giovedì 15 luglio 2010

Il dio del 36° piano: riflessioni

Il dio del 36° piano, 1968 copertinaIl dio del 36° piano è un’antologia di racconti di fantascienza curata da Carlo Fruttero e Franco Lucentini, uscita nel 1968 per i tipi di Mondadori, nella collana Oscar. Potremmo definirli racconti di “fantascienza sociale”, quel particolare sottogenere della science fiction che si occupa di curvare gli interessi letterari tipici del genere all’analisi e alla speculazione sugli possibili sviluppi – in un’ottica fortemente critica e denunciatoria – dei problemi della società umana.

Il mio primo contatto con quest’opera si verificò alle scuole medie, attraverso la mediazione di un testo scolastico – quando ancora i libri di letteratura italiana si preoccupavano di svolgere la funzione etimologica del concetto di antologia, cioè quantomeno tentare di selezionare opere qualitativamente valide e rappresentative della realtà circostante e dei generi letterari esistenti. Tale funzione, purtroppo e in modo estremamente deleterio, si è adesso largamente persa a favore di opere che scelgono piuttosto di antologizzare unicamente testi e autori “impegnati” (a loro dire), “popolari” oppure semplicemente consoni al costume o alla moda culturale. Ma questo sarebbe un discorso che ci porterebbe fuori strada e pertanto lo accantoneremo. Va sottolineato però che, a tale proposito, all’epoca c’era almeno l’intenzione di proporre sui manuali scolastici accanto ai classici inamovibili della letteratura – un altro concetto cardine che si è purtroppo perso – dei testi rappresentativi di autori importanti in relazione ai vari generi letterari, manifestazione delle tendenze più interessanti in atto.

Fruttero & Lucentini fotoRicordo che sulla mia antologia pullulavano, infatti, Heinlein, Van Vogt, Sheckley e altri famosi autori fantascientifici, pervenuti in larga misura attraverso l’ottimo lavoro preventivo svolto, per esempio, dalle importanti selezioni mondadoriane (guru delle quali erano appunto quasi sempre Fruttero e Lucentini). Ovviamente il sottoscritto era ignaro di ogni cosa in proposito e, per quello che lo riguardava, gli autori di science fiction succitati avrebbero potuto essere di pari livello rispetto al ben meno noto Herbert D. Kastle de “Il dio del 36° piano”; purtuttavia il racconto in questione lo colpì particolarmente fra tutti gli altri, incentrato com’era sulla sorte finale dell’ultimo uomo sulla terra per mano di una società di androidi meccanizzata, massificata e spersonalizzata, sulla figura triste e un po’ patetica dell’androide “buono” Tzadi – una versione alternativa del robot asimoviano dal sapore molto amaro, si potrebbe dire. Questo racconto in particolare, poi, è restato nei miei ricordi per non abbandonarli più.

Nel corso degli anni e dei decenni successivi venni in seguito a contatto con numerosi altri racconti presenti in questa famosa antologia, e finalmente con il libro stesso nella sua interezza. Ebbi modo di apprezzare la straordinaria qualità di molti testi, e comunque di interessarmi alle tematiche e alla particolare critica sociale di alcuni altri letterariamente meno incisivi.

Oggi, riprendendo in mano in mano il volume per rileggerlo mi sono accinto a effettuare alcune riflessioni forse banali, ma che sicuramente – a distanza di più di quarant’anni dall’epoca di pubblicazione, per tacere delle date di edizione originale dei singoli racconti – sono indicative della portata che ha avuto quest’antologia nell’immaginario collettivo italiano e, certamente, nel mio personale.

In primo luogo, è d’obbligo una certa critica al mondo culturale ed editoriale italiano contemporaneo. A paragone con Il dio del 36° piano e antologie consimili, nel mercato librario odierno è ormai impensabile pensare a un testo antologico come a un must epocale che sopravviverà ai decenni divenendo un punto di riferimento e – per così dire – un acquisto obbligato, o comunque un’opera con la quale confrontarsi a tutti i costi.

Generalizzo molto, ma le antologie attuali paiono nell’estrema maggioranza dei casi opere usa e getta, fatte per sfruttare il successo di un particolare genere, il traino di un curatore di grido, una tematica forte di sicuro valore commerciale, l’aggancio di particolari fenomeni multimediali legati a cinema, videogiochi, fumetti e quant’altro. Pompate, gonfiate, strombazzate pubblicitariamente, pensate a tavolino con scelte selettive che si fondano spesso su tutt’altro che sul valore letterario, le antologie odierne – e in ispecie questo accade per quelle di genere (parlo principalmente di quelle collettive, quelle che raccolgono “il meglio di” un determinato genere, poiché per le antologie di un singolo autore il discorso da fare è ovviamente totalmente diverso, legato alla qualità o al disvalore dell’autore stesso) esse sono quasi sempre un mix di raccontini scritti o adattati a tavolino, raffazzonati, prevedibili, ove sul corpus complessivo proposto sarà possibile al massimo salvarne una limitatissima parte.

Senza contare il mutato e più complesso contesto sociale ed economico: se nel ’68 per la Mondadori poteva essere più facile procurarsi i racconti in relazione al progetto antologico in atto, molto più complessa è senz’altro la situazione attuale ove il regime di concorrenza spietata costringe talvolta le case editrici a ripiegare su ciò che è più facilmente e più economicamente disponibile, escludendo altre possibili opzioni e – in definitiva – contribuendo in modo decisivo a creare il quadro precedentemente descritto.

Prendendo in mano Il dio del 36° piano, invece, c’è la differenza immediata di un’opera pensata da curatori che sanno cosa fare, che conoscono a menadito il genere letterario, che selezionano quello che per loro è effettivamente funzionale allo scopo della cernita dell’antologia e soprattutto che propongono racconti che vogliono essere dichiaratamente di livello alto.

Il dio del 36° piano, 1975 copertinaLa seconda impressione venuta fuori dalla rilettura è che le “storie del futuro prossimo” (come recita il sottotitolo), si siano rivelate effettivamente tali e che noi cittadini del ventunesimo secolo stiamo vivendo propriamente in mezzo alle devoluzioni ampiamente preconizzate dai racconti in questione. Come spesso accade per la buona fantascienza, essi purtroppo da premonizioni pessimistiche volte a dibattere sui problemi della società loro contemporanea nel tentativo di migliorarla, sono diventati tristi apologhi sulla nostra contemporaneità, ove soltanto alcuni aspetti tecnologici e di ambientazione parlano ormai di futuro, mentre la sostanza più pura si riferisce ormai nettamente al nostro attuale presente.

Se è vero che la fantascienza sociale soffre il difetto di essere molto spesso “a tema” e di produrre, quindi, alcuni racconti un tantino meccanici e freddi nell’ansia di manifestare la tesi che si sta proponendo, oltre al produrre la relativa critica alla moderna società dei consumi (con il consueto assunto “parlare del futuro per parlare del presente” di cui si è già vista la concretizzazione), e se è altrettanto vero che questo si percepisce in una buona misura anche nella raccolta attuale, non ci si può esimere però dal sottolineare fortemente che l’aspetto più immediatamente significativo e – se vogliamo – sconvolgente dell’antologia riguarda come le critiche/previsioni espresse nei racconti si siano quasi tutte drammaticamente avverate nella sostanza delle cose, o comunque in relazione ai giudizi su di esse espressi dall’autore.

Se tragicamente attuale risulta allora “C’è posto per tutti” di James G. Ballard, che riflette sulla nostra progressiva riduzione dello spazio vitale, altrettanto tragica è la condizione del protagonista di “Condizionamento” di Raymond E. Banks (anch’esso incentrato sulla spersonalizzazione prodotta dalla società, stavolta veicolata attraverso un diabolico congegno acustico distributore di illusioni), così come colpiscono nel segno anche il romantico paradosso de “L’auto addosso” o la mercificazione dell’arte descritta da “Rembrandt S.p.a.” o l’atmosfera paranoica presente in “Autodelatore”. Tutti abbiamo sperimentato l’eccessivo legame che si sviluppa in alcuni individui con l’automobile ed il ruolo sociale che il veicolo viene ad assumere, così come – a un livello ancora più significativo – l’importanza dell’industria automobilistica nell’economia mondiale. Analogamente ha assunto sempre più rilevanza per la degenerazione della società la perdita di significato dell’arte in senso estetico e la sua riduzione a mero valore economico. O ancora tocca spesso negativamente l’atteggiamento delatorio che caratterizza il rapporto dell’uomo con lo stato, a pieno sfavore della solidarietà sociale e di rapporti più equilibrati. Tutto ciò era stato già brillantemente ponderato e su di esso si era ampiamente riflettuto da parte degli autori nei racconti suddetti.

Analogamente sono fra i pezzi migliori dell’antologia dal punto di vista artistico, per penetrazione psicologica e finezza di analisi sociale “Per chi lavoriamo” di Jack Vance e “Per cosa ci pagano” di Eric Frank Russell, entrambi racconti incentrati sull’assoluta prevalenza della burocrazia cieca e idiota nella società moderna, sulla perdita di valore dell’uomo in quanto individuo e sull’imbelle apatia e accidia delle classi dirigenti. Veramente due piccoli gioielli di particolare ed estrema attualità.

Non mancano infine racconti di fantascienza più tradizionali, ove l’ambientazione apocalittica consente ancora nel 2010 un particolare gradiente di distacco rispetto agli altri – ormai adeguatisi, come si diceva, in alta misura alla nostra realtà quotidiana. Spiccano in particolar modo proprio il racconto di Kastle che dà il titolo all’antologia, come il disumano “Censimento” di Frederik Pohl nel quale i problemi della sovrappopolazione globale portati all’estremo conducono a drastiche decisioni e orrende conseguenze; il poetico “L’abisso di Chicago” ove domina la vena intimista e meditativa di Ray Bradbury, ben nota dalle Cronache Marziane; l’ironico “Tutti contro tutti” di Christopher Anvil su conformismo e anticonformismo o, ancora, il paradossale racconto di Rachel Maddux nel quale un defunto ha la facoltà di tornare indietro dall’aldilà perché non ha “Le carte in regola”. Ma in tutti questi le tematiche proposte hanno sempre e comunque la forza di colpire e suscitare la coscienza critica del lettore.

Ancora adesso quindi, Il dio del 36° piano costituisce un’antologia pienamente attuale, degna di essere posseduta e suscitatrice di importanti sentimenti di rivalsa e contrapposizione contro i difetti del mondo che ci circonda, i quali troppo spesso minacciano di travolgerci. Uno specchio nel quale vedersi deformati e denudati delle nostre certezze e auto-rassicurazioni, nonché delle costrizioni e convenzioni sociali. Un ottimo bisturi letterario che possa, o quantomeno possa provare – a ricondurci a una realtà più umana, asportando tutte le sovrastrutture cancerose che noi uomini possiamo avere creato intorno a noi stessi. Un obiettivo ambizioso, ma non è forse l’ambizione a migliorare uno dei caratteri di fondo della fantascienza?

Umberto Sisia

1 commento :

  1. Complimenti per le riflessioni Umberto, molto acute.
    In effetti antologie così (“epocali”, potremmo dire) oggi sono molto rare. E comunque Fruttero & Lucentini erano due Maestri. Anche se devo dire che questo libro non mi è rimasto impresso al pari di altre loro antologie, tipo IL PASSO DELL’IGNOTO, L’OMBRA DEL 2000, o UNIVERSO A SETTE INCOGNITE che al tempo mi dischiuse un universo di meraviglie. Un grandissimo merito che riconosco a F&L è di aver portato in Italia un autore grandissimo e purtroppo ancora misconosciuto come Robert F. Young (c’è anche qui) un vero mago del racconto breve e brevissimo quanto e forse più di Fredric Brown.

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