venerdì 3 giugno 2011

William Hope Hodgson: un mozzo nel mare senza maree

Articolo in tre parti.

William Hope Hodgson, fotoLa letteratura marinaresca possiede da sempre i suoi eroi e i suoi martiri. Dal metafisico Hermann Melville all’immenso Joseph Conrad l’animo umano con le sue tormente e i suoi mostri marini si rispecchia, si moltiplica e fa naufragio sulle barriere coralline dell’ignoto e del meraviglioso. Il viaggio sulla nave come viaggio dell’anima sui vascelli del fato, della morte o della visione salvifica è un tema antico quanto il mondo; parte con i famosi Nòstoy (ritorni) degli eroi Achei di volta dal saccheggio di Troia, di cui solo uno, quello di Ulisse, Omero ci ha cantato, e approda con lo shakespeariano Moby Dick nel gorgo della coscienza occidentale.

Fra tutte queste voci di naufraghi, non debole fu quella di William Hope Hodgson, la cui opera fu forse eccessivamente legata a quelle entusiastiche ma attente pagine che H.P. Lovecraft gli dedicò nel saggio “Supernatural Horror in Literature”, sicuramente ignorato dalla “Grande” critica, a torto, dato che per potenza visionaria molte delle sue pagine si possono tranquillamente avvicinare alle profezie di Blake. Hodgson entra di fatto e a pieno diritto nella “famiglia” dei narratori “di razza”. Nasce nel 1875 a Blackburn, Inghilterra, ed è secondo di tredici fratelli (tre moriranno in giovanissima età). Rampollo di famiglia medio-piccolo borghese (il padre fu pastore anglicano), contro il consentimento del Genitore decide di imbarcarsi a quattordici anni, come Conrad, come Melville, come molti altri giovani inglesi e americani, in preda all’inquietudine di una Civiltà avanzata ma ancora fortemente attratta, al contrario di quella attuale, da quella sete di esplorazioni e di ignoto propria di una Mondo le cui ombre sono uguali per numero, se non superiori, alle luci.

Melville dedica alcune ispirate pagine del suo Moby Dick a quella categoria di marinai “intellettuali” giovani, inesperti, con la mente ancora piena di immagini auliche di paesaggi marini, i quali di vedetta sul pennone di maestra d’un brigantino o di una baleniera cadono nel vuoto rapiti dal vento di maestrale mentre, romantici, speculano su di un tramonto scarlatto. La caduta di Hodgson, giovane avventuriero anche lui, non fu di ordine fisico, ma etico, morale e psicologico. Imbarcatosi come mozzo su di un brigantino, fu fatto oggetto di scherno dai marinai più vecchi, picchiato, umiliato e infine violentato dal sadico capitano, vittima volontaria di un mondo duro, selvaggio e crudele di cui la sua precoce erudizione non lo aveva sufficientemente informato.

Men of the Deep Waters, 1921, copertinaDopo il primo, umiliante contatto con quel Mondo, il non più giovanissimo Hodgson si reimbarca per altri due anni, per poi infine abbandonare i mari. Ma quell’esperienza resta con lui per mai più abbandonarlo. Contrariamente a quanto si possa pensare, Hodgson non spende che poche parole accidentali per le dure, umilianti condizioni di quanti si guadagnino da vivere con nient’altro se non la tavola di legno di una tolda a separarli dall’Abisso, vi è ben poco in lui dello sdegno di un Jack London o dell’ansia di rivalsa sociale di un Melville. I suoi protagonisti sono praticamente tutti giovani marinai semplici, la cui erudizione, cultura e preparazione potrebbe benissimo garantire loro una carriera da ufficiali, ma che alcune sconosciute “coincidenze” o “disgrazie” hanno relegato nel faticoso mondo della umile manovalanza ed è a quel mondo che Hodgson rimane legato. Gli orrori che egli descrive non sono quelli della natura non domata, né quelli dell’ingiustizia di classe che separa gli Ufficiali dalla ciurma, ma quelli del cuore e della mente, della visione e della percezione che scardina le differenze sociali, le appiana, le “affratella” in una corale alleanza contro le unanimi e universali potenze del Caos e della Follia. In lui vi è l’aristocratico sdegno (che diverrà ben presto borghese) del “signorotto” che si rifugia in un fittizio mondo di orrori per non essere travolto dall’Orrore reale e prosaico, ma al tempo stesso la sua profonda sensibilità lo rende lucido e attento alle “infiltrazioni” del Fantastico interiore nel mondo “esteriore”. Forse è stata questa componente “romantica” interiore di Hodgson a causare l’ablazione della sua opera da parte della critica “ufficiale”, ma ciò che non si comprende pienamente di Hodgson è proprio l’originalità del suo approccio narrativo, che ha avuto l’innegabile merito di “innestare” il genere gotico direttamente in quello di avventure marinaresche, per operare la generazione di una pianta che, come vedremo, ha dato strani frutti.

Il romanzo The Boats of the Glen Carrig (Naufragio nell’ignoto) inizia con poche descrizioni, anche in questo Hodgson si dimostra narratore estremamente equilibrato. Due barche di naufraghi solcano il mare in tempesta, in lontananza un’isola: promessa di salvezza o fonte di nuovi orrori? Capiamo da subito di stare leggendo un romanzo d’avventura e di quelli buoni. Le barche si immettono ben presto in una laguna e circumnavigano le sue strane coste, dove si infittisce una vegetazione esotica che non assomiglia a nulla di quanto visto in precedenza dagli esausti uomini di mare. Infine il relitto di una nave si profila in lontananza, i naufraghi attraccano. Segue l’esplorazione del relitto, la ricerca spasmodica di provviste. Il classico diario di bordo fa la sua apparizione in un cassone, parla di orrori senza nome, di una strenua resistenza, di un’inevitabile sconfitta. Cala la notte e comincia l’Orrore. Termina il racconto di mare e si inserisce la Ghost Story, ma capiamo da subito che si tratta di un Soprannaturale diverso da quello cui siamo abituati. Qui non vi sono Spettri di trapassati, malvagi in vita e in morte ma pur sempre umani: qui siamo naufraghi in isole senza nome, viaggiatori sperduti su lidi che non hanno mai conosciuto presenza umana alcuna e sicuramente non desiderano conoscerla.

The Boats of the Glen Carrig, 1920, copertinaUn pianto straziante si fa udire dalla costa, mentre una presenza enorme e invisibile percorre famelica i corridoi del relitto. Le assi scricchiolano nello sforzo di sopportare un peso immane, si odono risucchi e fantasmi uditivi di suoni indescrivibili, sono notti di orrore e di angoscia. Infine i naufraghi riescono a caricare sulle scialuppe le provviste superstiti e a riguadagnare il mare, ma non prima di aver assistito all’ultimo orrore; il lamento che si ode dalla riva proviene da esseri umani convertiti in piante per opera di una abominevole metamorfosi, della quale pare essere confusamente responsabile l’orribile creatura che ogni notte percorre, famelica, il relitto. Il resto del romanzo è un susseguirsi di avventure che mantengono fino alla fine il sottile equilibrio narrativo introdotto da questo primo episodio; tentacoli immondi sorgono dalle acque per ghermire esseri umani, strani incroci fra uomini e seppie si avvicinano a bivacchi notturni accesi con sterpi e alghe putrefatte, albe infuocate precedono terribili uragani…

Le peripezie dei naufraghi di Hodgson sono peregrinazioni del lato oscuro e ancestrale del cervello umano, quello che ancora ricorda, sotto forma di terrori ignoti, le grida delle bestie feroci nel buio senza fine dei luoghi desolati, suoni agghiaccianti dell’inconscio senza forma, che sottoposto alle pressioni dell’ignoto, della fatica e della solitudine genera mostri, figure spaventose che vivono all’interno e alla periferia di ciò che pensiamo di conoscere e dominare. L’approdo all’isola dei lamenti pare uscire direttamente dalle pagine dell’Eneide di Virgilio, laddove Enea fa sgorgare sangue umano da ciò che credeva essere null’altro che un semplice arbusto. L’Ignoto è una perversione totale di ciò che è umano e vegetale, o umano e animale (gli uomini-seppia), una mescolanza di generi e una loro totale e bruta depravazione, come “i fiori che cantano” di Arthur Machen, “Sacramenti del Male” che vengono operati al di fuori delle rotte conosciute.

Laddove le carte nautiche tacciono, “Hic sunt Leones”. L’idea di una trasmutazione pervasivamente antinaturale si incontra meglio sviluppata in quello che è forse il racconto più riuscito di Hodgson e che viene a ragione inserito dal critico Mike Ashley fra i dieci racconti del terrore più agghiaccianti di tutti i tempi, “A voice in the night” (“Una voce nella notte”). Un Brigantino incappa all’imbrunire in un’isola la cui unica forma di vegetazione pare essere costituita da null’altro se non grigie escrescenze fungoidi. L’ora tarda unita allo sfinimento della ciurma congiurano affinché la nave non possa attraccare. La notte trascorre in maniera apparentemente tranquilla, poi, nel cuore della notte, uno sciacquio di remi unito al rumore di una voce lontana e stranamente innaturale allarma l’equipaggio. Si tratta di un naufrago proveniente dalla strana isola, che non vuole essere visto e non vuole avvicinarsi troppo alla ciurma. Cerca provviste e offre, in cambio, una storia allucinante. Parla di un viaggio in mare in compagnia della giovane sposa, dell’ennesimo naufragio, di un isola (quella) ricoperta da una strana vegetazione. Le provviste terminano e l’unica forma di alimento è costituita da quegli strani, enormi funghi. I due sposi novelli cercano di tenersene lontani avvertendo la promessa di un orrore incombente, poi infine la donna cede e mangia di quel “frutto”.

The Ghost Pirates and Other Revenants of the Sea, 2005, copertinaÈ l’inizio dell’incubo. La struttura corporea della donna cambia, la voce si fa fonda e cavernosa, la carne gelatinosa, grigiastra ed elastica. Un raggio di sole all’alba illumina una cosa grigiastra che non è né completamente umana né totalmente vegetale, mentre infine il naufrago rema verso l’isola dei funghi, dando le spalle alla nave e togliendo così all’attonito equipaggio qualsiasi voglia di sondare ulteriormente il mistero dell’isola grigia. Le vicissitudini del protagonista narrante di “A voice in the night” chiarificano anche alcuni punti oscuri dell’avventura iniziale di The Boats of the Glen Carrig: l’orrore reale, così come in Machen, risiede nella trasmutazione che il Male opera sulla natura umana, vegetale o animale. Non è tanto l’orrore dell’Insolito, che pure è presente, quanto quello della “contaminazione”.

In “Lamie” (“Middle Islet”), creature mostruose metà donne e metà pesci, che gettano una luce inquietante sul mito universale delle sirene, assediano l’equipaggio di una nave finita fuori dalla sua rotta; condividono con i pesci l’assoluta sconfitta di qualsiasi umana pietà, subordinata al semplice bisogno di nutrizione, fisica o spirituale che sia. Nel racconto “Il Mostro” (“A Tropical Horror”) un marinaio si sveglia per trovare la nave invasa dalla presenza di un orribile e gigantesco serpente marino apparentemente indistruttibile, che divora a uno a uno i membri dell’equipaggio. In Hodgson, anche quando la natura pare costituire l’unica spiegazione possibile all’orrore è sempre una natura ambigua, mutante, oscena. La carta nautica del Mondo rivela punti oscuri, maree immobili e innaturali come il Mar dei Sargassi, palude oceanica di relitti abitata da mostri e morti viventi, dove l’Ignoto si apre in squarci oscuri, all’interno e all’esterno dei quali dormono i terrori ancestrali dell’umanità, il limo originale della Creazione, quando il futuro DNA dell’“Homo sapiens” si combinava a quello dei rettili preistorici, dei pesci abissali e delle fameliche e cieche creature senza nome.

Hodgson impartisce a Lovecraft la prima vera lezione sul “Nuovo Orrore in Letteratura”, il raccapriccio “uditivo”. Le Creature abissali di Hodgson annunciano la loro presenza con tonfi, risucchi, urla innaturali, stridii che conducono alla pazzia e al crollo della percezione, come nel racconto “Il Mostro”. Il disgusto “olfattivo” e “tattile-gustativo” interviene subito dopo. Nel leggere delle vicissitudini occorse alla sfortunata coppia di “A voice in the night” avvertiamo uno strano sapore in bocca, gommoso e con un retrogusto di terra e putrefazione, fantasma gustativo di una ributtante metamorfosi, promessa di una regressione all’organismo procariotico e monocellulare molto simile a quella subita dal protagonista macheniano di “The Novel of the White Powder” (“La polvere bianca”).

Il Mare di Hodgson è in realtà la più fedele e intelligente rappresentazione dell’Inconscio collettivo “Ante Litteram” mai concepita da un autore di letteratura fantastica. L’Oceano è il luogo dove l’orrore interno del rimosso si combina con l’orrore esterno dell’ignoto, con la paura dell’abisso: anche solo per questo Andrè Breton avrebbe dovuto includere l’opera di Hodgson all’interno delle letture “ispiratrici” del movimento surrealista. Sarà invece l’intelligente e acuto Michel Bernanos, ottimo scrittore storico del movimento surrealista, a omaggiare le implicazioni psicologiche, metafisiche e organiche di Hodgson nel bellissimo romanzo di mare La montagne mort de la vie (La montagna morta della vita), a ulteriore testimonianza del fatto che se la critica cosiddetta “ufficiale” dorme, molti intelletti fortunatamente svegli “pigliano pesci”…

The Ghost Pirates, 1981, copertinaL’Intuizione che Hodgson ebbe sull’Inconscio collettivo si sviluppa, con conseguenze ancor più agghiaccianti a livello di struttura nel bellissimo romanzo The Ghost Pirates (I pirati fantasma). Dal diario di bordo dell’ennesimo “alter-ego” di Hodgson, assistiamo alle peripezie di un brigantino che nel seguire la sua rotta semplicemente “scompare”, entrando in un’altra dimensione, laddove viene perseguitata da una nave sottomarina. La nave fantasma si rivela ben presto abitata da creature umbratili e malvagie, di cui Hodgson non chiarisce la natura definendoli “pirati” per le loro azioni predatrici, ma solo una volta e solamente nel titolo. Le creature, infatti, si dedicano a rapire a uno a uno i membri dell’equipaggio. Per citare Jung, ci limiteremo a dire incidentalmente, che Il mito della nave “risucchiata” da un’altra dimensione conobbe un’incredibile fortuna negli anni 70-80 con il famoso “Triangolo delle Bermude”, zona maledetta del Globo terracqueo, dove scompaiono navi e aerei e dove gli apparecchi elettronici tacciono le normali comunicazioni emettendo in loro vece rumori non identificabili. Frutto di quello strano fenomeno che lo psicologo e “Guru” svizzero includeva nella categoria delle “Coincidenze”? Ovvero quei misteriosi processi attraverso i quali l’Inconscio collettivo chiarifica le proprie inquietudini creando Miti le cui origini sono difficilmente rintracciabili? Fatto sta che Hodgson, pur se è dubbio che avesse in mente un luogo reale al momento della stesura di questo Romanzo eccezionale, fa un uso eccellente di tale espediente letterario.

Il momento in cui il brigantino dove si trova il protagonista, sorta di allucinato Ismaele, incrocia una nave che gli viene addosso e lo attraversa in quanto oramai “non fa più parte di questa dimensione” è semplicemente magistrale. La tensione romanzesca si taglia col coltello. Occhi allucinati assistono all’emergere dagli abissi dell’Ombra di un vascello fantasma, sui cui ponti ribolle una strana attività. I marinai salgono sui pennoni e vengono assaliti da ombre implacabili che scivolano sulle tolde umide di acqua marina preparando il massacro finale… Neppure una volta in tutto il racconto ci viene detto che tipo di entità sono quelle ombre oblunghe e dai baluginanti occhi verdastri e maligni che trascinano le navi in altre dimensioni e rapiscono i loro equipaggi in un mondo di tenebra che è uno specchio oscuro della nostra realtà. Possiamo solo inferire una confusa visione d’insieme a partire dai dettagli che Hodgson ci offre. L’ombra della nave fantasma emerge da “sotto” la superficie del Mare, il Mare è dunque uno specchio, attraverso il quale il protagonista, che è anche una versione maschile della Alice di Carrol, entra in contatto con la parte oscura e caotica dell’Universo. L’immagine è talmente potente da ispirare, più avanti negli anni, il racconto “Le psaultier de Mayence” (“Il salterio di Mayence”) di quell’altra figura di marinaio-scrittore (o estroso truffatore) che fu Jean Ray.

[Continua]

Mariano D’Anza

3 commenti :

  1. Devo fare una precisazione su di un dato biografico che ho fornito nella prima parte di questa disamina. Non esiste alcuna fonte certa sul fatto che Hodgson sia stato effettivamente violentato. Ciò che si è certo è che abbia subito prepotenze da parte di un ufficiale. Le mie conclusioni vengono dall'analisi su alcune fantasie macabre del nostro e su alcuni parallelismi stabiliti fra la vicenda personale di R.E.Howard e la sua. Entrambi manifestarono l'esigenza impellente di riaffermare la loro mascolinità una volta superata l'età adolescenziale (Howard con la boxe e Hodgson con il "Body building"). Sappiamo che per Howard si è trattato di un disturbo proveniente in larga parte dalla sfera affettiva e dal suo rapporto edipico con la madre, ma il caso di Hodgson è più oscuro e lascia aperte molte congetture. Posso solamente dire che casi di violenze sessuali operate a danno di giovani mozzi non erano infrequenti sulle navi della "Royal Navy" in età vittoriana e dopo. Ciò è dovuto sia ai tipici casi di omosessualità latente, presenti all'interno di una società molto chiusa e rigidamente divisa in classi, sociali e sessuali, quale fu la società britannica di quel periodo, sia alla "guerra sociale" fredda e calda che si combatteva giornalmente sulle navi, dove molti marinai venivano arruolati con la forza o per casi di grave indigenza. Hugo Pratt narrò di un caso simile nel suo bellissimo "Coniglia bianca", ma esistono altri casi documentati. Per una disamina della sessualità in età Vittoriana (anche se incentrata su di una sfera differente da quella qui trattata) rimando al mio articolo in due parti sulla vita di Matthew P. Shiel, sempre pubblicato su Weirdletter.
    Mariano D.

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  2. Grazie Mariano. In effetti non ritrovavo il particolare confermato in alcuna fonte biografica, ma è anche vero che non le conosco tutte.

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  3. Di prevaricazioni a bordo e di capitani violenti si occupa comunque in qualche suo racconto marinaresco non fantastico (nei 5 voll. Night Shade).

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