giovedì 17 febbraio 2011

Arthur Machen: L’avventura londinese o l’arte del vagabondaggio

L’avventura londinese, 2008, copertina«L’avventura londinese o l’arte del vagabondaggio» ci propone una disciplina inconsueta, che utilizzando il «wandering» come vettore direzionale esplora la grande città alla ricerca delle antiche radici, affidandosi esclusivamente alle possibili confluenze dei tanti itinerari che incidono profondamente il tessuto metropolitano londinese. E così, se in senso spaziale Arthur Machen ci conduce lungo percorsi che si snodano attraverso luoghi periferici o apparentemente secondari o legati a vicende e personaggi della letteratura, in senso temporale il wandering scavalca il suo presente per spingersi tra ricordi e divagazioni, facendo convergere i diversi piani narrativi in lunghe digressioni che coinvolgono varie discipline: dall’architettura alla teologia, dalla critica letteraria alla storia ecclesiastica. E d’altra parte le digressioni che animano questo magistrale lavoro su Londra rappresentano anche il mezzo con il quale Machen può illustrare quella convinzione secondo la quale il mondo non è come sembra, e che dietro gli eventi quotidiani e gli oggetti comuni vi sia un segreto che è la chiave del grande enigma dell’esistenza dell’uomo. Arthur Machen è l’artista del prodigioso, il creatore di qualcosa al di là della vita e al di fuori del tempo”.

Ultimo dei tre volumi autobiografici di Arthur Machen dopo Far Off Things (1922) e Things Near and Far (1923), inediti in Italia, The London Adventure or the Art of Wandering (1924) è forse della trilogia il più affascinante, quasi romanzesco, mischiando ancora racconti – talora parziali o reticenti – della propria vita e carriera letteraria personale a spunti saggistici, cronache e aneddoti, ma facendo qui del vagare, come del divagare, un’arte vera e propria. L’arte del “vagabondaggio”, appunto, in una Londra tra Otto e Novecento i cui percorsi paiono intessersi in una qualche strana “metafisica dello sviluppo urbano”; cenni di un mondo “altro” celato appena sotto la superficie delle cose. L’arte della divagazione, infine, consueta nell’opera dello scrittore gallese, come a deviare sulla via per ogni traversa amena, verso ogni altra destinazione interessante lungo tragitto che ci viene illustrato passeggiando.

Un percorso di architetture più grandiose di quanto mai sia possibile porre per iscritto, almeno nella percezione dell’autore che, da subito confessa, ben altro libro avrebbe voluto scrivere col titolo di The London Adventure, dandocene invece un mero indiretto quadro in questo suo volume. Un “libro nel libro” per chi, come a suo tempo scrisse in Far Off Things, “fa sogni di fuoco e si trova a lavorare con l’argilla”: – “One dreams in fire and works in clay”.

The London Adventure, 1924, copertinaTradotto da Franco Basso – sua anche la versione dei nove racconti di Machen nel tascabile Oltre la soglia (Tranchida, 1993) –, L’avventura londinese o l’arte del vagabondaggio tornava nel 2008 in libreria per i tipi dell’editore milanese Tranchida, dopo una prima pubblicazione nel 1986 con la doppia firma di Basso insieme a Stefano Giusti sia per la cura che per la traduzione. La seguente edizione del 1998, la stessa riproposta due anni dopo e infine in questa uscita, sostituisce la breve prefazione di entrambi i curatori con l’attuale postfazione del solo Franco Basso, in cui si parla di “questa nuova traduzione” benché il testo sembri senza variazioni.

Stessa versione, appunto, mantenendo un utile apparato di note esplicative ma pure conservando, mai corretta negli anni, qualche svista. Sino all’ironia involontaria di scambiare uno stato d’animo per una carrozza.

C’è una parola inusuale che ricorre intradotta nel quarto capitolo, a pagina 93 dove si legge “Tornai a Reigate in un dwam, come dicono in Scozia, senza sapere se mi reggevo sulla testa o sui piedi” (nell’originale, “I drove back to Reigate in a «dwam», as the Scots say; really not knowing wheter I stood on my head or my heels”), e a pag. 94: “Andai a casa in quel dwam chiedendomi cosa avrei dovuto fare e infine scrissi la storia proprio come era successa” (di nuovo fra virgolette, “I went home in that «dwam» and wondered what on hearth I was to do, and at least wrote the whole, true story, just as it happened”). Alla nota numero 44 viene affidato quindi il compito chiarire la definizione; “Dwam: tipo di carrozza scoperta usata in Scozia”.

Non è la prima volta che Machen adopera questo termine scozzese nei suoi scritti, lo si incontra per esempio nel racconto breve “Dr. Duthoit’s Vision”, del 1921. Di certo non appare sui più diffusi dizionari d’inglese ma, testimone fra gli altri un interessante articolo dello Scots Language Centre, “dwam” descrive piuttosto uno stato di “sogno a occhi aperti”, di stupore o rapimento estatico... A suo modo un “trasporto”, in effetti, però non certo fisico né a trazione equina.

Divagazioni a parte, irresistibili di fronte a un’opera capace di tesserne un intero arazzo senza mai perdere il filo o disperderne la trama, l’ultima ristampa de L’avventura londinese rappresenta un’ottima occasione di lettura o rilettura di uno scrittore qui da noi finora collegato solamente al genere fantastico, o all’estetica decadente e mistica di fine Ottocento e primo secolo Ventesimo.

“It is possible, just dimly possible, that the real pattern and scheme of life is not in the least apparent on the outward surface of things, which is the world of common sense, and rationalism, and reasoned deductions; but rather lurks, half hidden, only apparent in certain rare lights, and then only to the prepared eye; a secret pattern, an ornament which seems to have but little relation or none at all to the obvious scheme of the universe”.
(The London Adventure, I ed. Martin Seker, London 1924; Chapter I, pag. 21)

“È possibile, oscuramente possibile, che il vero schema e tracciato della vita non appaia nell’aspetto esteriore delle cose, che è il mondo del buon senso, del razionalismo, delle deduzioni ragionate, ma piuttosto affiori, seminascosto, visibile unicamente in certe rare illuminazioni e solo a un occhio preparato; un tracciato segreto, un ornamento che sembra soltanto avere una piccola relazione o nessuna del tutto con l’ovvio schema dell’universo”.
(L’avventura londinese, Capitolo I, pag. 21, trad. di F. Basso)

Gli Arcieri e altre leggende di guerra - Il Terrore, 2008, copertinaUn interesse che in anni recenti è parso rinnovarsi, in Italia, proprio con questa terza uscita macheniana a pochi mesi di distanza da altri due volumi: prima Gli Arcieri e altre leggende di guerra – Il Terrore nella traduzione di Fabio Bussotti per l’editore Miraviglia, nel 2008 con la raccolta completa di The Bowmen (1915, nata attorno al celebre racconto che diede vita alla leggenda bellica degli “angeli di Mons”) più la già edita novella The Terror del 1917, quindi Il segreto del Graal per la versione di Stefania Sapuppo presso Liberamente, sempre nel 2008. Prima edizione italiana di The Secret Glory, romanzo misticheggiante e fortemente autobiografico apparso nel 1922, con un brusco finale in realtà dovuto al taglio dei suoi due ultimi capitoli, pubblicati solo in seguito.

Il segreto del Graal, 2008, copertinaA parte la mancata occasione di presentare un testo integro con il recupero di tali frammenti conclusivi, anche in quest’ultima edizione si può trovare un piccolo ma tragicomico refuso, una svista che al posto del “Gran Turco” ci propina, in invariato inglese, un “Gran Baule”. Errore dovuto, questa volta, all’utilizzo di una fonte web pubblicamente scaricabile in luogo di una copia del libro originale. (Nell’edizione Knopf, New York 1922, a pag. 250: [...] about as many as are contained in the seraglio of the Grand Turk”. Nel file PDF da www.horromasters.com:[...] about as many as are contained in the seraglio of the Grand Trunk”. Ne Il segreto del Graal a pag. 186: [...] tante altre quante può contenere l’harem del Gran Trunk”).

Andrea Bonazzi

(in prima versione su In Tenebris Scriptus del 29/12/08)

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