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domenica 1 maggio 2011

Justin Geoffrey: a 85 anni dalla morte

The People of the Monolith, 1926, frontespizioPassa quasi inosservato, quest’anno, l’85° anniversario della scomparsa del poeta americano Justin Geoffrey, davvero l’ultimo dei decadenti, persino in patria dimenticato pressoché del tutto sia nelle rare visionarie opere che per l’oscura e tormentata biografia, ancor sfuggente e mai davvero approfondita.

Justin Geoffrey (1898-1926) resta noto, in certi stretti ambienti, quasi esclusivamente per il volume poetico The People of the Monolith, apparentemente pubblicato nello stesso anno della morte. I resoconti sui suoi primi anni e sulle origini sono discordanti. Alcuni affermano fosse nato come John Ernest Tyler, essendo Justin Geoffrey solo uno pseudonimo assunto dal giovane appena diciannovenne al suo trasferimento dal natio Texas alla città di New York, ma si tratta di un equivoco fra l’identità di Geoffrey e quella dell’amico John Tyler, da qualcuno persino ritenuto il vero autore dei versi del poeta. Fonti diverse indicano piuttosto la diretta discendenza da un ramo dei Geoffrey, una famiglia di mercanti insediatisi a New York nel 1690.

La vocazione alla poesia, sin dall’infanzia, gli sarebbe derivata da una qualche singolare esperienza vissuta sui monti Catskills quando aveva dieci anni. L’evoluzione dei propri gusti letterari lo condusse presto verso il Decadentismo, invaghitosi Huysmans, di Rimbaud dei poètes maudits, trovando il suo idolo in Baudelaire. Quali che ne fossero le origini, la sua breve carriera di poeta in qualche modo fu brillante, portandolo in rapporto epistolare con spiriti affini e letterati come Edward Pickman Derby, restando tuttavia priva di successi.

Justin Geoffrey, fotoNel corso del suo viaggio in Europa, nel 1921 o 1922, fece sosta in un villaggio ungherese chiamato Stregoicavar, tappa fondamentale che ne avrebbe influenzato enormemente sia l'esistenza che la produzione artistica. Poco dopo il suo ritorno negli Stati Uniti, Geoffrey si rese a lungo del tutto irreperibile, per poi ricomparire a Chicago quasi folle, drogato e in preda all’alcool, ma portando con sé il manoscritto definitivo del suo The People of the Monolith. Le sue precise vicende e peregrinazioni durante tutto quel periodo restano un’incognita, ma risale al 1922 la pubblicazione di Secrets of the Hanged Man, un trattato sul simbolismo dell’Appeso, l’Arcano Maggiore dei tarocchi, stampato in edizione estremamente limitata. A breve tempo dalla ricomparsa, Justin Geoffrey venne internato infine presso un istituto psichiatrico dell’Illinois, nel quale si spense appena ventottenne in strane circostanze, forse per suicidio.

Lo stile poetico di Geoffrey risulta così variato nelle forme da suggerire, presso alcuni critici, l’ipotesi del lavoro collettivo di più scrittori riuniti sotto la stessa firma. La tesi, tuttavia, viene smentita dall’unità tematica costantemente sottintesa nel suo verso. Altri suoi lavori, al solito in piccole edizioni private e di difficile collocazione bibliografica, sono le raccolte Scarlet Runes and Other Poems (Chimera Press, New York) e il seguente Out of the Old Land, oltre a un unico volumetto di narrativa fantastica dal titolo Towers in the Sky.

L’opera outré e a tratti perturbante di questo particolare “poeta maledetto d'oltreoceano” risulta ancor oggi difficile all’accesso, priva di alcuna integrale ristampa e spesso a sproposito citata senza una diretta conoscenza degli originali, mentre la pagina Facebook di Justin Geoffrey rimane una delle pochissime risorse bio-bibliografiche in rete disponibili. Qui a seguito, un esempio dei suoi versi in quello che resta il maggiormente diffuso e noto estratto dal suo poema più ispirato:

The People of the Monolith
They say foul beings of Old Times still lurk
In dark forgotten corners of the world,
And Gates still gape to loose, on certain nights,
Shape pent in Hell.
Il Popolo del Monolito
Dicon che mali esseri d'Altri Tempi ancora van guatando
In parti del mondo oscure e obliate,
E ancora s'apron varchi, certe notti, rilasciando
Figure nell'Inferno confinate.


Bibliografia delle fonti:
E.P. Derby, The Arkham Adviser, Arkham, 1933
K. Heber, Chaosium, Hayward, 2000
D. Harms, Elder Sign Press, Lake Orion, 2008

Andrea Bonazzi

martedì 9 novembre 2010

David Park Barnitz: The Book of Jade

The Book of Jade, ediz. Durtro 1998, copertinaIl minimo che ci si può aspettare parlando di questo autore quasi sconosciuto, almeno al di fuori di una ristretta cerchia di appassionati, è sentirsi dire: “Barnitz?... E chi è?”

Tardivo erede degli ottocenteschi Yellow Nineties ma sulla sponda opposta dell’Atlantico, poète maudit fuori sede e fuori tempo massimo, David Park Barnitz è uno dei più trascurati, elusivi, effimeri e interessanti personaggi – ancor più che personalità – della poesia americana tra Otto e Novecento, morto giovanissimo e autore di un solo e raro libro di poesia decadente.

Nato nel 1878 nella Virginia Occidentale, la famiglia si trasferisce nell’82 a Des Moines, nello Iowa. Figlio di un dogmatico predicatore luterano, tra il 1897 e il ’99 compie i suoi studi universitari a Harvard ove diviene membro dell’American Oriental Society. Nel 1901 il suo primo e unico volume, The Book of Jade, viene pubblicato a New York in forma anonima: una raccolta – dedicata alla memoria di Baudelaire – di versi trasgressivi, estremi e nichilisti in una vena di ostentato decadentismo fra toni macabri e riferimenti orientaleggianti. Scontato citare, tra paragoni e influenze, i “poeti maledetti” di scuola francese, Lautreamont e Huysmans, Poe e Wilde, traslato il tutto in un singolare dandismo americano del “nuovo secolo”. Per consacrare a futura memoria un libro simile, e una vita atteggiata in conseguenza, non mancava che una degna “uscita di scena”: il 10 ottobre dello stesso anno Barnitz muore, ventitreenne, in apparenza per un attacco di cuore.

Negli stessi anni inizia ad affermarsi una poesia americana fortemente visionaria e fantastica che, in California, vedrà di lì a breve un passaggio di testimone da Ambrose Bierce a George Sterling prima, e da questi a Clark Ashton Smith in seguito. Negli anni 20 saranno alcuni dei nuovi autori e poeti del fantastico a mantenere vivo l’interesse per Park Barnitz: in una lettera del 10 luglio 1925, C.A. Smith ringrazia Donald Wandrei per avergli prestato la sua copia del volume, dicendosene impressionato: “Se mai mi trovassi nella posizione di curare un’antologia,” scrive Smith, “includerò certamente una mezza dozzina almeno di questi poemi”.

Il 18 settembre 1932 è Howard Phillips Lovecraft a parlarne in una lettera all’amico Maurice W. Moe: “[...] e chi avrebbe potuto scrivere quell’indecente, cinico Book of Jade? – Prove implicite indicano uno studente di Harvard…” E solo tre giorni dopo scrive a James F. Morton a proposito di “quel giovanotto di Harvard, Park Barnitz, che si uccise dopo aver pubblicato un notevole volume di versi decadenti,” dando evidentemente per scontata la diffusa (ma mai verificata) voce di un suicidio.

Se David Park Barnitz viene ricordato ancora oggi, si deve con tutta probabilità a questi pur brevi accenni nell’epistolario lovecraftiano, che ne hanno mantenuto l’interesse e consentito il recupero. The Book of Jade è ritornato in stampa soltanto nel 1998, presso l’inglese Durto Press, in una costosa edizione limitata in trecento copie a riprodurne il formato e la copertina originale, ampliandone tuttavia i contenuti con l’inserimento di altre opere al tempo pubblicate solo su rivista: due uteriori poesie e il saggio The Art of the Future, personale visione sullo stato e lo sviluppo dell’arte.

David Park Barnitz, fotoNell’introduzione all’edizione della Durtro, Mark Valentine scriveva: “Questi non sono i versi occasionali di tanti stati d’animo che furono il piatto popolare del periodo, né la cronaca di un conflitto spirituale come ci si potrebbe attendere dal libro d’esordio di un giovane pensieroso: sono tutti aspetti di una filosofia tenacemente mantenuta. Se pure Park Barnitz ha mai aderito alla fede di suo padre, non ha consentito che ciò potesse corrompere il proprio sardonico testamento in favore del suo esatto opposto. Aveva chiaramente deciso di schierarsi al fianco dei poèts maudits, di Baudelaire cui destinò la sua dedica, de l’lsle Adam, Rimbaud, Nerval, Poe: e con i grandi senza-dio del momento, Nietzsche, D’Annunzio, Zola. E The Book of Jade è la sua virulenta, violenta celebrazione di tale decisione”.

Nella sua postfazione, invece, Thomas Ligotti ipotizza che H.P. Lovecraft avesse in mente proprio Barnitz nel tratteggiare il “noto poeta baudelairiano” Justin Geoffrey con il suo The People of The Monolith, “raccolta di poesia decadente” e libro maledetto menzionato ne “La cosa sulla soglia” (The Thing on the Doorstep, 1933). Per quanto sembri ignorare che sia il personaggio che lo pseudobiblium sono in realtà un prestito da Robert E. Howard, il quale li inventa nel suo racconto “La pietra nera” (The Black Stone, 1931), Ligotti non ha però davvero tutti i torti e la figura ricorre in Lovecraft nel protagonista stesso del citato “Thing on the Doorstep”, in cui si legge che “Il giovane Derby aveva ulteriormente affinato il suo genio bizzarro, tanto che a diciott’anni pubblicò una raccolta di liriche deliranti dal titolo «Azathoth e altri orrori»”.

Non avrebbe probabilmente troppo senso, in questa sede, parlare di un autore che non solo manca di una qualunque traduzione in lingua italiana, ma è persino difficilmente reperibile nell’originale. E tale è rimasta la situazione sino a pochi anni fa, quando l’alternativa a una prima edizione pressoché introvabile era soltanto una riedizione poco meno proibitiva e irraggiungibile.

Ma da qualche tempo The Book of Jade è diventato anche un’accessibile risorsa web grazie a Gavin Callaghan, esperto e biografo di Barnitz, in collaborazione con Boyd Pearson, curatore in rete dello smithiano The Eltritch Dark. I testi dell’eccentrico poeta americano si rendono così disponibili sulle pagine del sito, insieme a una quantità di altro materiale sia biografico che critico: una messe di contribuiti probabilmente destinati ad arricchirsi nel futuro. Da diversi anni, inoltre, si preannuncia l’uscita di una prossima, nuova e più accessibile pubblicazione in paperback della raccolta di versi, in preparazione con S.T. Joshi e David Schultz presso l’americana Hippocampus Press.

E, ancora, chi non si accontentasse dei soli testi può trovare on line la scansione integrale di The Book of Jade in edizione 1901, nella copia conservata presso la University of California, consultabile o scaricabile in vari formati dalla pagina dedicata dell’Internet Archive dove, essendo il volume anonimo e gli archivisti in rete con tutta evidenza non eccessivamente svegli, viene scambiata ancora adesso per un’opera omonima tradotta dal cinese e attribuita quindi, erroneamente, a Judith Gautier.

Un allegro esempio per chiudere, con traduzione del sottoscritto in italiano solo per dare un’idea della poesia di David Park Barnitz:


Tutto il resto lo trovate sul sito web dedicato al poeta e alle sue opere: www.bookofjade.com.

Andrea Bonazzi

(in prima versione su In Tenebris Scriptus del 20/12/07)