbe liberato dai suoi malesseri di ordine psicologico (Aristide fu forse il primo schizofrenico in letteratura che annoveri la storia occidentale). Per quanto invece riguarda Apuleio, le Rivelazioni avute in sogno, nel suo bellissimo romanzo Le Metamorfosi, o l’asino d’oro, non si contano. Il Dio Eros si manifesta in sogno alla bella Psiche per unirsi a lei mentre Lucio, il protagonista, viene tramutato in asino al termine di un rito magico che ha sapore di incubo, per poi venire liberato da un altro sogno inviato da Iside, Dea notturna e lunare. Il messaggio antico era sempre lo stesso, il sogno è collegato alla sfera del sacro, gli Dèi inviano i sogni. Questo corpus di credenze o di verità (è ben lecito credere che la verità si componga di molteplici e vari aspetti, discordanti forse, ma non per questo meno “veri”), si è sempre riaffermato attraverso i secoli e le ere.
La Rivoluzione francese, enciclopedica, razionale e didascalica, dette la stura al Romanticismo tedesco, fatto di paesaggi onirici, incubi medievali e ominose profezie, mentre l’Industrializzazione dell’Inghilterra colonialista e banchiera produsse, di riflesso, narratori onirici del calibro di Lord Dunsany. Ma mentre quest’ultimo fu estremamente prossimo alle cosmogonie di un Parmenide di Elea, soprattutto con il suo ciclo The Gods of Pegana, Edward Lucas White fu piuttosto vicino alle ansie di Elio Aristide. Si sa che ogni scrittore “onirico” sceglie (o viene scelto) da un suo predecessore, il quale, spesso, agisce sulla sua opera come un vero e proprio “Nume tutelare”. H.P. Lovecraft rimase segnato dall’opera di Dunsany, Elio Aristide concentrò la sua ossessione su Asclepio, dio dei sogni e della medicina, mentre White cadde sotto l’egida di Edgar Allan Poe.
Ho citato Aristide non a sproposito, come vedremo, in quanto la natura della sua ossessione per la divinità era estremamente simile a quella che White nutrì per Poe. White restò ossessionato dal padre della letteratura gotica moderna, talmente tanto da essere costretto a disfarsi della sua opera – invano, vedremo – in quanto puntualmente “qualcosa” lo costringeva sempre a rileggerlo.
E oggi è concessa a noi l’occasione, forse unica più che rara, di rileggere White, o meglio di leggere (perché la sua opera è quasi totalmente inedita in italiano) le migliori fantasie oniriche dello scrittore, raccolte in una recente e bella raccolta pubblicata dalla Dagon Press in una preziosa edizione a tiratura limitata. Il libro, Lukundoo e Altre Storie, raccoglie tutte le migliori storie horror, fantastiche e “strane” di White, tradotte per la prima volta nel nostro paese a cura dello specialista Bernardo Cicchetti. Prenderemo quindi in esame questa edizione per analizzare il percorso artistico e onirico dello scrittore.
Dotato di un solido senso della struttura e della trama, Edward Lucas White seguì studi classici ed esercitò l’ufficio di professore di Lettere a Baltimora, non tralasciando di mettere le sue notevoli doti di scrittore al servizio di romanzi storici di indubbia validità. Come emerge dalla sua biografia, a parte i sogni due sono i fattori chiave per comprendere la narrativa gotica di White: il pessimismo e l’amore per il passato e le vittime della storia. Il pessimismo di White non assurse mai alle vette cosmogoniche del suo ammiratore Lovecraft, eppure fu vissuto con altrettanta serietà, con consequenzialità stoica, diremmo quasi alla Seneca. White amò una sola donna per tutta la vita, sua moglie, e fu incapace di sopravvivere alla perdita, ma potremmo quasi dire che, per una personalità rarefatta e sibillina come la sua, ciò costituì null’altro se non un pretesto, benchè importante. L’altro, l’amore per il passato, fu una conseguenza ineluttabile del primo.
David Punter (cfr. la sua Storia della Letteratura del Terrore) segnalò già che caratteristica imprescindibile del gotico è “l’amore per il barbarico”, l’attenzione morbosa per gli aspetti più selvaggi, crudeli ed esotici del mondo, componente letteraria che è poi uno specchio attraverso il quale l’uomo dell’Occidente civilizzato guarda il mondo e lo re-interpreta secondo le proprie categorie, componente che è presente in larga parte in White, ma alla quale egli aggiunge un’ossessione tutta sua, che nessun altro scrittore fantastico trattò meglio di lui se non forse Robert E. Howard: l’ossessione per il “Leader”, il “capo naturale”, l’uomo che ricerca il potere e la gloria e inevitabilmente (fatalmente) ne rimane schiacciato.
“Lukundoo”, il suo racconto più “quotato” e antologizzato, ruota tutto intorno a questo fattore. White insiste lungamente sulle qualità di leader di Ralph Stone, sul suo successo nella vita, le sue prodigiose intuizioni, la soggezione che egli esercita grazie al suo carisma, doti soprannaturali, qualità eccezionali che, se intese nel senso della “Hybris” greca (il passare il limite consentito agli uomini per entrare nella proibita sfera degli Dèi) giustificano ampiamente la terribile, agghiacciante punizione. Stone ha sfidato un possente sciamano, appartenente a una tribù africana semisconosciuta, e ne pagherà tutte le conseguenze.
È stato detto che “Lukundoo” è il racconto di White più riuscito, il più “impattante” a livello di scrittura, ma bisognerebbe leggere accuratamente anche gli altri prima di prodursi in giudizi definitivi. Il racconto intitolato “Il Muso” (“The Snout”) è scritto con una tecnica ironica e nebulosa, che ricorda il Poe di “Re Peste”, in quanto tutto il racconto (un lungo e particolareggiato incubo) si può leggere tranquillamente come un’allegoria visionaria del Potere. Un gruppo di ladri riesce a introdursi nella fantastica abitazione di un eccentrico e ricchissimo personaggio per trovarvi… L’Orrore.
L’intera abitazione è disseminata di opere d’arte eseguite dal proprietario, opere d’arte che suggeriscono orribili commistioni fra l’umano e il bestiale: “… Erano figure umane, ma nessuna aveva una testa umana. Le teste erano invariabilmente quelle di uccelli, di animali o pesci, generalmente di animali, alcune di animali comuni, molti di creature delle quali avevo visto illustrazioni o sentito parlare; alcuni erano creature immaginarie come draghi e grifoni, più della metà delle teste appartenevano ad animali di cui non sapevo nulla o che erano stati inventati dal pittore”.
All’inizio i ladri colgono solo descrizioni nebulose da parte della servitù riguardo le abitudini di questo bizzarro personaggio, che dipinge come un Fuchs o un Beksinski, fatto che contribuisce ad aumentare la grottesca aura di mistero che permea la storia: “Di lunghi sussurri inaudibili ho colto solo frammenti”.
Una volta: “Oh non vuole nessuno vicino a lui. Lo senti singhiozzare come un bambino. Quando sta peggio lo senti, di notte, ululare e strillare come un’anima persa”. E ancora: “La pelle liscia di un bimbo e non più pelosa della mia o della tua”. E ancora oltre: “Violino? Nessun violinista può batterlo. L’ho ascoltato per ore. Ti fa pensare ai tuoi peccati. Poi cambia e ricordi il tuo primo amore, e le piogge di primavera e i fiori, e quando eri bambino sulle ginocchia di tua madre. Ti strappa le lacrime dal cuore”.
L’esplorazione della casa da parte dei tre ladri segue passo passo il ritmo della fiaba nera; scale intrecciate con altre scale, porte che rimandano ad altre porte, robusti servitori incrociano la loro strada prima di essere brutalmente liquidati, servitori vestiti con uniformi di altri tempi, si ritrovano damigiane ripiene di strani liquidi, imbottigliate esclusivamente per il misterioso padrone… fino alla rivelazione finale, assurda come le premesse. Nonostante il tema macabro e bizzarro, il professore di storia antica fa capolino in più di una pagina. Vi è più di una ironica strizzata d’occhio ai bassi e feroci dominatori del passato (e forse del presente), da Cesare a Napoleone, da Gengis Khan ad Attila l’Unno, mentre nel bizzarro proprietario della casa occhieggiano già i semiumani pitti di R.E. Howard, mescolanza di ferinità barbarica e decadente civilizzazione.
Ma non è l’unico racconto che White dedica a questo tema. Ne “L’Isola Stregata” (“Sorcery Island”) lo stesso tema del leader pazzo o semiumano ricorre, lasciando immutata la rarefatta atmosfera di mistero, anche se stavolta l’infermità dell’antagonista è di tipo mentale più che fisico. In tutti questi racconti, l’ombra di E.A. Poe è pressoché tangibile, vi si ritrovano gli stessi emblematici personaggi di “The Fall of the House of Usher”, ma White sembra scomporli in giochi di prestigio, ricomporli in ambienti esotici, mescolarli con riflessioni sulla storia e sulla natura del potere, imbizzarrirli con elementi magici, soprannaturali, nebulosi come rivelazioni oniriche.
Il protagonista, nell’atto di sorvolare un arcipelago equatoriale, accusa un’avaria al biplano e atterra fortunosamente in un grosso isolotto. Scopre ben presto che questo isolotto è stato adibito, da un suo vecchio compagno di studi di nome Pembroke, a mò di “Rifugio” per una piccola ed estremamente selezionata cerchia di famosi musicisti e artisti americani ed Europei, artisti contrattati profumatamente dal bizzarro anfitrione allo scopo di trovare un ipotetico “suono perfetto”. L’ospite rimane stupito dalla modernità delle strutture dell’isola, ma si rende conto ben presto che il disegno di Pembroke è ben più agghiacciante di quanto sembri all’inizio, e che quel tipo di soggiorno è ben più “forzato” di quanto l’apparente, fredda ospitalità di Pembroke lasci intendere.
Occulte corrispondenze opprimono l’osservatore, incarnate nella figura di “mamma Bevan”, una anziana fattucchiera gallese che intesse intorno alle stralunato aviatore una rete fatta di cantilene magiche e cerchi tracciati nella sabbia, mentre un fastidioso branco di oche, che la strega porta sempre con sé, suscita nel protagonista sentimenti di furia irrazionale. La modernità si mescola alla magia nera medievale, la sofisticazione della civiltà e della ricchezza si sposa al soprannaturale in un connubio da incubo che dissemina inquietanti indizi, indizi che minacciano la psiche del protagonista, mentre Pembroke, taciturno e letale, occupa la sua nicchia fra gli eroi “naturali” del romanzo gotico, dal Frankenstein della Shelley al Melmoth di Maturin.
Inoltre, nell’Isola abitata da bizzarri personaggi sospesi in un tempo allegorico a metà fra la modernità e la superstizione ancestrale, l’appassionato riconoscerà la comunità di The Wicker Man, film inglese degli anni 70 dove il formidabile barone, interpretato da Christopher Lee, rivolge ben più di una strizzata d’occhio al sibillino Pembroke. Come nei sogni, White pare suggerire che esista un fiabesco connubio fra l’oca maschio, capobranco del chiassoso seguito di mamma Bevan e la vita stessa di Pembroke, connubio che il protagonista non esiterà a sfruttare a suo vantaggio, riguadagnando la propria libertà a bordo di un favoloso “biplano Visconti” fornito da un irato Pembroke, biplano di cui una benevola nota avverte: “Non si trovano tracce di un aeroplano del genere. Che sia una delle invenzioni oniriche di White?”
Il racconto “La Spada di Floki” (“Floki’s Blade”) pare una accurata e dotta ricostruzione di una saga nordica, piena di colpi di scena, azione e magia e sicuramente lo è, ma prima di tutto è una rielaborazione in chiave norrena del “Metzengerstein” di Poe. Vi si ritrovano tutti gli elementi chiave; due famiglie in lotta perpetua, una aggressiva e apparentemente trionfante e un’altra apparentemente più debole ma, alla fine, vittoriosa. L’attacco notturno per fuoco e per saccheggio permane in tutta la sua potenza, mentre l’elemento della vendetta soprannaturale, che in Poe è un cavallo, in White è rappresentato da una spada; manca solo la figura del signorotto brutale, che da White è rovesciata nel positivo Floki. La scena di battaglia finale, con conseguente smascheramento della traditrice è un puro e semplice colpo di scena alla Poe, ma viene amalgamato così bene alla materia da saga che quasi non si nota la differenza, altro saggio della maestria di White.
“La Cintura” (“The Pig-skin Belt”) è un racconto che avrebbe fatto sicuramente la felicità di R.E. Howard. Vi si narrano le laboriose vicissitudini di un tipico gentiluomo del sud nel liberarsi della maligna influenza di un potente mago cinese esperto di metamorfosi. Ovviamente tutta l’azione si svolge su suolo americano e vi si respirano le classiche atmosfere da provincia del sud, col suo razzismo velato e compiacente, i paesaggi bucolici, il tipico senso di cavalleria esercitato da gentiluomini che, a guerra civile ultimata, non pensano ad altro se non a consolidare le proprie fortune nonché impalmare qualche bella ragazza di buona famiglia. In tali ambienti è nata gran parte della buona narrativa “Horror” e “Weird” e questo racconto in particolare richiama bonariamente alla memoria più di qualche ottima narrazione del cinico Ambrose Bierce, con le sue storie di vendette soprannaturali condite con qualche battuta ironica sulla “varia umanità” di provincia. È uno dei pochi racconti in cui la figura del capo la scampa, non riservandosi però di trattare i suoi sottoposti di colore esattamente come Stone trattava i suoi portatori africani, nella più pura tradizione colonialista del sud.
Menzione a parte meritano i racconti puramente “sinistri” di White, riguardo ai quali occorrerà interrogare l’autore in prima persona: “La Casa dell’Incubo l’ho scritto proprio come l’ho sognato, parola per parola, dal momento che è stato proprio come se leggessi il racconto stampato, e come se tutto mi accadesse in tempi arcaici, quando le automobili avevano la guida a destra e la leva del cambio all’esterno della carrozzeria. Il sogno ebbe l’insolita peculiarità di farmi svegliare dopo il secondo incubo, così scosso che mia moglie dovette calmarmi e rassicurarmi come si fa con un bambino spaventato; poi tornai a dormire e terminai il sogno! E la sua conclusione mi giunse come una totale sorpresa, scioccante come il culmine di Il Muso o di Amina”. Sarà semplice comprendere che chiunque sogni cose come Il Puzzle, Il Messaggio sulla Lavagna o La Cintura debba farne dei racconti per potersene completamente liberare”.
E “La Casa dell’Incubo” è davvero qualcosa di cui uno scrittore dovrebbe liberarsi… se lo avesse sullo stomaco. Nella figura del misterioso ragazzo dal labbro leporino ci sono in potenza tutti i degenerati abitanti della provincia del New England di H.P.L., mentre l’orribile fantasma della scrofa mangiauomini è chiaro lascito degli incubi porcini di W.H. Hodgson. “Amina” è invece un’avventura alla Mille e una notte. C’è una spedizione nel deserto iraniano, il solito leader occidentale supercivilizzato ma imbevuto di superstizioni locali, conoscenza che usa per dominare gli autoctoni, ennesimo “Avatar” dello Stone di “Lukundoo”, il quale, come ebbe a dire China Miéville, è la più bella immagine del “senso di colpa colonialista” che sia mai stata rappresentata in letteratura fantastica.
Nel “popolo libero” dei Ghoul e degli Efreet del deserto fanno capolino le mostruose creature pre-celtiche di Arthur Machen, mentre la semiferina Amina che dà il titolo al racconto è una perfetta immagine dell’erotismo femminile “nero” e selvaggio, che stringe la mano sia ad “Alraune” di Hans Einz Ewers sia alla Helen Vaughan de “Il Gran Dio Pan”. Ne “Il Canto delle Sirene” (“The Song of the Sirens”) White si cimenta invece con il genere marinaresco rivelando l’erudizione e la cura che sono propri del neofita. La cura maniacale che dedica a tratteggiare le mansioni marinaresche di un bastimento americano, nonché la vividezza con la quale descrive i personaggi della ciurma, dal chiassoso marinaio Burke al semidemente capitano Benson, senza contare il misterioso Wilson, ricorda le indimenticabili narrazioni di Lord Dunsany, da “Un racconto di terra e di mare” a “Povero vecchio Bill”, mentre le sirene di White assomigliano alle deità con cui il suo collega oniromante irlandese popolò i suoi sogni, assolutamente originali, distaccate e lontane da qualsiasi immagine preconcetta le riguardi, terribili e implacabili nel loro mistero.
Racconti come “Disvola” e “La Pantera Maculata” appartengono invece al genere storico in cui White eccelleva, e sono state giustamente incluse nell’antologia non solo in quanto tutte frutto di sogni più o meno vividi ma anche in quanto il soprannaturale vi aleggia in maniera estremamente sottile. Nel secondo viene ricostruita con amore la vita civile nella Roma di Commodo e il “perturbante” viene incarnato da una bestia feroce che pare dotata di una vitalità inestinguibile e di una maligna intelligenza. Vi si riconoscono i temi della nostalgia e del riscatto sociale, ma più che altro dell’’insoddisfazione di vivere all’interno di un sistema politico sul perenne orlo del collasso (quello della Roma tardo-imperiale) incarnato nel desiderio di libertà perennemente frustrato della bestia che diviene ben presto cieca e brutale ferocia. Il primo, proveniente da un sogno “in lingua italiana” dell’autore, è invece una storia tutta rinascimentale di vendetta agghiacciante e definitiva, variazione palese, anche se originale, sul tema di “Hop Frog” di Edgar Allan Poe.
Menzione a parte meriterà il racconto “Sesta”, un incubo “vegetale” che è un’apparente variazione sul già citato tema de “L’Isola Stregata”. C’è una canaglia iniziale alla Jean Ray, campeggia ancora una volta la componente “coloniale”, con più di una strizzata d’occhio all’Allan Quatermain di H. Rider Haggard, ma tutto l’esotismo del racconto appare distorto e allucinante, come un dipinto eseguito a colori alieni, e la rivelazione dell’orrore finale lascia un sapore amarissimo in bocca, è come una scudisciata, un taglio netto con la sanità mentale che ha l’aspetto delle feroci rivelazioni offerte nei sogni e non ha nulla da invidiare agli orrori metamorfici di Hodgson e Lovecraft.
In definitiva il volume Lukundoo e Altre Storie di Edward Lucas White, ennesima e più che meritevole fatica dell’editrice Dagon Press, è un vero gioiello che merita di essere esibito nella biblioteca di qualsiasi appassionato del fantastico. Le ragioni del suo oramai essere considerato un autore “di nicchia” stanno forse nel suo “unpolitically-correct”. In White non esiste il termine “di colore”, ma “negro”, mentre i cinesi sono tutti servili, inquietanti e sfoggiano codini stile “yellow peril made in Sax Rohmer”, ma si dimentica sempre che è proprio da quell’humus razzista (razzismo che peraltro White non condivideva se non per esigenze letterarie dell’epoca) che nasce buona parte della migliore letteratura “nera”. L’orrore per il “diverso” che diventa terrore per l’ignoto, poi rimorso, poi “ossessione” per il rimorso.
Non va inoltre dimenticato che White era affascinato, come ogni scrittore del Fantastico, proprio da quell’esotico che giganteggia in ogni suo racconto e dalla componente di ancestralità che lo circonda. Da non ignorare inoltre, che, a dispetto della terminologia, il Nostro ha scritto alcune fra le più belle pagine sull’anticolonialismo mai scritte, con la sola eccezione di Conrad e di Kipling, di cui pure White fu acceso ammiratore.
Tradotto mirabilmente dallo stesso curatore Bernardo Cicchetti, il volume contiene tre fra le più importanti raccolte di racconti Weird di Edward Lucas White seguendone fedelmente le edizioni americane, constando rispettivamente in Lukundoo and Other Stories (1927), The Song of the Sirens (1919) e Sesta and Other Strange Stories (ed. americana del 2001). Il libro costituisce quindi una assoluta “ghiottoneria”, in quanto è l’unica traduzione italiana finora esistente, oltre che la più completa. Lo arricchiscono il saggio “Henry Lucas White: mercante di sogni” di Andrea Jarok, nonché una dotta postfazione di Cicchetti, e lo impreziosiscono illustrazioni di Williy Pogany, Jack Gaughan, Franklin Booth, Lee Brown Coye, Virgil Finlay, Sidney Sime, per citarne solo alcuni.
Il rapporto che l’Antichità intessé con il mondo onirico (Regno di Morfeo, fratello della Morte) fu lungo e prolifico. Nella Magna Grecia, i sacerdoti di Apollo scavarono caverne e ipogei, dove i fedeli si addormentavano cercando la saggezza nei sogni rivelatori inviati dal Dio, conosciuto sotto l’appellativo di “Pholarchos” ovvero signore (“Archos”) del rifugio (“Pholèos”), dove gli adoratori si nascondevano come animali, inseguendo il sonno sacro. Alla Pizia di Delfi occorreva una notte di sonno dopo aver inalato i fumi sacri per ottenere il responso profetico, e il suo era un vero e proprio viaggio, non dissimile da quelli effettuati dagli sciamani uralo-altaici; ma la cosa non deve né stupire né risultare macchinosa. La credenza diffusa era che i sogni realmente profetici fossero tali in quanto l’onironauta, che in Magna Grecia veniva chiamato “Iatromante”, doveva visitare lo stesso regno dei morti, pertanto, come rileva lo studioso Peter Kingsley è ben vero che “Scendere nel regno dei morti quando si muore è una cosa, farlo quando si è ancora in vita, preparati e consapevoli, e giovarsi dell’esperienza è tutt’altra”.
Per farlo ci volevano dei “professionisti”, persone capaci di passare da un mondo all’altro senza morire, sciamani, profeti, “Iatromanti”. Siamo ancora convinti, da bravi figli di Cartesio, che la Civiltà occidentale sia frutto della razionalità, ma alcuni ritrovamenti archeologici avvenuti in data recente gettano una luce tutt’altro che “razionale” sulla Grecia arcaica, “culla” della nostra cultura umanistica e scientifica. Il presocratico Parmenide, citato da Platone e da lui considerato “Padre” della filosofia, ci ha lasciato un solo poema incompleto il cui incipit si apre su di un viaggio effettuato dal filosofo aldilà delle porte del giorno e della notte nella casa vicina all’ingresso del Tartaro, la cui signora e Dea ha nome Persefone, colei che lo ha condotto “sulla strada della divinità”. Parmenide è stato il fondatore di quello sfaccettato e variegato concetto che in Occidente prende il nome di “Scienza”, ma la sua saggezza affondava nei sogni e nelle visioni. Il mondo romano non fu da meno di quello greco nel riconoscere i rapporti intercorrenti fra sonno, visione e “guarigione” divina, quando necessaria.
Tanto è vero che l’ipocondriaco retore romano Elio Aristide (IV sec. A.C.), narrò con dovizia di particolari le sue vicissitudini e tribolazioni da Roma al Santuario di Delfi, allo scopo di implorare dal Dio il sogno profetico che lo avrebbe liberato dai suoi malesseri di ordine psicologico (Aristide fu forse il primo schizofrenico in letteratura che annoveri la storia occidentale). Per quanto invece riguarda Apuleio, le Rivelazioni avute in sogno, nel suo bellissimo romanzo Le Metamorfosi, o l’asino d’oro, non si contano. Il Dio Eros si manifesta in sogno alla bella Psiche per unirsi a lei mentre Lucio, il protagonista, viene tramutato in asino al termine di un rito magico che ha sapore di incubo, per poi venire liberato da un altro sogno inviato da Iside, Dea notturna e lunare. Il messaggio antico era sempre lo stesso, il sogno è collegato alla sfera del sacro, gli Dèi inviano i sogni. Questo corpus di credenze o di verità (è ben lecito credere che la verità si componga di molteplici e vari aspetti, discordanti forse, ma non per questo meno “veri”), si è sempre riaffermato attraverso i secoli e le ere.
La Rivoluzione francese, enciclopedica, razionale e didascalica, dette la stura al Romanticismo tedesco, fatto di paesaggi onirici, incubi medievali e ominose profezie, mentre l’Industrializzazione dell’Inghilterra colonialista e banchiera produsse, di riflesso, narratori onirici del calibro di Lord Dunsany. Ma mentre quest’ultimo fu estremamente prossimo alle cosmogonie di un Parmenide di Elea, soprattutto con il suo ciclo The Gods of Pegana, Edward Lucas White fu piuttosto vicino alle ansie di Elio Aristide. Si sa che ogni scrittore “onirico” sceglie (o viene scelto) da un suo predecessore, il quale, spesso, agisce sulla sua opera come un vero e proprio “Nume tutelare”. H.P. Lovecraft rimase segnato dall’opera di Dunsany, Elio Aristide concentrò la sua ossessione su Asclepio, dio dei sogni e della medicina, mentre White cadde sotto l’egida di Edgar Allan Poe.
Ho citato Aristide non a sproposito, come vedremo, in quanto la natura della sua ossessione per la divinità era estremamente simile a quella che White nutrì per Poe. White restò ossessionato dal padre della letteratura gotica moderna, talmente tanto da essere costretto a disfarsi della sua opera – invano, vedremo – in quanto puntualmente “qualcosa” lo costringeva sempre a rileggerlo.
E oggi è concessa a noi l’occasione, forse unica più che rara, di rileggere White, o meglio di leggere (perché la sua opera è quasi totalmente inedita in italiano) le migliori fantasie oniriche dello scrittore, raccolte in una recente e bella raccolta pubblicata dalla Dagon Press in una preziosa edizione a tiratura limitata. Il libro, Lukundoo e Altre Storie, raccoglie tutte le migliori storie horror, fantastiche e “strane” di White, tradotte per la prima volta nel nostro paese a cura dello specialista Bernardo Cicchetti. Prenderemo quindi in esame questa edizione per analizzare il percorso artistico e onirico dello scrittore.
Dotato di un solido senso della struttura e della trama, Edward Lucas White seguì studi classici ed esercitò l’ufficio di professore di Lettere a Baltimora, non tralasciando di mettere le sue notevoli doti di scrittore al servizio di romanzi storici di indubbia validità. Come emerge dalla sua biografia, a parte i sogni due sono i fattori chiave per comprendere la narrativa gotica di White: il pessimismo e l’amore per il passato e le vittime della storia. Il pessimismo di White non assurse mai alle vette cosmogoniche del suo ammiratore Lovecraft, eppure fu vissuto con altrettanta serietà, con consequenzialità stoica, diremmo quasi alla Seneca. White amò una sola donna per tutta la vita, sua moglie, e fu incapace di sopravvivere alla perdita, ma potremmo quasi dire che, per una personalità rarefatta e sibillina come la sua, ciò costituì null’altro se non un pretesto, benchè importante. L’altro, l’amore per il passato, fu una conseguenza ineluttabile del primo.
David Punter (cfr. la sua Storia della Letteratura del Terrore) segnalò già che caratteristica imprescindibile del gotico è “l’amore per il barbarico”, l’attenzione morbosa per gli aspetti più selvaggi, crudeli ed esotici del mondo, componente letteraria che è poi uno specchio attraverso il quale l’uomo dell’Occidente civilizzato guarda il mondo e lo re-interpreta secondo le proprie categorie, componente che è presente in larga parte in White, ma alla quale egli aggiunge un’ossessione tutta sua, che nessun altro scrittore fantastico trattò meglio di lui se non forse Robert E. Howard: l’ossessione per il “Leader”, il “capo naturale”, l’uomo che ricerca il potere e la gloria e inevitabilmente (fatalmente) ne rimane schiacciato.
“Lukundoo”, il suo racconto più “quotato” e antologizzato, ruota tutto intorno a questo fattore. White insiste lungamente sulle qualità di leader di Ralph Stone, sul suo successo nella vita, le sue prodigiose intuizioni, la soggezione che egli esercita grazie al suo carisma, doti soprannaturali, qualità eccezionali che, se intese nel senso della “Hybris” greca (il passare il limite consentito agli uomini per entrare nella proibita sfera degli Dèi) giustificano ampiamente la terribile, agghiacciante punizione. Stone ha sfidato un possente sciamano, appartenente a una tribù africana semisconosciuta, e ne pagherà tutte le conseguenze.
È stato detto che “Lukundoo” è il racconto di White più riuscito, il più “impattante” a livello di scrittura, ma bisognerebbe leggere accuratamente anche gli altri prima di prodursi in giudizi definitivi. Il racconto intitolato “Il Muso” (“The Snout”) è scritto con una tecnica ironica e nebulosa, che ricorda il Poe di “Re Peste”, in quanto tutto il racconto (un lungo e particolareggiato incubo) si può leggere tranquillamente come un’allegoria visionaria del Potere. Un gruppo di ladri riesce a introdursi nella fantastica abitazione di un eccentrico e ricchissimo personaggio per trovarvi… L’Orrore.
L’intera abitazione è disseminata di opere d’arte eseguite dal proprietario, opere d’arte che suggeriscono orribili commistioni fra l’umano e il bestiale: “… Erano figure umane, ma nessuna aveva una testa umana. Le teste erano invariabilmente quelle di uccelli, di animali o pesci, generalmente di animali, alcune di animali comuni, molti di creature delle quali avevo visto illustrazioni o sentito parlare; alcuni erano creature immaginarie come draghi e grifoni, più della metà delle teste appartenevano ad animali di cui non sapevo nulla o che erano stati inventati dal pittore”.
All’inizio i ladri colgono solo descrizioni nebulose da parte della servitù riguardo le abitudini di questo bizzarro personaggio, che dipinge come un Fuchs o un Beksinski, fatto che contribuisce ad aumentare la grottesca aura di mistero che permea la storia: “Di lunghi sussurri inaudibili ho colto solo frammenti”.
Una volta: “Oh non vuole nessuno vicino a lui. Lo senti singhiozzare come un bambino. Quando sta peggio lo senti, di notte, ululare e strillare come un’anima persa”. E ancora: “La pelle liscia di un bimbo e non più pelosa della mia o della tua”. E ancora oltre: “Violino? Nessun violinista può batterlo. L’ho ascoltato per ore. Ti fa pensare ai tuoi peccati. Poi cambia e ricordi il tuo primo amore, e le piogge di primavera e i fiori, e quando eri bambino sulle ginocchia di tua madre. Ti strappa le lacrime dal cuore”.
L’esplorazione della casa da parte dei tre ladri segue passo passo il ritmo della fiaba nera; scale intrecciate con altre scale, porte che rimandano ad altre porte, robusti servitori incrociano la loro strada prima di essere brutalmente liquidati, servitori vestiti con uniformi di altri tempi, si ritrovano damigiane ripiene di strani liquidi, imbottigliate esclusivamente per il misterioso padrone… fino alla rivelazione finale, assurda come le premesse. Nonostante il tema macabro e bizzarro, il professore di storia antica fa capolino in più di una pagina. Vi è più di una ironica strizzata d’occhio ai bassi e feroci dominatori del passato (e forse del presente), da Cesare a Napoleone, da Gengis Khan ad Attila l’Unno, mentre nel bizzarro proprietario della casa occhieggiano già i semiumani pitti di R.E. Howard, mescolanza di ferinità barbarica e decadente civilizzazione.
Ma non è l’unico racconto che White dedica a questo tema. Ne “L’Isola Stregata” (“Sorcery Island”) lo stesso tema del leader pazzo o semiumano ricorre, lasciando immutata la rarefatta atmosfera di mistero, anche se stavolta l’infermità dell’antagonista è di tipo mentale più che fisico. In tutti questi racconti, l’ombra di E.A. Poe è pressoché tangibile, vi si ritrovano gli stessi emblematici personaggi di “The Fall of the House of Usher”, ma White sembra scomporli in giochi di prestigio, ricomporli in ambienti esotici, mescolarli con riflessioni sulla storia e sulla natura del potere, imbizzarrirli con elementi magici, soprannaturali, nebulosi come rivelazioni oniriche.
Il protagonista, nell’atto di sorvolare un arcipelago equatoriale, accusa un’avaria al biplano e atterra fortunosamente in un grosso isolotto. Scopre ben presto che questo isolotto è stato adibito, da un suo vecchio compagno di studi di nome Pembroke, a mò di “Rifugio” per una piccola ed estremamente selezionata cerchia di famosi musicisti e artisti americani ed Europei, artisti contrattati profumatamente dal bizzarro anfitrione allo scopo di trovare un ipotetico “suono perfetto”. L’ospite rimane stupito dalla modernità delle strutture dell’isola, ma si rende conto ben presto che il disegno di Pembroke è ben più agghiacciante di quanto sembri all’inizio, e che quel tipo di soggiorno è ben più “forzato” di quanto l’apparente, fredda ospitalità di Pembroke lasci intendere.
Occulte corrispondenze opprimono l’osservatore, incarnate nella figura di “mamma Bevan”, una anziana fattucchiera gallese che intesse intorno alle stralunato aviatore una rete fatta di cantilene magiche e cerchi tracciati nella sabbia, mentre un fastidioso branco di oche, che la strega porta sempre con sé, suscita nel protagonista sentimenti di furia irrazionale. La modernità si mescola alla magia nera medievale, la sofisticazione della civiltà e della ricchezza si sposa al soprannaturale in un connubio da incubo che dissemina inquietanti indizi, indizi che minacciano la psiche del protagonista, mentre Pembroke, taciturno e letale, occupa la sua nicchia fra gli eroi “naturali” del romanzo gotico, dal Frankenstein della Shelley al Melmoth di Maturin.
Inoltre, nell’Isola abitata da bizzarri personaggi sospesi in un tempo allegorico a metà fra la modernità e la superstizione ancestrale, l’appassionato riconoscerà la comunità di The Wicker Man, film inglese degli anni 70 dove il formidabile barone, interpretato da Christopher Lee, rivolge ben più di una strizzata d’occhio al sibillino Pembroke. Come nei sogni, White pare suggerire che esista un fiabesco connubio fra l’oca maschio, capobranco del chiassoso seguito di mamma Bevan e la vita stessa di Pembroke, connubio che il protagonista non esiterà a sfruttare a suo vantaggio, riguadagnando la propria libertà a bordo di un favoloso “biplano Visconti” fornito da un irato Pembroke, biplano di cui una benevola nota avverte: “Non si trovano tracce di un aeroplano del genere. Che sia una delle invenzioni oniriche di White?”
Il racconto “La Spada di Floki” (“Floki’s Blade”) pare una accurata e dotta ricostruzione di una saga nordica, piena di colpi di scena, azione e magia e sicuramente lo è, ma prima di tutto è una rielaborazione in chiave norrena del “Metzengerstein” di Poe. Vi si ritrovano tutti gli elementi chiave; due famiglie in lotta perpetua, una aggressiva e apparentemente trionfante e un’altra apparentemente più debole ma, alla fine, vittoriosa. L’attacco notturno per fuoco e per saccheggio permane in tutta la sua potenza, mentre l’elemento della vendetta soprannaturale, che in Poe è un cavallo, in White è rappresentato da una spada; manca solo la figura del signorotto brutale, che da White è rovesciata nel positivo Floki. La scena di battaglia finale, con conseguente smascheramento della traditrice è un puro e semplice colpo di scena alla Poe, ma viene amalgamato così bene alla materia da saga che quasi non si nota la differenza, altro saggio della maestria di White.
“La Cintura” (“The Pig-skin Belt”) è un racconto che avrebbe fatto sicuramente la felicità di R.E. Howard. Vi si narrano le laboriose vicissitudini di un tipico gentiluomo del sud nel liberarsi della maligna influenza di un potente mago cinese esperto di metamorfosi. Ovviamente tutta l’azione si svolge su suolo americano e vi si respirano le classiche atmosfere da provincia del sud, col suo razzismo velato e compiacente, i paesaggi bucolici, il tipico senso di cavalleria esercitato da gentiluomini che, a guerra civile ultimata, non pensano ad altro se non a consolidare le proprie fortune nonché impalmare qualche bella ragazza di buona famiglia. In tali ambienti è nata gran parte della buona narrativa “Horror” e “Weird” e questo racconto in particolare richiama bonariamente alla memoria più di qualche ottima narrazione del cinico Ambrose Bierce, con le sue storie di vendette soprannaturali condite con qualche battuta ironica sulla “varia umanità” di provincia. È uno dei pochi racconti in cui la figura del capo la scampa, non riservandosi però di trattare i suoi sottoposti di colore esattamente come Stone trattava i suoi portatori africani, nella più pura tradizione colonialista del sud.
Menzione a parte meritano i racconti puramente “sinistri” di White, riguardo ai quali occorrerà interrogare l’autore in prima persona: “La Casa dell’Incubo l’ho scritto proprio come l’ho sognato, parola per parola, dal momento che è stato proprio come se leggessi il racconto stampato, e come se tutto mi accadesse in tempi arcaici, quando le automobili avevano la guida a destra e la leva del cambio all’esterno della carrozzeria. Il sogno ebbe l’insolita peculiarità di farmi svegliare dopo il secondo incubo, così scosso che mia moglie dovette calmarmi e rassicurarmi come si fa con un bambino spaventato; poi tornai a dormire e terminai il sogno! E la sua conclusione mi giunse come una totale sorpresa, scioccante come il culmine di Il Muso o di Amina”. Sarà semplice comprendere che chiunque sogni cose come Il Puzzle, Il Messaggio sulla Lavagna o La Cintura debba farne dei racconti per potersene completamente liberare”.
E “La Casa dell’Incubo” è davvero qualcosa di cui uno scrittore dovrebbe liberarsi… se lo avesse sullo stomaco. Nella figura del misterioso ragazzo dal labbro leporino ci sono in potenza tutti i degenerati abitanti della provincia del New England di H.P.L., mentre l’orribile fantasma della scrofa mangiauomini è chiaro lascito degli incubi porcini di W.H. Hodgson. “Amina” è invece un’avventura alla Mille e una notte. C’è una spedizione nel deserto iraniano, il solito leader occidentale supercivilizzato ma imbevuto di superstizioni locali, conoscenza che usa per dominare gli autoctoni, ennesimo “Avatar” dello Stone di “Lukundoo”, il quale, come ebbe a dire China Miéville, è la più bella immagine del “senso di colpa colonialista” che sia mai stata rappresentata in letteratura fantastica.
Nel “popolo libero” dei Ghoul e degli Efreet del deserto fanno capolino le mostruose creature pre-celtiche di Arthur Machen, mentre la semiferina Amina che dà il titolo al racconto è una perfetta immagine dell’erotismo femminile “nero” e selvaggio, che stringe la mano sia ad “Alraune” di Hans Einz Ewers sia alla Helen Vaughan de “Il Gran Dio Pan”. Ne “Il Canto delle Sirene” (“The Song of the Sirens”) White si cimenta invece con il genere marinaresco rivelando l’erudizione e la cura che sono propri del neofita. La cura maniacale che dedica a tratteggiare le mansioni marinaresche di un bastimento americano, nonché la vividezza con la quale descrive i personaggi della ciurma, dal chiassoso marinaio Burke al semidemente capitano Benson, senza contare il misterioso Wilson, ricorda le indimenticabili narrazioni di Lord Dunsany, da “Un racconto di terra e di mare” a “Povero vecchio Bill”, mentre le sirene di White assomigliano alle deità con cui il suo collega oniromante irlandese popolò i suoi sogni, assolutamente originali, distaccate e lontane da qualsiasi immagine preconcetta le riguardi, terribili e implacabili nel loro mistero.
Racconti come “Disvola” e “La Pantera Maculata” appartengono invece al genere storico in cui White eccelleva, e sono state giustamente incluse nell’antologia non solo in quanto tutte frutto di sogni più o meno vividi ma anche in quanto il soprannaturale vi aleggia in maniera estremamente sottile. Nel secondo viene ricostruita con amore la vita civile nella Roma di Commodo e il “perturbante” viene incarnato da una bestia feroce che pare dotata di una vitalità inestinguibile e di una maligna intelligenza. Vi si riconoscono i temi della nostalgia e del riscatto sociale, ma più che altro dell’’insoddisfazione di vivere all’interno di un sistema politico sul perenne orlo del collasso (quello della Roma tardo-imperiale) incarnato nel desiderio di libertà perennemente frustrato della bestia che diviene ben presto cieca e brutale ferocia. Il primo, proveniente da un sogno “in lingua italiana” dell’autore, è invece una storia tutta rinascimentale di vendetta agghiacciante e definitiva, variazione palese, anche se originale, sul tema di “Hop Frog” di Edgar Allan Poe.
Menzione a parte meriterà il racconto “Sesta”, un incubo “vegetale” che è un’apparente variazione sul già citato tema de “L’Isola Stregata”. C’è una canaglia iniziale alla Jean Ray, campeggia ancora una volta la componente “coloniale”, con più di una strizzata d’occhio all’Allan Quatermain di H. Rider Haggard, ma tutto l’esotismo del racconto appare distorto e allucinante, come un dipinto eseguito a colori alieni, e la rivelazione dell’orrore finale lascia un sapore amarissimo in bocca, è come una scudisciata, un taglio netto con la sanità mentale che ha l’aspetto delle feroci rivelazioni offerte nei sogni e non ha nulla da invidiare agli orrori metamorfici di Hodgson e Lovecraft.
In definitiva il volume Lukundoo e Altre Storie di Edward Lucas White, ennesima e più che meritevole fatica dell’editrice Dagon Press, è un vero gioiello che merita di essere esibito nella biblioteca di qualsiasi appassionato del fantastico. Le ragioni del suo oramai essere considerato un autore “di nicchia” stanno forse nel suo “unpolitically-correct”. In White non esiste il termine “di colore”, ma “negro”, mentre i cinesi sono tutti servili, inquietanti e sfoggiano codini stile “yellow peril made in Sax Rohmer”, ma si dimentica sempre che è proprio da quell’humus razzista (razzismo che peraltro White non condivideva se non per esigenze letterarie dell’epoca) che nasce buona parte della migliore letteratura “nera”. L’orrore per il “diverso” che diventa terrore per l’ignoto, poi rimorso, poi “ossessione” per il rimorso.
Non va inoltre dimenticato che White era affascinato, come ogni scrittore del Fantastico, proprio da quell’esotico che giganteggia in ogni suo racconto e dalla componente di ancestralità che lo circonda. Da non ignorare inoltre, che, a dispetto della terminologia, il Nostro ha scritto alcune fra le più belle pagine sull’anticolonialismo mai scritte, con la sola eccezione di Conrad e di Kipling, di cui pure White fu acceso ammiratore.
Tradotto mirabilmente dallo stesso curatore Bernardo Cicchetti, il volume contiene tre fra le più importanti raccolte di racconti Weird di Edward Lucas White seguendone fedelmente le edizioni americane, constando rispettivamente in Lukundoo and Other Stories (1927), The Song of the Sirens (1919) e Sesta and Other Strange Stories (ed. americana del 2001). Il libro costituisce quindi una assoluta “ghiottoneria”, in quanto è l’unica traduzione italiana finora esistente, oltre che la più completa. Lo arricchiscono il saggio “Henry Lucas White: mercante di sogni” di Andrea Jarok, nonché una dotta postfazione di Cicchetti, e lo impreziosiscono illustrazioni di Williy Pogany, Jack Gaughan, Franklin Booth, Lee Brown Coye, Virgil Finlay, Sidney Sime, per citarne solo alcuni.
Mariano D’Anza
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