Visualizzazione post con etichetta Misteri. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Misteri. Mostra tutti i post

giovedì 17 ottobre 2013

Renzo Giorgetti, Lovecraft e la sincronicità

Lovecraft e la sincronicità, 2013, copertinaPubblicato dalle Edizioni Solfanelli di Chieti con una presentazione a firma di Sebastiano Fusco, Lovecraft e la sincronicità è il titolo del nuovo saggio che Renzo Giorgetti dedica ai temi del gentiluomo di Providence dopo le precedenti esplorazioni fra i tradizionali simbolismi di Archetipi lovecraftiani: l’Eterno Femminile, nel 2012, e Archetipi lovecraftiani: L’India e i Miti di Cthulhu del 2009.

“Una rete di fili invisibili avvolge la realtà costituendone la trama nascosta, un’opera d’arte che solo poche persone sanno afferrare nella sua interezza. Ogni tanto però qualche evento, qualche situazione, solleva il sottile velo di mistero, mostrando come leggi ben diverse da quelle comuni siano le vere reggitrici dell’ordine cosmico. In questo caso vi è la possibilità di scorgere i nessi più sottili che legano cose e persone, i legami reconditi che uniscono, tramite un medesimo significato, processi mentali e fisici tra di loro apparentemente separati. Nelle opere di taluni autori la rivelazione di tali contenuti è più evidente, emergendo in numerose occasioni, più o meno volontariamente, nell’ambito dell’atto creativo. Questo è il caso di Lovecraft che, grazie alla sua capacità di elaborazione fantastica ed al rapporto privilegiato con il mondo onirico riuscì, spesso in maniera indipendente dalla sua volontà, a mostrare le “coincidenze significative” che intessono la realtà, quei nessi non causali di cui già parlava Jung e che per millenni hanno costituito la base del pensiero magico”.

“Nei racconti lovecraftiani,” prosegue la presentazione editoriale, “sono molteplici queste coincidenze che, interessando luoghi, date, persone e situazioni tra le più varie, formano un quadro quanto mai eterogeneo, che si compone però in maniera completa in una superiore visione d’insieme. Sono state raccolte in questo volume le più notevoli, le più ‘significative’, quelle che, rimaste fino a questo momento sconosciute, saranno di sicuro aiuto per comprendere meglio sia Lovecraft che la sua arte, così come l’epoca attuale, che con quella del recente passato mantiene ancora molti tratti in comune”.

Informazioni sul volume presso le pagine web dell’editore.

Lovecraft e la sincronicità
Renzo Giorgetti
collana Micromegas, Edizioni Solfanelli, 2013
brossura, 128 pagine, €11.00
ISBN 9788874978236
Andrea Bonazzi

lunedì 3 settembre 2012

L'ombra del dio alato

L’ombra del dio alato, 2003, copertinaNon si può certo dire che Pazuzu, demone alato temuto e venerato dal popolo dell’antica Mesopotamia, sia una gran bellezza: più grande di un toro, ha testa tozza e deforme, occhi sporgenti, quattro ali talvolta d’aquila talvolta di pipistrello, corpo al tempo stesso umano e rettiloide ricoperto di piume e scaglie, artigli taglienti a mani e piedi, coda di scorpione, pene dalla testa di serpente e testicoli decomposti. Con un aspetto del genere non può essere nemmeno tanto simpatico: personificazione del vento di sudovest, è il “signore dei demoni del vento malefico” portatore di tempesta, febbre, freddo, malattie, espressione simbolica di una visione del mondo dolorosamente incoerente, rigurgitante di divinità ostili da placare e tenere a bada.

Personaggio che nessuno si augura d’incontrare, Pazuzu è il filo conduttore dell’indagine presentata da Danilo Arona (giornalista, saggista e scrittore) nel libro L’ombra del dio alato, edito da Tropea.

Non fatevi sviare dal sottotitolo, “Fantastico e reale nei miti assirobabilonesi”: L’ombra del dio alato segue le tracce del demone toccando temi inerenti le discipline scientifiche non convenzionali, vedi archeologia dei misteri, clipeologia (la ricerca di manifestazioni di presenze extraterrestri nel passato), esobiologia (lo studio su presunte forme di vita aliena), criptozoologia (animali inesistenti o sopravvissuti), e poi archeoastronomia, ufologia, esoterismo, storia segreta, universi paralleli. L’ipotesi che emerge è decisamente particolare: l’Homo Sapiens, insieme ad altri esseri angelici e demoniaci, sarebbe frutto di manipolazioni genetiche operate da una razza extraterrestre atterrata sul nostro pianeta milioni di anni fa e di cui esistono testimonianze archeologiche soprattutto in Mesopotamia (l’odierno Iraq: come non collegare la furia bellica alla violenza distruttrice di un antico demone che “dal cielo si abbatte sulle case” spazzando via uomini e cose?).

PazuzuPazuzu è forse Satana in persona, non soltanto illusione mitologica ma presenza reale testimoniata da avvenimenti che dimostrano l’esistenza di un luogo invisibile e da noi irraggiungibile, una dimensione parallela dalla quale il demone e gli altri ibridi creati dai progenitori alieni possono interagire con il nostro mondo attraverso feticci e amuleti, o tramite episodi di apparente possessione diabolica. Nell’articolato discorso rientrano anche lo scrittore H.P. Lovecraft e il film L’esorcista, colossale e involontario atto di magia nera nato da una serie di sincronicità junghiane.

Come conclude Arona, “all’ombra del dio alato si può volare a trecentosessanta gradi, in un viaggio interdisciplinare che non risparmia le scienze esatte e, meno che mai, quelle «inesatte». Però è un fatto che solo queste ultime riescano in qualche modo a guidarci sulla strada che porta all’indeterminatezza del reale e alla collisione sottile con altri mondi, ipotesi sulla quale più di un filosofo contemporaneo ha da tempo argomentato”.

A ogni lettore è lasciata la propria personale conclusione, con un’ultima, inquietante considerazione su Pazuzu: “la sua forza è che nessuno può credere alla sua esistenza”. Se siete suggestionabili rischierete di dormire con la luce accesa…

L'ombra del dio alato. Fantastico e reale nei miti assirobabilonesi
Danilo Arona
Le Querce, Marco Tropea Editore, 2003
brossura, 356 pagine, €15.00
ISBN 9788843803132
Giovanna Bragadini
(pubblicato in origine sulla Gazzetta di Parma nel 2003)

sabato 28 maggio 2011

Diceria del vampiro. De masticatione mortuorum in tumulis

Diceria del vampiro. De masticatione mortuorum in tumulis, 2011, copertinaCome non mai travolti dai vampiri narrativi – nuovi e colorati volumetti in triplice copia collocati, in libreria, sia fra gli horror che i romanzi rosa e quelli per ragazzi – è singolare presentar l’uscita in traduzione di un “autentico” trattato in argomento, tale per lo meno nel contesto europeo fra chiesa e primo Illuminismo che in queste dissertazioni da Rohr al Calmet fino a van Swieten confutava, discuteva, documentava o pur si limitava a raccontare – ancor più diffondendole – cronache, aneddoti e credenze popolari di revenants e morti troppo inquieti, codificando un “canone del vampirismo” destinato a entrare in pianta stabile nel nostro immaginario culturale.

Pubblicato dall’Associazione LibriPerduti di Milano, Diceria del Vampiro. De Masticatione mortuorum in tumulis di Michaël Ranft è la prima versione italiana del trattato stampato a Lipsia nel 1728: M. Michaelis Ranfftii. De masticatione mortuorum in tumulis, (oder, Von dem Kauen und Schmatzen der Todten in Gräbern), liber singularis: exhibens duas exercitationes quarum prior historico-critica, posterior philosophica est.

Tanto citato, e in tante storie da passare forse per mera creazione letteraria, confuso col precedente omonimo del teologo tedesco Philipp Rohr apparso sempre a Lipsia ma nel 1679, il libro viene proposto con il testo latino originale a fronte e corredato dalla riproduzione dei capitoli dal XLIII al XLV, inerenti la trattazione di Ranft, dal noto Traité sur les apparitions des esprits et sur les vampires, ou les revenants de Hongrie, de Moravie et de Silésie (1751) dell’abate francese dom Augustin Calmet.

“Anno 1725. Nel villaggio ungherese di Kisolova muore il contadino Peter Plogojovitz. Il fatto sarebbe normale se questa morte non fosse seguita da avvenimenti strani e inquietanti, legati a ciò che il pregiudizio e la superstizione popolare chiamano fenomeno dei «morti masticatori». L’atmosfera si surriscalda al punto da richiedere l’intervento dell’Ufficiale Imperiale. La situazione sembra però sfuggire di mano: gli abitanti, terrorizzati e inferociti, riesumano e straziano il cadavere, considerato appunto un «morto masticatore» e un vampiro. Autore del presente scritto è il filosofo tedesco Michael Ranft, che suddivide l’opera in due dissertazioni. La prima, storico-critica, comprende la descrizione particolareggiata dell’evento e dell’ambiente in cui è collocato. La seconda, di carattere filosofico, presenta numerose e controverse teorie sostenute dagli scienziati dell’epoca, talune certamente curiose. Ranft, tuttavia, procede pazientemente con lucidità e con metodo, circoscrivendo e analizzando accuratamente la presunta «masticazione dei morti nelle tombe» e con essa il fenomeno del vampirismo”.

L’introduzione è di Gabriele Ferrero, con una postfazione a firma di Dario Spada e copertina di Alfonso Cucinelli. Informazioni sul volume presso la pagina web di Associazione Libri Perduti.

Diceria del vampiro. De masticatione mortuorum in tumulis
Michael Ranft
Associazione LibriPerduti, 2011
brossura, 192 pagine, €18.00
ISBN 9788890582301

Andrea Bonazzi

sabato 19 marzo 2011

Morfologia del licantropo: mito, leggenda e folklore

Poster per il film 'Van Helsing', 2004La credenza che un essere umano possa anche fisicamente trasformarsi in belva è antica e diffusa in tutto il mondo. Per limitarci alle sole tradizioni occidentali, la figura del licantropo viene talvolta confusa con gli elementi del vampirismo e della stregoneria, mantenendo in certo folklore alcuni retaggi del paganesimo, e persino d’una più antica adorazione totemica degli animali.

Altra considerazione è poi l’approccio al fenomeno quale mera malattia mentale: già nel II secolo il medico Galeno definiva la licantropia come “una forma di melanconia cerebrale”.

Il termine “licantropo” trova origine dal greco lykos, che significa lupo, unito ad anthropos, uomo, mentre “lupo mannaro” risale al latino lupus hominarius, cioè lupo come mangiatore d’uomini, oppure anche “simile all’uomo”. In inglese e nelle lingue germaniche, la parola werewolf si compone di wer, ovvero uomo (vir in latino) e wolf per lupo. Il francese loup-garou trova forse un’equivalenza fra garou e wer nel senso di uomo, attraverso più antichi termini quali warouls, warous o vairout.

La mitologia greca vede nella condanna divina le origini della trasformazione in licantropo, con l’esempio di Licaone, crudele re dell’Arcadia, che viene da Zeus tramutato in lupo per punizione del suo oltraggioso consumo di carne umana. Secondo certo folklore europeo, invece, per trovare un tale destino sarebbe sufficiente il nascere alla mezzanotte di Natale, addormentarsi a volto scoperto sotto la luna piena o altri simili incidenti, fino all’incorrere nella maledizione di una fattucchiera.

Lupo mannaro assale un cavaliere, xilografia medievaleSe non di origine ereditaria o di natura subìta, la licantropia può essere volontariamente ottenuta con mezzi magici. Come per il versipellis dell’epoca romana, così chiamato poiché si riteneva che il pelo del lupo gli crescesse verso l’interno del corpo, rivelandosi nella trasformazione come il rivoltarsi d’una pelliccia. Un tipico versipelle si trova nel Satyricon di Petronio Arbitro, già straordinariamente moderno nel riportare i più caratteristici luoghi comuni sul lupo mannaro.

Gli incantesimi necessari a un tale scopo possono comprendere l’uso di erbe, unguenti di macabra composizione, o la confezione di amuleti e oggetti speciali come cinture o vesti. Per i guerrieri nordici, che in nome di Odino si abbandonavano alla più folle esaltazione della battaglia, la trasmutazione metaforica in lupo, ulfhedinn, od orso, berserk, avveniva per mezzo di camicie fatte delle corrispettive pelli, indossate in luogo dell’armatura.

Altri fattori, in aggiunta al magico, sono l’idolatria del Maligno o il suo diretto intervento. Col diffondersi dei processi per stregoneria, nel XV secolo, crebbero infatti anche quelli per licantropia, proiettando sulle streghe il presunto potere, concesso dal diavolo, di mutarsi in forme animali.

Infine, la diffusione della licantropia può aver luogo per contagio, attraverso il morso del lupo mannaro secondo le più diffuse leggende (in realtà, assai più cinematografiche che popolari). La vittima sopravvissuta si troverà in questo caso soggetta alle fasi lunari, senza possibilità di controllo sulle proprie metamorfosi durante le notti di plenilunio, soprattutto nelle fasi iniziali della sua nuova soprannaturale carriera.

Uomo lupo in un bestiario del XV secoloNella trasformazione, il corpo del licantropo si ricopre di pelo sino al palmo delle mani, gli occhi si fanno rossi e ardenti, la voce diventa un ringhio gutturale e il soggetto tende a perdere la postura bipede eretta. Sia nella completa forma fisica di lupo che in una condizione ibrida fra questa e la conformazione umana, l’udito, la vista e l’olfatto si fanno più acuti, e l’uomo lupo acquisisce tutti i sensi e le abilità del predatore.

A queste caratteristiche si aggiunge una straordinaria capacità rigenerativa, che gli permette di guarire da ferite e lesioni con estrema e innaturale rapidità. Tornato in sé nella sua forma diurna, egli non serberà solitamente memoria delle proprie azioni, ritrovando però sul proprio corpo ogni residua grave ferita subita nel corso del suo stato mannaro.

Vi sono alcuni segni esteriori che, tradizionalmente, indicano la licantropia nelle persone: i peli sul palmo delle mani sono uno dei più tipici, insieme alle sopracciglia unite e all’insolita lunghezza del dito anulare. Alcuni animali, come i cani o i cavalli, non sopportano la vicinanza dei licantropi, in qualunque forma essi siano, e reagiscono con terrore alla loro presenza.

Le capacità di guarigione del licantropo sono forse all’origine della diceria che lo vuole invulnerabile alle armi comuni, argomento controverso fra le diverse fonti. Per uccidere uno di questi esseri, il metodo più classico è l’utilizzo di lame o proiettili in argento, elemento puro e fortemente simbolico, introdotto nel mito probabilmente da fonti cristiane. Metallo, tuttavia, troppo tenero per essere forgiato in efficaci strumenti di offesa: una pallottola d’argento, per esempio, troverebbe ben scarso impatto e penetrazione a una normale distanza di tiro. Altri sistemi sono la decapitazione e la privazione del cuore, procedure altamente consigliabili ad applicarsi anche dopo una canonica uccisione tramite argenteria, avendo poi cura di dare alle fiamme i resti della creatura come ulteriore margine di sicurezza.
Locandina del film 'The Wolf Man', 1941
Che il lupo mannaro sia soggetto agli esorcismi, o all’esibizione di simboli sacri come nel caso del vampiro, resta un’ipotesi assai dubbia. Benché non si escluda che esemplari d’inclinazione particolarmente religiosa possano risultare sensibili a tali espedienti. Esistono, piuttosto, alcuni tipi di piante ed erbe cui si attribuiscono caratteri protettivi contro il cosiddetto “mal di luna”, o persino il potere di mantenere gli uomini lupo a distanza. Tra queste il vischio, il frassino, e l’aconito o “luparia”.

“Anche l’uomo che ha puro il suo cuore
E ogni giorno si raccoglie in preghiera
Può diventar lupo, se fiorisce l’aconito
E la luna piena risplende la sera”

(Versi dal film L’uomo lupo, versione italiana di The Wolf Man, 1941)

Andrea Bonazzi

(pubblicato in origine su HorrorMagazine il 22/03/05)

giovedì 9 dicembre 2010

Storie dell’altro mondo. Racconti italiani del mistero, dell’occulto e del fantastico - 1860-1931

Storie dell’altro mondo. Racconti italiani del mistero, dell’occulto e del fantastico 1860-1931, 2010, copertina“«L’Ottocento e il Novecento italiani sono pervasi da occulto, spiritismo e mistero,» affermano i curatori del volume nella prefazione. «Dall’alambicco che li contiene prende vita un filone letterario che non si esaurisce nel reale. Questa antologia ridà luce a parole dormienti, che meritano di essere riscoperte. Sono dodici storie italiane, espressione composita di voci note o poco conosciute: ed è giusto, oggi, farle riverberare, perché è la letteratura, crediamo, uno dei luoghi dove si esprime con più forza l’altro mondo»”.

Fin qui la quarta di copertina di Storie dell’altro mondo. Racconti italiani del mistero, dell’occulto e del fantastico - 1860-1931, una raccolta di dodici testi italiani fantastici, misteriosi e occulti in origine apparsi tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del successivo secolo, raccolti e introdotti a cura di Nicola Caleffi e Guglielmo Leoni per la Incontri Editrice di Sassuolo.

Nell’antologia, di taglio saggistico sono gli interventi a firma di Cesare Lombroso, di Angelo Brofferio e di Luigi Arnaldo Vassallo sull’argomento dei fenomeni medianici, oltre a un colorito articolo sull’India scritto da Guido Gozzano per La Stampa. Insieme a questi, storie come “Un vampiro” di Luigi Capuana, che proprio a Lombroso venne dedicata, la narrativa breve della Scapigliatura con “L’invitata” di Remigio Zena, “I fatali” di Iginio Ugo Tarchetti e “Il pugno chiuso” di Arrigo Boito, e ancora i toni umoristici di “Creazione e moltiplicazione degli omuncoli (2066-2140)” da La storia filosofica dei secoli futuri di Ippolito Nievo, fino ai racconti di Federigo Verdinois, Paolo Mantegazza e Giorgio Cicogna, autori che in una varietà di prospettive, di sensibilità e diversi stili letterari, affrontarono con certa originalità i temi del sovrannaturale.

Informazioni sul libro presso la pagina dedicata sul sito web dell’editrice, mentre sulle pagine di Sassuoloonline.it è reperibile un’intervista ai due curatori, presentando la nuova collana “Kufferle” della Incontri per la quale si preannunciano ulteriori inusuali uscite all’insegna dei misteri e del fantastico.

Storie dell’altro mondo
Racconti italiani del mistero, dell’occulto e del fantastico - 1860-1931
aa.vv.
a cura di Nicola Caleffi e Guglielmo Leoni
collana Kufferle, Incontri Editrice, 2010
brossura, 166 pagine, €12.00
ISBN 9788889080979

Andrea Bonazzi

domenica 5 dicembre 2010

Sir Arthur Conan Doyle e gli spiriti

Weird Fiction Review: Vol. 1, 2011, copertinaCelebre inventore del mito di Sherlock Holmes, l’investigatore deduttivo e razionale per eccellenza; meno noto creatore di personaggi fantastici come il Professor Challenger in storie quali Il mondo perduto (The Lost World, 1912), modello dei successivi romanzi sui “dinosauri redivivi” dalle imitazioni de La terra dimenticata dal Tempo (The Land that Time Forgot, 1924) di E.R. Burroughs fino al Jurassic Park di Michael Crichton; autore forse ancor meno conosciuto di ottimi racconti del terrore, oltre che di novelle d’ambiente storico... Ma oltre a tutto questo, Sir Arthur Conan Doyle (1859-1930) fu anche un sostenitore dello spiritismo pubblicando opere come La nuova rivelazione (The new revelation, 1918), The History of Spiritualism (1926) e The Edge of Unknown (1930), indulgendo sino alla credulità in un crescente interesse verso il soprannaturale che lo portò alquanto ingenuamente ad avallare casi fraudolenti come quello delle “fate di Cottingley”, con le giovanissime sorelle Wright fotografate, tra il 1917 e il 1920, in non troppo fantasiose composizioni insieme a fatine alate disegnate secondo il gusto dell’epoca: semplici e palesi ritagli, sorretti da bastoncini nelle pose. Conan Doyle si giocò una grossa fetta di credibilità dedicando loro il saggio Il ritorno delle fate (The Coming of the Fairies, 1922).

Per lungo tempo si è ritenuto che la passione dello scrittore verso l’irrazionale, e per lo spiritismo in particolare, fosse maturato in seguito al trauma della perdita del figlio, ferito in guerra nel 1916 e morto di polmonite un anno dopo. Ma la scoperta, relativamente recente, di un taccuino nel quale annotò i suoi primi contatti con medium e fenomeni medianici dimostra ora come tale interesse, mai documentato in precedenza, trovasse inizio già trent’anni prima.

Arthur Conan Doyle era medico a Portsmouth quando assistette alla sua prima seduta nel 1897, nello stesso anno in cui pubblicava Uno studio in rosso (A Study in Scarlet), prima storia del ciclo di Sherlock Holmes. Dopo aver visto il medium parlare con voci differenti, e il tavolino muoversi nel comunicare I messaggi degli “spiriti”, il trentottenne dottore scrive di aver assistito a “una nuova rivelazione” per l’umanità, in cui la religione si era resa “cosa concreta” e non soltanto più “materia di fede”.

Nel 1887, ancora, Conan Doyle prende nota di essersi recato a casa di un paziente a Portsmouth, e di essersi unito a un gruppo di persone nervosamente sedute attorno a una tavola da pranzo nella speranza di contattare il mondo degli spiriti. Attesero per una mezz’ora prima che il tavolo prendesse a muoversi di scatto, battendo parole in un’elementare sorta di codice Morse: “andate troppo lentamente; quanto tempo ci state mettendo?”

Alla sessione successiva, qualche giorno più tardi, la temperatura si abbassò precipitosamente e una delle signore “divenne gelida, provando la sensazione come di una mano che le battesse leggera sul palmo, e con la netta impressione che ci fosse qualcuno alle sue spalle”. Prosegue quindi l’annotazione: “su ordine degli spiriti, interrompemmo la seduta”.

Le note, che coprono un periodo dal 1885 all’89, sono state pubblicate in una nuova biografia, apparsa nel 2007 e ristampata l’anno seguente in paperback dalla britannica Orion Books: Conan Doyle: The Man Who Created Sherlock Holmes, scritta dall’inglese Andrew Lycett che ha rintracciato negli Stati Uniti le carte private dell’autore, prima gelosamente conservate dalla famiglia e battute infine all’asta da Christie’s, a Londra, nel 2004.

“Queste note mi hanno aiutato a comprendere ciò che considero l’enigma centrale della sua vita,” dichiarava Lycett al Times nel presentare il proprio libro. “Ovvero come un esperto medico, creatore di una tal epitome di detective basato sulla razionalità, fosse così ossessionato dal soprannaturale da diventare, dopo la Prima Guerra Mondiale, uno dei principali promotori dello spiritualismo”.

Per contro, il personaggio di Sherlock Holmes appare piuttosto scettico verso il paranormale. Oltre a smascherare il tutt’altro che innaturale Mastino dei Baskerville (The Hound of the Baskervilles, 1902), nel breve “Il vampiro del Sussex” (“The Adventure of the Sussex Vampire,” 1924), solo altro episodio di tono vagamente fantastico nella serie, trovandosi ad affrontare un apparente caso di vampirismo Holmes liquida così la faccenda: “Ha ragione, Watson. È una leggenda citata in uno di questi riferimenti. Ma dobbiamo davvero prestare attenzione a simili cose? Siamo gente con i piedi per terra, e così dobbiamo restare. Il mondo è già abbastanza grande per noi. Non c’è bisogno che ci si mettano anche i fantasmi”.

Educato presso i gesuiti sia nell’infanzia che al college, Arthur Ignatius Conan Doyle, questo il nome completo, rifiutò il cattolicesimo professandosi agnostico fin dal 1875. Rimase tuttavia sempre affascinato dall’idea del sovrannaturale, come testimoniano i suoi racconti dell’orrore che iniziò a scrivere ben prima di avvicinare lo spiritismo. “Il capitano della Stella Polare” (“The Captain of the ‘Polestar’”) risale infatti al 1883, per citare una sua delle sue storie fantastiche più note.

L’eperienza delle sedute medianiche lo avrebbe liberato dai propri dubbi, conclude il biografo Andrew Lycett: “Guardava allo spiritualismo come a un’esperienza scientifica o, perlomeno, come a una naturale estensione della scienza”.

Una pagina italiana a proposito delle “fate di Cottingley” si trova su Fate & Fate.it. Informazioni sulla biografia di Conan Doyle, della quale diamo a seguito i dati bibliografici, sono reperibili presso il sito web della Orion Publishing.

Conan Doyle: The Man Who Created Sherlock Holmes
Andrew Lycett
Orion Books, 2008
brossura, 600 pagine, £10.99
ISBN 9780753824283

Andrea Bonazzi

(in prima versione su In Tenebris Scriptus del 25/09/07)

mercoledì 22 settembre 2010

Ombre. Alle origini delle “storie di fantasmi”

Foto spettrale d'epoca vittorianaLa paura del morto nelle religioni primitive (The Fear of the Dead in Primitive Religions, Londra, 1934), opera un pizzico meno conosciuta dell’autore del famoso Il ramo d’oro (The Golden Bough, Londra, 1911/1915), Sir James George Frazer, sostiene con dovizia di particolari l’ambiguità atavica diffusa fin dal Neolitico, in tutti i tempi e presso tutte le culture, del sempiterno oscillare dell’essere umano tra il desiderio di prosecuzione della vita nell’aldilà e il timore della riapparizione di un morto insoddisfatto nel mondo dei vivi.

Nelle tombe primitive, i nostri avi, depongono un morto imbellettato d’ocra rossa perché sembri vivo, fiori a invocare eterne primavere, armi e animali, spose e sposi di terracotta e granaglie da seminare per assicurargli ancora prosperità e amore, perché non venga a reclamarli alle porte dei vivi. E lo depongono in posizione fetale, col volto rivolto verso Est perché possa veder sorgere in eterno l’alba, nel ventre materno della Terra affinché essa lo possa partorire a nuova vita. Non ora. Non qui. Non tra chi morto non è. Così, lo legano, gli limano i denti, in alcuni casi gli asportano la mascella e ne inchiodano le membra nell’avello sepolcrale, trafiggendone la testa e il cuore. Perché non pensi di tornare, perché non ami più chi non gli è dato amare.

Più tardi, i Lucumoni etruschi metteranno guardie a sorvegliare le loro tombe. I Romani gli accorderanno periodi di tempo in cui poter invadere città e pagi.

Da che mondo è mondo, è risaputo, ciò che distingue l’uomo dalla belva è l’invidia, e i morti invidiano ai vivi la vita. Il fatto che nelle fiabe, nelle religioni primitive, nella mitologia e nell’epica arcaica realtà e sovrannaturale, vivi e morti siano naturalmente commisti fa pensare che le “storie di spettri” siano, con buona probabilità, antecedenti alla letteratura registrata. Sono infinite le leggende e i racconti di ogni paese che narrano di defunti tornati alla vita per esigere un tributo dai vivi.

L’aneddotica sui fantasmi spazia dal Libro di Giobbe IV, 12 (VI – IV sec. a.C.) alla Tragedia Greca da Eschilo in poi, dalla Patrologia Greca e Latina ai trattati morali e filosofici passando per le Cronache, dalle collazioni di leggende agli exempla, dalle raccolte di omelie e sermoni ai trattati di teologia, dalla poesia alla letteratura.

Anonimo: lo spettro di Bernadette Soubirous, 1890, foto

È arcinoto e stracitato (spesso male, attribuendolo allo zio) ciò che Plinio il Giovane (61 – 113 d.C.) scriveva all’amico Licinio Sura, mentre si accingeva a narrargli ciò che era accaduto a Curzio Rufo (una sorta di “detective dell’impossibile” ante litteram, mica un Romano della Suburra qualunque!):

“Igitur perquam velim scire, esse phantasmata et habere propriam figuram numenque aliquod putes an inania et vana ex metu nostro imaginem accipere. Ego ut esse credam in primis eo ducor, quod audio accidisse Curtio Rufo”.

[Dunque io avrei un vivissimo desiderio di sapere se tu pensi che i fantasmi esistano davvero e abbiano un loro proprio aspetto e una qualche capacità di azione, ovvero che, pure vanità inconsistenti, ricevano una figura soltanto dalla nostra paura. Io mi sento spinto a credere alla loro esistenza in primo luogo dall’episodio che sento dire essere capitato a Curzio Rufo (Epistularum Libri Decem – Liber VII – 27)].

E se il povero Curzio Rufo se la vide davvero brutta, peggio fu per il liberto del nostro Plinio, cui un fantasma coiffeur fece un taglio di capelli all’ultima moda:

“Est libertus mihi non illitteratus. Cum hoc minor frater eodem lecto quiescebat. Is visus est sibi cernere quendam in toro residentem, admoventemque capiti suo cultros, atque etiam ex ipso vertice amputantem capillos. Ubi illuxit, ipse circa verticem tonsus, capilli iacentes reperiuntur”.

[Ho un liberto fornito di una discreta cultura; egli una volta riposava nel medesimo letto con il fratello minore. Quest’ultimo ebbe l’impressione di vedere un individuo sedersi sul letto, avvicinargli al capo delle forbici e tagliargli anche i capelli sul culmine della testa. Quando spuntò il giorno si trovò che egli era schiomato attorno al culmine della testa e che i capelli erano là per terra (Epistularum Libri Decem – Liber VII – 27)].

E poi Tacito conferma che Curzio Rufo era predisposto a vedere phantasmata:

“Dum in oppido Adrumeto vacuis per medium diei porticibus secretus agitat, oblata ei species muliebris ultra modum humanum et audita est vox «tu es, Rufe, qui in hanc provinciam pro consule venies»”.

[Mentre un giorno, sull'ora del meriggio, se ne stava appartato sotto i portici deserti di Adrumeto, gli apparve una figura di donna d'aspetto sovrumano e così l'udì parlare: «Sarai tu, Rufo, a venire proconsole in questa provincia» (Annali XI – 21)]

Qualcosa di simile accade a Bruto col suo Cattivo Genio che, in sogno, lo ammonì “ci rivedremo a Filippi”. E ancora possiamo leggere di fantasmi dagli scritti di Cicerone a quelli di Orazio.

Illustrazione di JollyRottenIl Medioevo, in area nordica, vede intorno al 1200 un anonimo narrare di un’infestazione e una maledizione nella Grettir Saga (XIII – XIV sec.). E poi Chaucer, che nei Canterbury Tales riporta ben due storie ispirate a Cicerone e Valerio, e le Chroniques di Jean Froissart che ne contengono altre due, lunghe, e Boccaccio col suo “Nastagio degli Onesti” nella Quinta giornata del Decameron.

Durante il rinascimento e fino alla fine del XVII secolo la diffusione e la pratica di spagiria, alchimia e astrologia fecero sì che, già a metà del Seicento, la letteratura su questo tema fosse immensa e si basasse su un corpus di osservazioni, frutto di continue, approfondite e appassionate indagini, che fu la base sulla quale si svilupparono le ricerche su ciò che Arthur Koestler battezzò come il “paranormale”.

Dall’XI secolo in poi, una successione di intelletti formidabili si applicheranno a ricerche su ciò che oggi definiamo “sovrannaturale” fino a quando, intorno al 1650, il razionalismo cartesiano minò alle fondamenta le basi dottrinali della cosiddetta “Sapienza Occulta”.

Da Michele Psello, filosofo bizantino autore nel 1050 della celebre De Operatione Daemonum (Περì ενεργεìας δαιμüνων), una classificazione dei demoni, a Pietro Lombardo (c. 1100 – c. 1160) che accenna agli spiriti disincarnati nella seconda parte del Libri Quattuor Sententiarum scritto fra il 1150 e il 1152; da Roger Bacon (1240-1294) a John Bromyard, cancelliere dell’Università di Cambridge, con la Summa Praedicantium (1495); da Cornelio Agrippa (1466-1535) a Paracelso (1493-1541); da Girolamo Cardano (1500-1576) a Robert Fludd (1574-1637), medico e cavaliere rosa+croce, si arriva persino a scritti farneticanti di pazzi pervertiti come Sprenger e Kramer; e ancora Johann Wier (1515-1588), medico renano allievo di Agrippa, con il De Praestigiis Daemonum (1563) o Martín Antonio Del Rio con le Disquisitionum Magicarum Libri Sex (1599), fino a Pierre Le Loyer con la sua Histoire des Spectres (1605) più attinente al nostro disquisire.

E la lista sarebbe ancora lunga. Nel periodo Tudor, gli autori di teatro inglesi influenzati dalle tragedie di Seneca intuirono appieno le possibilità drammatiche connaturate nel “personaggio” fantasma. Uno per tutti, l’ombra del padre di Amleto.

Tirato il sipario, i fantasmi scomparvero dalla letteratura europea nella prima metà del Seicento per rimanifestarsi nell’ultimo scorcio del Settecento, evocati dall’avvento del Gotico, ma la loro presenza rimase sempre viva e frequente in opere riguardanti il sovrannaturale, nella tradizione orale, nelle ballate e nel folklore.

È una lunga genesi, quella della “storia di spettri”, e qui Dio non si riposa il Sabato ma continua a raccontare storie. D’altra parte, i fantasmi sono ombre e non c’è essere vivente o cosa che possa liberarsi della sua.

Così i fantasmi ci seguono non visti fino a scrivere da sé la propria storia, fino a rivendicare un genere letterario che si alimenterà all’infinito. Dopo tutto, tanti ebbero a raccontare ciò che anche oggi spesso ci raccontiamo:

“Sai? Quell’amico mio che diede, l’altra notte, un passaggio ad una tipa? Be’, il giorno dopo, al cimitero ha trovato la sua lapide…”

Luogo, spazio, tempo che vai, fantasma che trovi!


Bibliografia:
– Cai Plini Caecili Secundi, Epistularum Libri Decem, Liber VII – 27
– Publi Corneli Taciti, Annales, XI– 21
– Michael Psello, De Operatione Daemonum, Ed. Jean-François Boissonade, Nürnberg 1838; ristampa: Amsterdam 1964 (Le opere dei dèmoni, trad. P. Pizzari, Sellerio Ed., Palermo, 1989)
– Pietro Lombardo, Sententiae in IV Libris Distinctae, 2 vol., Grottaferrata, Editiones Collegii S. Bonaventurae ad Claras Aquas, 1971-1981

Tatiana Martino

(pubblicato su San Rospo il 15/11/07)

sabato 10 luglio 2010

Lovecraft e le luci fantasma

Alessandra Simonetti, Orbs, Ed. Mediterranee 2008Segnaliamo un recente libro-inchiesta sul fenomeno degli ORBS, i misteriosi globi di luce che talvolta compaiono nelle foto e che, sovente, vengono associati alla presenza di entità invisibili e sovrannaturali. Il volume, scritto da Alessandra Simonetti, è intitolato ORBS e altri fenomeni luminosi inspiegabili. L’esperienza italiana (Edizioni Mediterranee, 2008, pp. 254, €16,00, ISBN 9788827219997), e ne diamo segnalazione poiché l’autrice vi inserisce una perspicace analisi de “Il Colore Venuto dallo Spazio” di H.P. Lovecraft.

Dopo averne fornito il riassunto, il racconto viene spiegato in questi termini (pp. 178-179): “il meteorite rappresenta la vitalità che piomba contro di noi dall’universo; la fattoria richiama il bisogno di serenità e negazione, turbato dall’imprevedibile onnipotenza del caos; l’annientamento del padrone della fattoria, Nahum Gardner, rodotto a un ammasso informe di carne in putrefazione, simboleggia l’impotenza degli umani di fronte agli agenti cosmici; il pozzo incarna l’ignoto, mentre l’inspiegabile bagliore che ne emerge sembra essere dotato di volontà, proprio come gli ORBS, le BOL e le luci fantasma, tanto da apparire agli occhi dei contadini come una creatura ambigua e spaventosa. La luce colorata, che alla fine del racconto torna verso il buio sconfinato da dove è arrivata, rievoca la teoria nietzsciana dell’eterno ritorno, secondo cui ogni evento esperibile è stato già vissuto infinite volte e si ripresenterà in eterno nel futuro”.

A proposito di “luci fantasma” associate al fenomeno degli ORBS, un curioso accadimento ha visto testimone, proprio di recente, un visitatore recatosi ad omaggiare la tomba di Lovecraft nel cimitero di Providence. L’ignaro turista, che per l’occasione si è fatto immortalare in un'istantanea, ha poi scoperto sulla foto la presenza di una di queste luci dalla forma vagamente umana, e ha subito riportato l’inquietante scoperta sul suo blog: literary-equine.livejournal.com.

Luce spettrale tomba LovecraftChe lo spirito irrequieto di Lovecraft si aggiri tra quelle vecchie lapidi? Noi, da buoni materialisti e come Lui scettici, sorridiamo ironicamente al pensiero. Fatto sta che, riflessi o difetti della macchina fotografica che siano, queste strane manifestazioni luminose hanno dato origine più d’una volta a leggende e storie di fantasmi. La cosa è ancor più inquietante se la “visione” si manifesta sulla tomba del più grande scrittore di storie dell’orrore, anche perchè il luogo è già di per sè carico di curiose stranezze ed è da molti ritenuto “stregato”.

La stessa Muriel Eddy, moglie dello scrittore C.M. Eddy e cara amica di Lovecraft, dopo la sua morte raccontò di una curiosa “materializzazione” che ebbe luogo, in una sera d’inverno, vicino alla lapide dello scrittore; testimonianza da noi tradotta e che presto presenteremo in un prossimo volume della Dagon Press. Nel frattempo, leggetevi il commento di Grim Blogger sul fenomeno luminoso di cui sopra, opportunamente intitolato H.P. Lovecraft’s Ghost?, riportato su Grim Reviews.

Pietro Guarriello