mercoledì 9 febbraio 2011

Michel Houellbecq, Lovecraft: contro il mondo, contro la vita

Lovecraft: contro il mondo, contro la vita, 2005, copertinaIl saggio in questione di Michel Houellebecq, nella sua edizione in francese (H.P. Lovecraft: contre le monde, contre la vie) risale al 1999, mentre in Italia vede la luce nel 2001 e poi nel 2005 in seconda edizione, sempre per Bompiani, ma forse è il caso di spendere qualche parola in più per un libro, pensiamo, che seppur divulgativo risulta imprescindibile sia per chi si accosti per la prima volta alla narrativa del “Principe nero di Providence” (per usare una fortunata espressione di Stephen King), sia per chi abbia voglia di approfondire alcuni aspetti forse poco esplorati, della vita e del pensiero di H.P. Lovecraft.

Come avvenne a suo tempo nel caso di Edgar Allan Poe, dove a una scarsa ricezione della critica anglosassone si accompagnò una entusiastica accoglienza da parte di Baudelaire, in questo caso è uno scrittore e non un poeta francese a scrivere un saggio che è pura e coraggiosa ammirazione per uno scrittore ritenuto “di nicchia” per molto tempo. Rispetto a Poe le cose sono molto cambiate, come si perita di puntualizzare Stephen King nella sua presentazione al saggio di Houllebecq intitolata “The Lovecraft’s pillow” (postfazione nella traduzione italiana: “Il cuscino di Lovecraft”). La critica letteraria statunitense è adesso pronta a riconoscere lo spazio che un autore come Lovecraft può e deve occupare rispetto ad altri “Grandi” ortodossi. Forse però, il Saggio di Houellebecq è stato scritto per ricordare questo a noi europei.

Houllebecq è attualmente riconosciuto come “l’enfant terrible” della letteratura francese, avendo ribadito ancora un volta la pregnanza del suo ruolo con il suo ultimo lavoro La carta e il territorio. Benché lo scrittore prediliga nei suoi romanzi ambienti mondani e situazioni fin troppo “veriste”, il lettore non tarderà a riconoscere nella sua prosa quelle tracce di cinismo e quella vena serpeggiante di disagio sociale che è un prologo all’orrore ben più grande di cui parlava Lovecraft, “un odio contro il Mondo” appunto, un orrore cosmico.

Fin dalle prime pagine, Houellebecq si mostra ricettivo alle implicazioni contenute nella narrativa del suo “Maestro e ispiratore”. Il suo intento, come sempre di stupire, è scrivere un saggio non-accademico su di un autore considerato “marginale” dalla critica europea, con chiari intenti polemici, visto che Michel Houellebecq è da sempre il beniamino di un certo tipo di critica intellettuale non solo in Francia, ma l’operazione riesce, in quanto Houellebecq si dimostra un ammiratore attento a tutta prova. Fin dalla prefazione, lo scrittore francese confessa di essersi avvicinato a Lovecraft sin dai sedici anni e di aver poi proseguito la lettura dei suoi epigoni e continuatori, ripercorrendo le tappe ideali di qualsiasi “ammiratore” che si rispetti.

Michel Houellbecq, fotoL’inizio del suo saggio va ubicato verso il 1988, e va considerato come un “esperimento” dato che prima di allora, come egli stesso confessa, conosceva ben poco della vita di Lovecraft: “Giudicando a posteriori, mi sembra di aver scritto questo libro come una specie di primo romanzo; un romanzo con un solo personaggio (lo stesso H.P. Lovecraft) e nel quale tutti i fatti riferiti e i testi citati sono autentici, nondimeno una specie di romanzo …” (op. cit. p.6).

Le ragioni di tale passione vanno per Houellebecq ricercate sia nel “materialismo” di cui Lovecraft si è sempre fatto convinto sostenitore, sia per la sua non sottile xenofobia. Vediamo da subito che Houellebecq sceglie di trattare due argomenti “scomodi”; il primo in quanto sia critica che lettori, da un capo all’altro dell’oceano, tendono forse universalmente a posporre tale primo elemento rispetto alle componenti “Gotiche” del maestro di Providence, dimenticando forse che egli non ha mai attribuito alla sua letteratura significati “esterni” al semplice gioco letterario. Il secondo in quanto va a toccare un aspetto di Lovecraft che è fonte da sempre di continuo imbarazzo, sia per i suoi sostenitori che per i suoi detrattori. Vedremo presto che in questo come in altri aspetti, Houellebecq farà prova di una capacità di analisi franca e aperta che dovrebbe servire di lezione a molti critici.

Il suo saggio possiede una mirabile organizzazione architettonica che amalgama sapientemente elementi di critica letteraria a passi importanti della biografia di Lovecraft, avvicinandosi in questo molto più alla chiarezza espositiva di S.T. Joshi che all’analisi, spesso confusa, di Lyon Sprague de Camp, che pure cita. Il disinteresse di Lovecraft per la vita in generale viene ribadito e analizzato con lucidità, per Lovecraft la vita è il Male con la M maiuscola: qualunque posizione contraria a questo assunto genera sospetto, il sospetto di una monumentale ipocrisia. L’assolutezza di questa affermazione, ricostruita tramite il “corpus” epistolare del Maestro di Providence oltre che attraverso quelli che Houellebecq definisce i suoi “Grandi testi”, ha fatto di lui un narratore “popolare”, la cui fortuna letteraria è destinata a sopravvivere e a crescere dopo la sua morte.

Tale prospettiva trova riscontro puntuale anche all’interno della disamina che David Punter fa dei grandi scrittori di letteratura gotica, anche se Punter non condividerà molte altre posizioni di Houellebecq su Lovecraft. L’unica differenza tra Lovecraft e altri scrittori popolari come Conan Doyle o Dumas, sta nel fatto che essi furono sufficientemente consapevoli di stare dando vita a un vero e proprio “corpus” mitologico, mentre H.P.L. era fermamente convinto che la sua creazione sarebbe morta con lui.

Lovecraft Easter Island, immagineAffascinante è anche l’analisi che Houellebecq fa del rapporto che intercorre fra Lovecraft e l’attività di scrittura, coerente sia con il suo stile di vita che con le sue convinzioni personali, a detta di Houellebecq, irreprensibili. Per meglio rappresentare quanto esposto basterà un estratto dalla prima lettera scritta da Lovecraft a Farnsworth Wright, direttore della rivista pulp Weird Tales:

“Gentile Signore, avendo l’abitudine di scrivere racconti bizzarri, macabri e fantastici per mio proprio divertimento, recentemente sono stato benevolmente assalito da una decina di cari amici che mi sollecitavano a sottoporre alla vostra giovani rivista alcuni miei «orrori gotici». Allego dunque alla presente cinque racconti scritti tra il 1917 e il 1923. I primi due sono probabilmente i migliori. Perciò, se non dovessero piacerle, può risparmiarsi il fastidio di leggere gli altri
[…]. Non so se le piaceranno, poiché da parte mia non mi sono mai preoccupato di inseguire i requisiti dei testi «commerciali». Il mio unico scopo consiste nel piacere che traggo dal creare situazioni bizzarre e atmosfere d’effetto; e l’unico lettore di cui tengo conto sono io stesso…”

Se la posizione di Lovecraft in merito all’editoria e alla scrittura commerciale del tempo non risultasse chiara dal tenore di questa lettera, si potrebbero aggiungere il suo deciso rifiuto a dattilografare i testi dei suoi racconti (puntualmente consegnati zeppi di cancellature), il suo rifiuto a chiedere anticipi e aumenti, atteggiamento non consono alla sua dignità di gentiluomo puritano, etc. Una condotta esemplare, ma , come rileva Houellebecq, in un mondo che ha fatto della competitività economica e sessuale le colonne portanti della Civiltà attuale, Lovecraft non poteva che occupare un ruolo tragico e singolare.

In questo bisogna rilevare che la narrativa di Houellebecq, da Piattaforma a La carta e il territorio, presenta lo stesso disprezzo esibito da Lovecraft per la carnalità e la posizione economica e sociale dei personaggi, con le sue scene di sessualità cruda e disturbante e la meschinità che sottende a qualsiasi tipo di rapporto sociale, questo a ulteriore testimonianza del fatto che, come a suo tempo rilevò Jacques Bergier, la grande innovazione di Lovecraft all’interno della letteratura fantastica consistette, e consiste, nell’introduzione dell’elemento “materialista” nel genere Gotico.

Lovecraft: contro il mondo, contro la vita, 2001, copertinaMa è nella parte da Houellebecq intitolata “Tecniche d’assalto” che l’autore passa a una disamina più precisa dell’elemento prettamente stilistico nella narrativa di Lovecraft. Houellebecq opera una distinzione calzante fra quella che è la cosiddetta “tecnica ad accumulo” e la tecnica più utilizzata invece da Lovecraft. Come primo esempio riporta l’andamento classico di un racconto di Richard Christian Matheson; normalità più assoluta, tipica famiglia americana media, barbecue, casa, giardino, poi l’elemento irrazionale si fa gradatamente strada, il Male prende forma. Lovecraft invece, come riporta Houellebecq: “Non ha nessuna voglia di dedicare trenta pagine, e nemmeno tre, alla descrizione della famiglia media americana”.

L’attacco che Lovecraft intraprende contro la realtà è un “attacco frontale”, con lui sappiamo fin da subito di che si tratta, basta leggere poche righe dall’incipit de “ Il richiamo di Cthulhu”: “A mio avviso, il favore più grande che il cielo ci ha reso è l’incapacità della mente umana di mettere in relazione tutto ciò che esso racchiude. Viviamo su un’isola di beata ignoranza posta al centro di neri oceani d’infinito, e non era scritto che dovessimo attraversarli…”

Houellebecq rileva, a nostro parere giustamente, che Lovecraft non aveva alcuna intenzione di “blandire” il lettore per interessarlo alla storia, scriveva già per un pubblico di appassionati e fanatici, e lo trovò, anche se dopo la sua morte. Quella che egli opera è una trasformazione radicale del linguaggio. Nessun ambito scientifico viene tralasciato da Lovecraft durante la stesura di un racconto, nessuna area della conoscenza egli decida di trattare viene affrontata senza la necessaria previa documentazione, che sia costituita dalla natura dei batraci o dalla stesura di un rapporto scientifico in Alaska. Ma ciò che forse costituisce la ragione maggiore del disdegno che da sempre la critica ha dimostrato per lo scrittore di Providence, è l’uso smodato degli aggettivi, uso necessario alla concezione del terrore che Lovecraft voleva illustrare.

Houellebecq cita ad esempio la parte finale di “Prigioniero delle Piramidi”, racconto scritto per l’illusionista Houdini: “No! Gli ippopotami non dovrebbero avere mani umane, né portare torce!”. L’uso di una tale terminologia a effetto adesso farebbe sì che lo sventurato e ingenuo scrittore “colpevole” vedesse rifiutato il proprio racconto da una sponda all’altra dell’oceano ma, paradossalmente, è proprio questo tipo di scrittura la più capace di attrarre il mondo dell’adolescenza e dell’infanzia a quell’altro mondo complesso e articolato che è il mondo della paura.

Fernando Savater, fotoIl grande studioso spagnolo Fernando Savater rilevò a suo tempo nel suo libro più evocativo, Creature dell’aria, che l’Universo del terrore è essenziale al lettore bambino o adolescente quanto e più della narrativa d’avventura, e sicuramente due o tre volte più della stucchevole letteratura “di genere” zeppa di folletti, fatine, o licei dove ci si approccia alla vita flirtando o gettandosi in scorribande con “amici compiacenti”. Il Terrore è la prima rappresentazione dell’Ignoto della vita in generale, la conquista o la morte nella città oscura di R’lyeh è una rappresentazione più vera del mondo di quanto non lo sia il liceo, la casa o la scuola, perché è la prefigurazione dell’irrazionalità dell’esistenza. Il vasto mondo è un gioco a incastro di porte davanti alle quali stanno in agguato guardiani terribili, e sapere di cosa sia fatta la paura insegna le parole di potere con le quali esorcizzarli.

Il tipo di linguaggio che usa Lovecraft, diretto, preciso e scientifico, e al tempo stesso fortemente aggettivato, piace ai suoi lettori adolescenti, si insinua nella tradizione del pulp e sfocia nella narrativa popolare di uno Stephen King o di un Dean R. Koontz, i quali pur di arrivare all’obbiettivo prefisso (generare terrore) non disdegnano affatto l’uso letterario dello slang.

Questo uso spregiudicato della lingua manca in Europa, in Francia e soprattutto in Italia, ancora imbalsamata in trite costruzioni sintattiche di tipo D’Annunziano che neppure Carlo Emilio Gadda riuscì a esorcizzare. Già a suo tempo, Pier Paolo Pasolini avvertiva nelle sue Lettere Luterane dell’esistenza di un “gap”, adesso diventato insondabile, apertosi fra linguaggio “giovanile” e cosiddetto “linguaggio colto”. Adattare il primo alle esigenze obsolete del secondo, non solo impedisce il necessario scambio comunicativo che dovrebbe esistere fra generazioni differenti, ma strozza anche la necessaria evoluzione del linguaggio stesso, lo imbalsama in strutture che non trovano più posto nelle mutate condizioni sociali e culturali, impedisce alla cultura stessa di “evolversi”.

Altro elemento che Houellebecq rileva è la costruzione “Architettonica” di Lovecraft. All’interno della sua macchina perfetta e coerente, il disgusto e l’orrore vengono sapientemente preparati con una ricca gamma di sfumature olfattive, sonore e tattili prima che meramente visive. Houellebecq cita la costruzione del terrore tal come si sviluppa in “The Shadow Over Innsmouth”: i suoni risucchianti emessi dagli “ibridi”; la sensazione costante di trovarsi in un luogo ostile, formato da superfici viscide; l’odore di pesce marcio che si fa via via più opprimente… Tutte sensazioni che solo la tecnica narrativa di Lovecraft può illustrare e, in questo caso, solo la letteratura.

Nel suo paragrafo “E allora vedrete una possente cattedrale”, Houellebecq attira l’attenzione anche sull’entusiasmo da sempre mostrato da Lovecraft per l’architettura, riportando, a titolo di esempio, la descrizione epistolare che fa alla zia della città di New York:

“Ammirando quella prospettiva mi sono sentito quasi svenire di frenesia estetica – quell’atmosfera vespertina con le innumerevoli luci dei grattacieli, i riflessi sfavillanti e i fanali dei battelli che scivolavano sull’acqua – a sinistra la scintillante Statua della Libertà e a destra il lucido arco del ponte di Brooklyn. Era qualche cosa di ancora più possente dei sogni della leggenda del Vecchio Mondo – una costellazione di una maestà infernale – un poema tra le fiamme di Babilonia! […]”.

H.P. Lovecraft: contre le monde, contre la vie, 1999, copertinaDi fronte a una tale maestosa ammirazione, Houellebecq non può che annotare: “Non è azzardato supporre che qualche giovane, uscito pieno di entusiasmo dalla lettura dei racconti di Lovecraft, si sia sentito spinto a intraprendere lo studio dell’architettura”. Tali descrizioni ricorrono sia in “The Dreams in the Witch House”, con le sue geometrie non-euclidee, le superfici verdastre, le luci irreali, sia in “The Call of Cthulhu”. Il rapimento estetico di Lovecraft è di ordine architettonico, il senso di orrore e straniamento è invece olfattivo, uditivo e tattile, ecco perché il cinema e le arti visive non sono state mai capaci che di mediocri imitazioni della narrativa lovecraftiana. In altre parole, la letteratura in Lovecraft è carne, sangue (anche se non sempre umano) e struttura; un organismo a sé stante, una macchina mitologica che saccheggia da linguaggi eterogenei, sensazioni eterogenee, ma non può essere saccheggiata.

Altra spinosa questione la offre il tema del razzismo di Lovecraft. Houellebecq rileva, e non è il solo a farlo, che la xenofobia di tipo manierato di cui Lovecraft dà prova durante il periodo passato con le zie a Providence, subisce una escalation progressiva e drammatica durante il suo trasferimento a New York e il suo matrimonio. In una realtà tentacolare e competitiva come quella di una grande città, non c’è alcuno spazio per il senso di purezza razziale “WASP” che Lovecraft abitualmente esibisce. Gli immigrati sono più duttili e si gettano a capofitto in quella realtà meschina e commerciale che Lovecraft disprezza. Nondimeno la penuria monetaria, acutizzatasi con il matrimonio, costringe Lovecraft a una serie di compromessi frustranti e alla constatazione del fatto che, nonostante i suoi sforzi, non riesce a trovare impiego.

I non-americani sono doppiamente colpevoli, per Lovecraft, di riuscire a trovare lavoro nonostante un americano “autentico” come lui non ci riesca, e di gettarsi senza remore in quella vita ribollente e movimentata che egli disprezza, e contro la quale sempre si è battuto. Ma nonostante le apparenze, è questa seconda constatazione, più che la prima, a esasperare l’ostilità dello scrittore. Per meglio comprendere in che consista quest’ultima affermazione, sarà forse d’aiuto riportare un estratto da una storia di Thomas Ligotti, uno dei continuatori più geniali e originali dell’opera di Lovecraft, tratto dal suo racconto “Severini”:

“Il mio corpo, un tumore che una volta fu estratto dal corpo di un altro tumore, un pezzo di malattia che sta sempre cuocendo la sua propria malattia. E nella mia mente un’altra malattia, la malattia della malattia. Da tutte le parti, la mia mente vede la malattia di altre menti e altri corpi, questi altri organismi che sono solo altre malattie, un incubo totale dell’organismo. «Dove mi porta!» gridò (gridammo) alle facce marroni e giallastre. «Dobbiamo risolvere il problema dell’infezione intestinale lo sappiamo, lo sappiamo». Ripeterono quelle parole per tutto il cammino, come sembrava, mentre la città scompariva dietro gli alberi e gli arbusti, tra i fiori giganteschi che odoravano di carne putrefatta e i funghi e la mucillagine della cloaca tropicale. Conoscevano la malattia e l’incubo perché vivevano in quel luogo dove l’organismo cresceva senza restrizioni, con quelle forme tanto variate e esotiche, verso un destino dal quale non poteva fuggire”.

È una descrizione abbastanza fedele di come Lovecraft concepisce la vita a New York, di come percepisce la sua e la altrui malattia, che è la malattia di vivere nell’anonimato e nella penuria, l’altra faccia del sogno americano di “melting-pot”. La consapevolezza di appartenere a un unico organismo malato, malato di vivere un’esistenza bruta, fatta di morte, nascita, riproduzione e ancora morte. Un’immensa giungla tropicale dove la vita si manifesta nella sua essenza marcescente, protetta da un’architettura grandiosa e straniante.

Nell’esperienza a New York di Lovecraft, rileva Houellebecq, ci sono “in nuce” tutti i “Grandi testi” dell'autore del Rhode Island, ma soprattutto è paradossalmente in questo suo razzismo esasperato (non esita a paragonare gli immigrati a funghi di palude e limo) che Lovecraft ritrova il suo posto nell’umano consesso. Diventa parte integrante, che lo voglia o no, di “quell’organismo tumefatto” che è la vita, si sporca anche lui di quel limo primordiale, ritrova quella condivisione che aveva sempre evitato con i suoi modi da affettato gentiluomo anglosassone, e questa esperienza corale e comunitaria assume il peso di una Rivelazione, oscura e potente.

H.P. Lovecraft: Against the World, Against Life, 2009, copertinaNella sua prefazione (postfazione, nell’edizione italiana) Stephen King riassume per noi i paragrafi di Houellebecq in un’unica poderosa frase che, per dirla con lo scrittore francese: “sono la formula per fallire nella vita e riuscire nell’arte. Anche se su quest’ultimo punto il risultato non è garantito…” e la frase è: “Aggredisci la storia come un raggiante suicidio, afferma senza timore il grande NO alla vita, allora vedrai una magnifica cattedrale e i tuoi sensi, vettori di un indefinibile sconvolgimento, tracceranno un intero delirio che si perderà nelle innominabili architetture del tempo”. La frase con la quale Houellebecq riassume la narrativa di Lovecraft e quella dei suoi continuatori più dotati e ricettivi.

È curioso notare come una certa parte della critica anglosassone non sia altrettanto pronta a riconoscere la posizione assolutamente innovativa che Lovecraft occupa nella letteratura gotica, sia a livello stilistico che di vera e propria coerenza filosofica. Uno fra tutti proprio David Punter, peraltro originale e coraggioso partigiano del genere Gotico, così parla dello scrittore di Providence: “Forse non occorre dire molto di più su Lovecraft: la sua prosa è rozza, ripetitiva, leggibile dietro coercizione, la quintessenza della narrativa popolare. Nella maggior parte dei casi egli riduce i motivi gotici a una sorta di meccanismo; il suo posto nella tradizione non è quello di un innovatore e neppure di un modificatore, ma è più quello di un rievocatore dell’ultim’ora degli antichi orrori …” dove prima il critico aveva insistito sulle “rimozioni” (freudiane) di tipo “razziale e sessuale”, nonostante Stephen King (pure elogiato da Punter) abbia già rilevato che racconti come “L’orrore di Dunwich” e “Alle montagne della follia” contengano ben poco all’infuori dell’elemento sessuale.

Un altro chiaro caso di “nemo profeta in patria”, al quale Houellebecq e altri hanno doverosamente e esaustivamente risposto. La nostra critica, peraltro, tende ancora a svincolare la produzione narrativa di Houellebecq da questo saggio, che si conosce ancora per sentito dire e per “passaparola”. Naturalmente, la biografia di Joshi è più esaustiva e completa, soprattutto considerando che Joshi non insiste “solo” sugli aspetti rimarcati da Houellebecq, ma anche così il saggio dello scrittore francese raggiunge una certa sorta di completezza fra vita e stile di Lovecraft, che è quanto vogliamo leggere, oltre al fatto che è il primo tentativo da parte di un intellettuale europeo non “di nicchia” di confronto “serio” con la narrativa del Maestro di Providence. Non resta che augurarci uno sforzo simile anche da parte dei nostri.

Bibliografia:
Michel Houellebecq, H.P. Lovecraft contro il mondo contro la vita, postfazione di Stephen King, Bompiani, 2005
David Punter, Storia della letteratura del terrore, Editori Riuniti, 2000
Thomas Ligotti, The Nightmare Factory, Carroll & Graf, 1996
Fernando Savater, Creature dell’aria, Ed. Instar, 1993
Pier Paolo Pasolini, Lettere Luterane, Einaudi, 1976

Mariano D’Anza

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